Ci sono due Bobby Fischer. Uno è l'enfant prodige che sconvolse gli scacchi negli anni '50, un bambino con la maglietta a righe che batteva campioni adulti e navigati diventando il più precoce – all'epoca – Grande Maestro della storia. Quel Bobby Fischer, poi, si è evoluto nel giovanotto che aveva dismesso gli abiti casual in favore di impeccabili completi eleganti, senza perdere lo sguardo crudele e divertito, quello di chi gode nello schiacciare l'ego dell'avversario. La smania di vittoria condusse questo Bobby Fischer al compimento del suo destino, il titolo di campione del mondo nel 1972, al termine di un percorso più tortuoso del previsto, e forse del necessario.
Il secondo Bobby Fischer, invece, è un desaparecido, un emigrato in lotta con il mondo, che riappare in sporadiche interviste con la barba bianca di un santone ma la rabbia di un uomo perso, tradito, sfogata in invettive contro la sua patria, gli Stati Uniti d'America, le sue origini, gli ebrei, e la sua casa, il mondo degli scacchi.La Regina degli Scacchi, recente serie Netflix di straordinario successo con protagonista Anya Taylor-Joy, pone un what if interessante: cosa sarebbe successo se al posto di Bobby Fischer ci fosse stata una donna, l'immaginaria Beth Harmon della serie, a trascinare gli scacchi nel boom di popolarità che vissero negli anni '60, cavalcando i venti della guerra fredda?
Non è un mistero che la figura di Beth Harmon sia stata ritagliata intorno a quella di Fischer, dalla loro parabola sportiva fino ai vezzi sulla scacchiera e ai drammi personali. Il finale, però, lascia in sospeso un dubbio forse ancora più intrigante: cosa sarebbe successo se Bobby Fischer non si fosse fermato proprio all'apice della sua parabola sportiva?
In un'intervista nel seguitissimo programma televisivo di Dick Cavett, quando ancora Fischer si prestava ad apparire in pubblico mostrandosi loquace e arguto, senza destare particolari sospetti sulla pazzia che lo avrebbe isolato dal mondo, una volta disse: «ciò che contraddistingue i giocatori veramente grandi, è che continuano a insistere (they keep at it) finché non raggiungono il loro obiettivo». Per Fischer quell'obiettivo era il titolo di campione del mondo, ma nella sua mente causa ed effetto erano invertiti: Fischer si considerava già da tempo il miglior giocatore del mondo, non sentiva il bisogno di dimostrarlo. «Io non ho paura di Spassky» disse una volta. «Sono io il giocatore migliore, e non c'è bisogno di un match per dimostrarlo». Si reputava vittima di complotti e sotterfugi che non gli permettevano di emergere, e il titolo non sarebbe stato un traguardo bensì una liberazione, l'attestazione di una verità che gli altri si ostinavano a non accettare. Lo conquistò nel 1972, e se avete sentito parlare di Bobby Fischer pur non essendo appassionati di scacchi, probabilmente il merito è di questo incontro: una serie al meglio delle 24 partite in una Reykjavik presa d'assalto dai media, con gli occhi di milioni di spettatori puntati sulla scacchiera.
Nel clima di guerra fredda, gli scambi di pezzi fra Fischer e Spassky erano un surrogato di soldati, carri armati e missili che s'incrociavano sul campo di battaglia per sancire la superiorità dello schieramento americano o russo. Quando Fischer vinse, spezzò i 24 anni di dominio russo e portò per la prima volta il titolo negli Stati Uniti (dopo Steinitz nel 1888, che era però naturalizzato). L'America tentò di cavalcare il suo successo in ottica patriottica, ma Fischer non prestò mai il fianco a tale interpretazione: sviliva la sua idea purissima degli scacchi e offendeva il suo spirito cosmopolita. Nato in una famiglia di ebrei polacchi filo-comunisti, figlio di un biofisico tedesco o forse di un matematico ungherese, cresciuto imparando più lingue per poter leggere le riviste scacchistiche europee. Una volta raggiunto l'obiettivo, quello che gli faceva dire a se stesso keep at it, Fischer alzò la testa dalla scacchiera e si trovò in un mondo che non conosceva: immerso com'era nella sua passione, gli anni '60 gli erano scivolati addosso come se i Beatles, il Vietnam, Muhammad Ali e i moti del '68 non fossero mai esistiti.
