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Bobby Charlton santo protettore del calcio inglese
28 nov 2023
Un ricordo del leggendario giocatore inglese, scritto da David Winner.
(articolo)
9 min
(copertina)
Illustrazione di Antonio Pronostico
(copertina) Illustrazione di Antonio Pronostico
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Traduzione di Caterina Capelli, sul sito, qui, trovate anche la versione originale in inglese.

L’ultima volta che mio padre è stato in grado di parlare, abbiamo parlato di Bobby Charlton. In quel periodo, alla casa di riposo, ci limitavamo per lo più a tenerci stretti per mano.

La mattina della finale dei Mondiali del 1966, per distrarsi dalla partita, Bobby Charlton lasciò l’hotel della Nazionale inglese per venire in un negozio del nostro quartiere, a cambiare una maglia.

Se solo quella mattina avessimo deciso di uscire a passeggio, ci saremmo potuti imbattere nel più grande calciatore d'Inghilterra, appena prima del suo trionfo. Ma non importa, quella giornata fu perfetta così. Guardammo la partita dal nostro televisore in bianco e nero, l’Inghilterra vinse, ed è ancora uno dei più bei ricordi della mia infanzia.

Ma il cancro aveva ormai reso mio padre terribilmente debole. Tutto quello che riuscì a dire in quell’occasione fu: «Bobby Charlton? Sì, me lo ricordo». Se ne andò un paio di giorni dopo.

È normale che il ricordo di quella gioia incontaminata oggi si fonda col dolore, e si mischi alla memoria della figura di Bobby Charlton, capace di donare grande gioia, eppure così pieno di sofferenza.

Alla fine degli anni ‘60 era il miglior calciatore del mondo: rapido e forte, non era uno che dribblava gli avversari, ma li superava in velocità. Distribuiva passaggi per tutto il campo, sparando quelli che nei giornaletti calcistici dell’epoca venivano chiamati "colpi di cannone" (il lessico militare dell’Impero in quel periodo influenzava ancora il linguaggio calcistico inglese). Quasi tutti i più bei gol di Bobby, compreso il più famoso – un tiro da 25 metri contro il Messico nel ‘66 – erano “screamer” dalla lunga distanza.

Ancor più importante delle sue prodezze, era la sensazione della sua grande integrità.

Mai espulso e nemmeno ammonito, “Saint Bobby” era considerato lo sportivo per eccellenza: malinconico e modesto, bello e ligio, era l’uomo inglese ideale, e trascendeva il calcio. Come ha scritto Richard Williams dopo la sua morte, avvenuta il mese scorso, “Nella memoria collettiva, Charlton esiste come una forza del bene, fatta di luce e velocità, artista e simbolo del “beautiful game” tanto quanto Pelé”.

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Nel novembre del 2020, cinque mesi prima che mio padre morisse, la famiglia di Charlton riferì che Bobby soffriva di demenza, la malattia che aveva già ucciso suo fratello maggiore Jack, e altri tre membri della squadra della finale inglese del ‘66.

L’Inghilterra della mia infanzia felice stava scivolando via, fisicamente.

Il mese scorso, due settimane dopo l’inizio del conflitto tra Israele e Hamas (che ha oscurato la notizia), la famiglia ha annunciato la morte di Bobby. Questo atleta eccezionale, un tempo celebre per il suo straordinario equilibrio, aveva provato ad alzarsi da una sedia nella sua casa di cura, si era rotto le costole cadendo, e aveva poi contratto una polmonite. Mi aspettavo grandi manifestazioni di lutto nazionale, ma erano passati più di 50 anni dal suo periodo di massimo splendore, e il cordoglio pubblico è stato sorprendentemente silenzioso.

Something to do With Death, il titolo della straordinaria biografia di Sergio Leone scritta da Christopher Frayling, sarebbe stato perfetto anche per Bobby Charlton, perché tutto, nella sua vita, è stato influenzato dagli eventi del 6 febbraio 1958.

Aveva 20 anni, e stava rientrando coi suoi compagni del Manchester United da una partita di Coppa dei Campioni a Belgrado. La grigia Gran Bretagna del dopoguerra era elettrizzata dalla bellezza e dall’energia giovanile dei “Busby Babes” – erano giovani, e il nome del loro allenatore era Matt Busby. Quella squadra era il futuro finché, con scioccante rapidità, non diventò il passato.