A proposito dell'ingenuità di Fischer, Gudmundur Thorarinsson, l'organizzatore dei mondiali del 1972, racconta che durante la sua prima visita in Islanda Thorarinsson gli indicò una strada, chiamata Alaska Road, e Fischer si meravigliò, dicendo: «Ecco allora dov'è l'Alaska, me l'ero sempre chiesto».
Senza scacchi Fischer si disunì, si sciolse in un guazzabuglio di pretese, paranoie e rancori. Rifiutò contratti di sponsorizzazione plurimilionari, lasciò a piedi la propaganda patriottica del governo americano, lasciò il titolo vacante quando nel 1975 la FIDE, la federazione internazionale degli scacchi, non acconsentì alle sue richieste di modificare il regolamento. Non giocò mai più una partita competitiva, ad eccezione di un bizzarro, poetico e triste rematch con Spassky nel 1992, sotto nuovi venti di guerra, nella Jugoslavia in pieno embargo. Cosa sarebbero potuti essere gli scacchi degli anni '70, '80 e '90 con Bobby Fischer non potremmo mai saperlo, se non con un altro esercizio di fiction. Ma possiamo tornare indietro alla sua breve e folgorante carriera, per capire come la sua influenza si allunghi ancora oggi sulla disciplina, e come il suo spettro abbia abitato le scacchiere di tutto il mondo nonostante il corpo fisico – e in un certo senso anche la sua mente – fossero altrove.
Enfant prodige
Il titolo di “partita del secolo” viene concesso piuttosto generosamente dai commentatori della disciplina, ma non sono comunque molti i giocatori che possono vantarne uno in carniere. Bobby Fischer aveva archiviato la pratica già a 13 anni, il 17 ottobre 1956 a New York, durante il Rosenwald Memorial. Donald Byrne aveva il doppio dei suoi anni ed era campione degli Stati Uniti in carica, ma Fischer lo batté giocando con il nero, partendo quindi da una posizione considerata di svantaggio. Fu il cronista Hans Kmoch a battezzare lo scontro “la partita del secolo”, lodando la creatività, il coraggio e la precisione di Fischer nelle combinazioni e nel finale.
Fischer riuscì a invischiare Byrne proponendogli due audaci trappole: sacrificò il cavallo alla mossa 11 («una delle mosse più potenti di sempre», l'avrebbe definita Jonathan Rowson) e, soprattutto, la regina alla mossa 14. Accettando l'invito, Byrne perse pezzi sulla scacchiera e finì accerchiato dall'attacco di Fischer, che stava già maturando quella che sarebbe stata la sua filosofia sulla scacchiera: non difendere la posizione passivamente in cerca di una patta, ma mettere pressione all'avversario con ogni mossa e, al contempo, preparare il terreno per un'offensiva proveniente da più lati. In segno di rispetto, quando si vide sconfitto, Byrne non dichiarò la resa ma lasciò sviluppare il gioco fino allo scacco matto. Interrogato dai giornalisti sulla prestazione, il giovanissimo Fischer offrì un commento significativo: «Ho semplicemente fatto le mosse che mi sembravano migliori. Ho avuto fortuna». Quella modestia l'avrebbe persa rapidamente, ma avrebbe continuato a pensare che gli scacchi, ridotti all'osso, fossero un gioco semplice: si tratta di fare la mossa migliore, e in ogni situazione esiste un'unica mossa che è migliore di tutte le altre.
Fischer aveva cominciato a giocare a scacchi a sei anni, insieme alla sorella, e ben presto erano diventati un'ossessione che coltivava in solitudine, in ogni momento della giornata. La madre Regina arrivò a inviare un annuncio al Brooklyn Eagle per trovargli un compagno di gioco. Forse gli scacchi appassionarono così tanto Bobby perché a casa Fischer non c'era molto da fare, e il clima non era dei più coinvolgenti per un bambino. La madre veniva da una famiglia di ebrei polacchi ed era emigrata in America nel 1939. Crebbe i figli da sola, in una casa di Brooklyn che era diventata centro di ritrovo per la comunità ebraica locale e per attivisti filo-comunisti, tutta gente che portava sulla famiglia gli occhi dei servizi segreti americani; gente che metteva in imbarazzo Bobby – e fu forse da lì che nacque quell'insofferenza che più tardi si tramutò in antisemitismo – e con cui lui non voleva avere niente a che fare. Ma gli scacchi non erano solo un rifugio; erano un campo di prova per la sua competitività smisurata, per la sua ricerca quasi patologica della perfezione, lo sbocco di un'intelligenza che faticava a stare confinata nella scuola e nei giochi da bambini. Si è scritto e detto molto su cosa avvenisse nella misteriosa mente di Fischer, tutte ipotesi e diagnosi psicologiche in absentia, perché Fischer non aveva fiducia nella medicina e non si sottopose mai a un'analisi. Alcuni, considerando la sua eccentricità nei rapporti sociali, hanno pensato a una forma di autismo o alla sindrome di Asperger. Altri, con in mente le sue richieste impossibili agli organizzatori dei tornei e soprattutto al crollo seguente al 1972, hanno ipotizzato che soffrisse di paranoia o addirittura di schizofrenia: quei due Bobby Fischer, il giovane e il vecchio, come due identità separate e in attrito. C'è anche chi lo ha definito un idiot savant, pensando ai suoi precoci successi, ma in verità Fischer totalizzò un quoziente intellettivo di 180 in un test sostenuto da studente, un risultato che lo porrebbe in una cerchia di pochissimi al mondo, e a cui si allineano numerosi aneddoti. Frank Brady, ex giocatore e suo biografo, racconta di come una volta Fischer lo interrogò sull'esito di un match avvenuto mesi prima, che Brady aveva dimenticato ma che lui ricordava alla perfezione, e di quella volta, in Islanda, che riuscì a ripetere parola per parola, in una lingua a lui sconosciuta, la risposta ricevuta al telefono dalla figlia dell'amico Frederick Olafsson. Un genio a tutto tondo, come amava definirsi lui, «che per puro caso si è dedicato agli scacchi», simile magari al matematico e fisico ungherese Paul Nemenyi che, secondo un'indagine del The Philadelphia Inquirer, sarebbe stato il suo padre biologico.
L'annuncio di mamma Regina sul Brooklyn Eagle rimase inascoltato, ma Bobby trovò comunque dei compagni di gioco: adulti però, gli unici in grado di stare al suo passo. Imparò ad affinarsi e disciplinarsi con gli insegnamenti di Carmine Nigro e Jack Collins, due istituzioni degli scacchi newyorchesi, e da quella partita contro Donald Byrne nel giro di due anni Fischer divenne una celebrità internazionale: vinse il titolo degli Stati Uniti, superò Samuel Reshevsky come giocatore dal rating più alto nella nazione, si qualificò per il torneo interzonale di Portorose prima e per il torneo dei candidati poi (l'ultimo passo per sfidare il campione del mondo), pubblicò il suo primo libro e ottenne il titolo di Grande Maestro sei mesi prima di compiere 16 anni. Nel frattempo aveva dismesso le magliette a righe da bambino in favore di abiti eleganti e alla moda, fatti su misura, che però non lo distoglievano dalla sua ossessione.