Su una pista di atterraggio innevata nei pressi di Monaco, l'aereo bimotore “Elisabettiano” della squadra si fermò per fare rifornimento. Per due volte non riuscì a decollare, poi prese di nuovo velocità sulla pista…ma non riuscì mai a staccarsi dal suolo. Rallentato dal fango, l'aereo si schiantò contro una casa e si spezzò a metà, e la sezione di coda sbandò contro un fienile dove era parcheggiato un camion di carburante.

Ventitré persone a bordo morirono, compresi otto dei “Babes”, e il capo steward, un quarantenne gallese ex militare della RAF di nome Tom Cable, col cui figlio piccolo, Rob, avrei poi giocato a calcio a scuola.

Bobby, scaraventato fuori e trascinato in salvo dal portiere della squadra, Harry Gregg, rimase illeso fisicamente. Psicologicamente, però, non si riprese mai del tutto.

Cinque giorni prima dello schianto, i “Babes” avevano giocato la loro ultima, stupefacente partita in Inghilterra: una vittoria 5 a 4 con l’Arsenal. Mio padre c’era, e ogni volta che ne parlava, aggiungeva: «Bobby Charlton non era nemmeno il miglior giocatore della squadra».

Bobby la pensava allo stesso modo. Considerava il suo caro amico Duncan Edwards un giocatore migliore, persino migliore di Pelé. In fondo, diceva Bobby ogni volta che glielo chiedevano, “Big Duncan”, che aveva solo 21 anni quando morì, era probabilmente il più grande giocatore di sempre.

L’incidente aereo di Monaco è l’equivalente inglese della strage di Superga del 1949, ma, a differenza della tragedia del Torino, il Manchester United risorse. Anche in un’Inghilterra in rapida secolarizzazione, era difficile non notare la risonanza dell’evento. Monaco e la conseguente voglia di redenzione divennero l’asse centrale della nuova identità dello United.

La tragedia fu sentimentalizzata, commercializzata, e, talvolta, ridotta al kitsch. Per chi l’aveva vissuta, però, le emozioni restavano crude. Bobby non parlò mai della tragedia con i suoi compagni rimasti in squadra dopo gli eventi di Monaco. Persino 60 anni dopo, l’argomento restava un tabù.

In qualche modo, anche l’allenatore Matt Busby riuscì a sopravvivere. Quando si riprese, tornò a lavoro e, negli anni 60, costruì un altro grande United, questa volta attorno a Bobby.

Altre figure chiave di quella squadra erano l'attaccante Denis Law (per un breve periodo, tristemente, al Torino, ora anch'egli affetto da demenza) e il giovane George Best, un altro genio dannato che alla fine morì alcolizzato. Bobby, appassionato, bellissimo e ancora in lutto, era l'anima della squadra.

Illustrazione di Antonio Pronostico.

Dopo Monaco avrebbe voluto lasciare il calcio, ma un medico lo convinse ad andare avanti, come fanno i soldati, per i suoi “compagni caduti”. Arrivò a pensare che vincere per loro fosse l’unico modo per dare un senso al fatto di aver continuato a giocare.

Così, dieci anni dopo Monaco, guidò lo United alla vittoria 4 a 1 sul Benfica nella finale di Coppa dei campioni, il trofeo che i suoi fantasmi, da vivi, erano morti provando a vincere. Al termine della partita, sul campo di Wembley, Bobby e Busby si abbracciarono in lacrime.

Più tardi, quella sera, all’hotel che ospitava la squadra, Bobby ebbe un collasso nervoso e mancò al ricevimento. Come racconta Gordon Burn nel suo libro Best and Edwards, sua moglie spiegò alle famiglie degli amici scomparsi, che si erano recate a Londra, che "tutto questo per Bobby era stato un po' troppo".

Nel libro, Burn immagina la scena nella sua stanza: “Ogni volta che Charlton provava a entrare in camera da letto, sveniva. Quando provava a sollevarsi dal letto, le gambe non riuscivano a reggere il suo peso. E il domani avrebbe portato sempre la stessa sensazione: il logorante senso di colpa di essere sopravvissuto, quando i tuoi amici erano morti; l’onore di portare la Coppa a casa, acclamati, all’Old Trafford… se proprio doveva toccare a qualcuno di loro, sarebbe dovuto davvero toccare a Duncan”.

Essendo stata la figura di spicco nei due più importanti trionfi calcistici inglesi, al ritiro di Bobby si accompagnò una caduta quasi biblica.