Il gusto nel vestire era cresciuto di pari passo con la sua autostima: per quanto nel torneo dei candidati del '58 Fischer avesse sempre perso nelle sfide contro il futuro campione del mondo Mikhail Tal, si riteneva già di pari livello con i migliori del mondo, e il suo approccio alla scacchiera non mostrava il minimo segno di timore; anzi, era lui a intimidire gli avversari con la proverbiale risolutezza nelle mosse, unita a uno sguardo lucido e spietato che infondeva un senso di inquietudine, quella che molti chiamarono “Fischer fear”. Non era raro che un giocatore giovane fosse brillante e aggressivo sulla scacchiera, ma a colpire critici e avversari era la solidità di Fischer, mai avventato in attacco e straordinariamente preciso in aperture e finali, i due frangenti del gioco più legati a studio e disciplina, che in genere maturano con gli anni. Durante un tour in Russia, Fischer si irritò quando i sovietici non presero sul serio la sua richiesta di giocare un'esibizione contro l'allora campione del mondo Mikhail Botvinnik, relegandolo a giocare partite di profilo secondario, e nel torneo interzonale di Portorose aveva già identificato le prede più deboli, quelle da abbattere, e delineato un'antipatia per lo stile attendista dei sovietici: «Sono in grado di pareggiare contro i Grandi Maestri, e ci sono un po' di giocatori che puntano alla patta e che posso battere». Non si sbagliava.
Bobby Fischer contro il mondo
La grande occasione non tarda ad arrivare. In America ormai Fischer è il numero uno indiscusso, con quattro titoli nazionali consecutivi, e il suo obiettivo è puntato sugli imbattibili sovietici. Nel 1962 salta i campionati americani proprio per dedicarsi al torneo interzonale di Stoccolma, che vince, primo americano a riuscirci. Nel successivo torneo dei candidati è tra i favoriti, soprattutto dopo che l'anno precedente aveva battuto per la prima volta Mikhail Tal, ma irretito dalle tattiche dei sovietici non va più in là del quarto posto in un lotto di otto partecipanti fra cui primeggerà Tigran Petrosian. Agli occhi di Fischer non era stata soltanto l'abilità dei russi sulla scacchiera a batterlo. Poco tempo dopo firmerà un articolo-denuncia, apparso su Sport Illustrated e sul giornale tedesco Der Spiegel, dal titolo che non lascia spazio a fraintendimenti: "The Russians Have Fixed World Chess”, dove con fix si riferiva alla pratica illegale di concordare anticipatamente una patta nei match che coinvolgevano due russi in modo da conservare le energie per battere gli altri candidati – nello specifico, Fischer. Aveva ragione, tutti lo sapevano, anche se era difficile ottenere prove concrete. La FIDE non tardò a dargli ascolto e cambiò subito il formato del torneo dei candidati sostituendo il girone all'italiana con un più equo tabellone di scontri individuali. Un conto, però, è avere ragione, un altro è far valere le proprie ragioni senza passare dalla parte del torto, e Fischer questa differenza non era programmato per comprenderla. Si faceva vanto di non mentire, di dire sempre quello che pensava, davanti alla scacchiera o lontano da essa, in onore alla purezza che riconosceva nel gioco e alla serietà con cui interpretava la vita. In certi casi, la sua appariva come un'adorabile sfacciataggine: come quando, spinto dal suo entourage a passare la notte con una ragazza durante un torneo a Mar del Plata, in Argentina, per consumare la sua prima esperienza con il sesso, commentò «gli scacchi sono meglio». In altre occasioni, però, presentandosi al mondo senza filtri, Fischer risultava presuntuoso, capriccioso, arrogante. Quando gli altri non si rivelavano all'altezza delle sue aspettative, Fischer si sentiva tradito, incastrato, in costante pericolo. Tornavano a galla i sospetti fra cui era cresciuto da bambino, con le spie americane e russe fuori, o addirittura dentro, dalla porta di casa, si immaginava da solo contro il mondo e si creava nemici anche dove non c'erano. Il documentario diretto da Liz Garbus e a lui dedicato nel 2011 s'intitola Bobby Fischer Against the World.
Nella sua mente Fischer era il miglior giocatore del mondo, ma gli avversari lo temevano e non gli davano la possibilità di dimostrarlo, giocando sporco. Americani e russi lo manipolavano allo stesso tempo, ciascuno per le proprie ragioni di propaganda; Fischer era invece un uomo che faceva partito a sé stante, che criticava la preparazione di squadra dei sovietici e studiava le partite come un cavaliere solitario, con l'aiuto di un solo scudiero, spesso Bill Lombardy. La polemica che seguì il torneo dei candidati del 1962 inquinò la sua passione e le sue motivazioni. Nonostante la FIDE avesse acconsentito subito alle sue richieste, Fischer si allontanò per qualche tempo dalla scena competitiva, e la sua delusione cominciò a trovare sfogo in quelle paranoie che avrebbero segnato il resto della sua vita. Fu in quegli anni che si avvicinò per la prima volta alla Worldwide Church of God: l'avrebbe abbandonata nel 1977, sentendosi tradito (e derubato di molti soldi) anche da loro, ma nel frattempo si era lasciato conquistare dai sermoni apocalittici di Herbert W. Armstrong e aveva finito per confermare le sue teorie antisemite. Fischer come un bambino che non si rassegnava a perdere, e per paura che gli altri giocassero sporco decideva da solo le regole. Voleva mostrarsi il migliore a modo suo, fuori dall'orbita della FIDE. Per il resto degli anni '60 fu un animale inquieto. Partecipò a match di esibizione, tenne conferenze, scrisse il suo secondo libro, Sessanta partite da ricordare, un successo immediato e un classico letto tutt'oggi insieme a Bobby Fischer insegna gli scacchi. Così si mantenne popolare con il grande pubblico americano, che proprio grazie alla sua figura turbolenta e geniale si stava avvicinando agli scacchi. Il suo amore per gli scacchi era sempre puro, lo dimostrano i ripetuti successi nei campionati americani compreso uno score perfetto di 11 vittorie nel 1964. Nei tornei internazionali, però, talvolta si autosabotava, rinunciando a inviti e accampando pretese impossibili. Nel 1967 si ritirò dal torneo interzonale di Sousse, in Tunisia, mentre era al comando della classifica, in polemica con gli organizzatori.
La vera partita del secolo
Secondo alcuni, gli autosabotaggi di Fischer erano un meccanismo inconscio di difesa dalla paura di perdere. Si era creato così tanto hype attorno che la vittoria del titolo mondiale appariva un fatto inevitabile: un'eventuale sconfitta contro i sovietici in un match “pulito”, senza scusanti legate al regolamento o alle collusioni fra i giocatori russi, lo avrebbe spedito nel baratro.
Thorarinsson sostiene che non sopportasse la prospettiva di perdere, ora che era così vicino alla perfezione, e sapeva che realisticamente gli scacchisti raggiungono spesso il picco della forma fra i 20 e i 30 anni, perciò non sarebbe durato per sempre. Altri invece ritengono che i proclami di Fischer non fossero spacconate; troppo forte il suo culto della verità, e poi uno uno scacchista di alto livello, se non vuole soccombere a un inconscio ingombrante e a una mente che dubita di sé stessa, deve sviluppare un'autostima inattaccabile, un'armatura. Nel film del 2014 Pawn Sacrifice – La grande partita, biopic su Fischer interpretato da un ottimo Tobey McGuire, il personaggio di Bill Lombardy, per bocca di Peter Sarsgaard, espone forse il commento più acuto sulla faccenda: Fischer non aveva paura di perdere, ma aveva paura di cosa sarebbe successo se avesse vinto. Avvertendo già gli scricchiolii di una mente fragile, temeva che mantenere l'invincibilità sarebbe stato un compito troppo gravoso, e questo gli impediva di impegnarsi al 100%. Ma almeno una volta della vita doveva provarci: un po' per se stesso, per vedere il finale del libro che il destino sembrava aver già scritto per lui, e soprattutto per gli altri, perché l'America lo adulava e lo coccolava, e il governo era disposto a tutto pur di vederlo battere i russi.