Nella finale del 1966, lui e il tedesco Franz Beckenbauer si erano neutralizzati. («L’Inghilterra ci ha battuti perché Bobby Charlton ha giocato leggermente meglio di me», disse Beckenbauer).

I due campioni si confrontarono di nuovo ai quarti di finale del 1970 in Messico. A 21 minuti dalla fine, l'Inghilterra stava vincendo comodamente 2 a 0, quando Alf Ramsey, l’allenatore, decise di far uscire Bobby per risparmiarlo in vista della semifinale (contro l’Italia).

Bobby aveva visto il suo sostituto scaldarsi e, una volta capito che stava per essere sostituito, aveva perso per un attimo la concentrazione. Beckenbauer riuscì a sfuggirgli, e con un tiro furbo, segnò, sfruttando un errore del portiere Peter Bonetti. I tedeschi, che sembravano sconfitti, si erano ripresi. Ramsey fece comunque uscire Bobby, e l'Inghilterra finì per perdere 2 a 3.

Dopo quel trauma, Bobby si ritirò dal calcio internazionale e, senza di lui, l’Inghilterra non riuscì a qualificarsi per i successivi quattro grandi tornei. Quando finalmente la squadra riuscì a tornare in campo - a Euro ‘80 – alcuni tifosi hooligans organizzarono degli scontri a Torino: uno dei tanti passi fatti verso la strage dell’Heysel del 1985. Nel giro di 15 anni, il calcio inglese era diventato una fonte di vergogna nazionale.

Le cose non andavano molto bene nemmeno allo United. Bobby continuò a giocare fino al 1973, quando, dopo il ritiro di Busby, il club era ormai in forte declino. George Best, il cui stile di vita da playboy Bobby detestava profondamente, era da tempo sulla via dell'autodistruzione. Nel 1974 lo United retrocesse, e alcuni tifosi, hooligans, invasero il campo dell'Old Trafford.

Nella cittadina di minatori di Ashington, nel Northumberland, dove era cresciuto, la genialità di Bobby era chiara ed evidente. Suo fratello maggiore Jack, con cui i rapporti non erano facili, aveva dovuto lavorare più duramente per diventare un grande difensore col Leeds United e con l’Inghilterra.

Giocarono nella stessa squadra nei mondiali del ‘66, ma erano profondamente diversi. In campo, Bobby era l’incarnazione della grazia e della virtù, mentre Jack aveva un’aria goffa ed era noto per i suoi falli. Fuori dal campo, come spiega Jonathan Wilson nel suo libro Two Brothers Bobby, “sembrava insolitamente fuori dal tempo, l’incarnazione di un’epoca precedente”. Un introverso per natura, Bobby simboleggiava l’Inghilterra della stoica sopportazione e del fair play. Al contrario, Jack, un estroverso, era vivace, ribelle, e rappresentava ciò che doveva ancora arrivare: i sistemi, il pressing, il razionalismo. Jack divenne un allenatore di successo, soprattutto con l’Irlanda. Il tentativo di Bobby di allenare finì dopo due mediocri stagioni col Preston North End.

Vidi Bobby giocare in una partita che, per motivi più politici, suscita ancora malinconia. In un’Inghilterra oggi gravemente indebolita dalla Brexit, è significativo che nel gennaio 1973, in una partita che segnò l'adesione di Regno Unito, Danimarca e Irlanda a quella che oggi chiamiamo Unione Europea, Bobby capitanasse i Tre (nuovi membri) contro i Sei (vecchi membri). Charlton affrontò di nuovo Beckenbauer, e i Tre vinsero per 2 a 0.

Tre mesi dopo, Bobby giocò la sua partita di addio col Manchester United in casa del Chelsea. I ragazzini andarono a vederla dopo scuola, perché aveva l’aria di un evento storico, il tipo di cosa che racconteresti ai tuoi figli e nipoti, come il funerale di Winston Churchill o gli atterraggi lunari.

Ci fu una cerimonia modesta. A Bobby fu consegnato qualcosa. I giocatori si strinsero intorno al cerchio centrale e lo applaudirono. Si cantò il suo nome. Alla fine, Bobby salutò i tifosi, e i tifosi, sia del Chelsea che dello United, sventolarono le sciarpe e gridarono a squarciagola il loro amore. Era un grande onore il solo essere presenti al congedo dal campo di un uomo tanto nobile.

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