I primi anni '70 sono il suo momento di grazia. Fischer torna alla ribalta internazionale e dimostra di non aver perso un colpo, pur avendo giocato a singhiozzo dal 1962 in poi: sembra anzi aver affinato l'istinto e consolidato le conoscenze teoriche. Il primo segno che qualcosa stava cambiando arriva nel marzo 1970, quando Fischer accetta a sorpresa di partecipare alla sfida a squadre tra URSS e Resto del mondo, l'ennesimo “match del secolo” per la stampa specializzata. Non solo: è ancora più inusuale che accetti anche di cedere la prima scacchiera, che determinava una sorta di capitano simbolico del team, al danese Bent Larsen. A fine anno conquista il torneo interzonale di Palma di Maiorca e dà il via a una serie di 20 vittorie consecutive nella singola partita, un unicum negli scacchi moderni, superata soltanto dalle 25 di Wilhelm Steinitz nella seconda metà dell'Ottocento.
Il torneo dei candidati è quello che apre gli occhi al mondo: un doppio 6-0 nei quarti di finale contro Taimanov e in semifinale contro lo stesso Larsen, per poi chiudere i conti in finale contro Tigran Petrosian (l'uomo che interromperà la striscia strappandogli una vittoria e alcune patte). Per comprendere la grandezza della prestazione, si pensi che ad alti livelli gli scacchi sono un gioco talmente ottimizzato che la patta è un risultato molto comune, e servono molte partite per decretare un vincitore: il formato odierno dei campionati mondiali ne prevede 12, ma nell'ultima edizione del 2018 non bastarono, con Magnus Carlsen e Fabiano Caruana che finirono allo spareggio. Garry Kasparov ha dichiarato che non ha mai visto un giocatore dimostrare una superiorità così schiacciante contro un avversario di pari livello. Il grande pubblico americano aveva trovato una nuova musa, il traino di una moda che fece impennare la popolarità di uno sport precedentemente considerato noioso e di colpo lanciato sulle prime pagine dei giornali. Chi era già appassionato di scacchi aveva trovato un messia, perché Fischer era uno spettacolo entusiasmante. Quando si esprimeva all'apice della forma, aveva una straordinaria capacità di giocare in modo pulito, lineare, eppure imprevedibile. Non aveva bisogno di inventare strategie misteriose o studiare mosse a sorpresa, superava l'avversario con un attacco ordinatissimo e spietato, eppure non meccanico. Armonico, si sarebbe detto, eppure non platealmente romantico. Ogni volta che muoveva un pezzo si aveva l'impressione che fosse una scelta banale, l'unica scelta giusta: eppure, solo lui era in grado di vederla. Aveva la rara capacità di far apparire facile, naturale, quello che era immensamente difficile. La dote che trasforma lo sport in arte. Fischer dispiegava “una sinfonia di placida bellezza”, come disse Anthony Saidy. In uno sport tra i più complessi che si possano concepire, il suo gioco era un inno alla semplicità e all'immediatezza, e del resto uno dei concetti fondanti della sua filosofia era la semplificazione: invitare l'avversario a scambiare pezzi per arrivare alle fasi finali con meno materiale sulla scacchiera, puntare alla vittoria e mai alla patta, prendere l'iniziativa e rispondere con onestà agli attacchi rivali; lasciare che i pezzi sulle 64 caselle raccontassero fino alla fine la storia della partita, perché i suoi scacchi, come lui, non sapevano mentire. «Gli scacchi sono la ricerca della verità», avrebbe detto molti anni più tardi, ed è un peccato che Bobby Fischer non sia riuscito a mantenere fede a questa massima scacciando le menzogne e le paranoie che infestarono la sua vita.
La sfida per il titolo del mondo nel 1972 è l'ennesima “partita del secolo”, ma stavolta la definizione è più azzeccata del solito. Si potrebbe argomentare che sia stata la partita più importante nella storia degli scacchi, accanto alla sfida tra Kasparov e Deep Blue tra 1996 e 1997, che sancì il sorpasso dei computer sull'uomo. Di certo è stata la più popolare, seguita e chiacchierata anche dal pubblico generalista, perché Fischer contro Spassky significava anche e soprattutto America contro Russia, un eroe self made contro una nazione che trattava gli scacchi come uno sport nazionale, il sogno americano contro il regime comunista.
Nel percorso di avvicinamento, Fischer riprende le tattiche di auto-sabotaggio. Prima pretende un aumento del montepremi per accettare di giocare a Reykjavik, in Islanda, sede preferita da Spassky, poi resta in dubbio fino all'ultimo se imbarcarsi sull'aereo, infine dà forfait nella seconda partita dopo aver perso la prima in malo modo, perché a suo dire il pubblico presente nella Laugardalshöll e le telecamere delle televisioni erano troppo rumorosi. Ci volle tutto il supporto di Lombardy, una telefonata del consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger e la benevolenza di Spassky, che accettò le sue condizioni, per convincere Fischer a non disertare anche il resto della sfida. La terza partita si tenne in una saletta secondaria, senza pubblico. Fischer vinse, e completò rimonta e sorpasso quando il match tornò nella sala principale (ma senza telecamere e con il pubblico spostato qualche fila più indietro). Secondo alcuni Fischer era tornato alle vecchie abitudini, si fabbricava degli alibi perché spaventato all'idea di accettare senza riserve il verdetto della scacchiera, qualunque esso fosse. Secondo altri, i suoi capricci erano venali richieste di denaro o vanitose richieste di attenzioni, o ancora peggio tentativi di destabilizzare la concentrazione di Spassky. La verità, forse, sta nel mezzo. Fischer odiava l'idea che altre persone guadagnassero soldi grazie a lui, e voleva farsi pagare per le capacità che riteneva di possedere; aveva i suoi tic, come tutti i giocatori, ma secondo la sua idea purissima della disciplina, più importante era il premio in palio, più rigoroso doveva essere lo scenario. Ma soprattutto, in quel periodo d'oro Fischer stava correndo a tutta velocità su un filo sottile, sospeso tra una luminosa lucidità e l'abisso della follia in cui sarebbe caduto di lì a poco. Più si spremeva la mente sulla scacchiera, più aveva bisogno di immaginare paranoie, sospetti e manipolazioni, per dare un senso a un mondo da cui, senza accorgersene, si era isolato e che non capiva.
Il numero di equilibrismo va a buon fine. Fischer conquista il titolo giocando solo 21 delle 24 partite in programma, perché dopo essersi portato in vantaggio, rimontando anche con i pezzi neri, e aver consolidato la posizione con una serie di patte, Spassky si arrende non vedendo possibilità di recupero. Ci sono due momenti, in particolare, che fanno la storia della disciplina. Nella tredicesima partita Fischer ha un'intuizione straordinariamente creativa: non si accontenta di una patta ormai scontata e sacrifica l'alfiere, spinge con cinque pedoni mentre la torre restava bloccata dai pezzi avversari. Spassky rimase a lungo a contemplare la scacchiera, incredulo. Qualche giorno prima invece, alla fine della sesta partita si era addirittura alzato in piedi per applaudire Fischer (che per la prima volta in carriera aveva aperto con un gambetto di donna, un'apertura che disprezzava), in un rarissimo esempio di sportività che più tardi si sarebbe tramutata in comprensione e persino amicizia. Entrambi i dettagli, l'inedita apertura di Fischer e l'applauso a scena aperta, sono stati citati da La Regina degli Scacchi, quando Beth Harmon affronta la sua nemesi Borgov, e con il medesimo risultato. Ora Bobby Fischer è sul tetto del mondo. La scacchiera appare molto piccola da lassù, e il mondo intorno vasto.
Persona non grata
Ora che è campione, Fischer non ha più nulla da dimostrare. La sua presenza sulla scena pubblica diminuisce in maniera inversamente proporzionale alla crescente popolarità degli scacchi, ed è così che la sua figura si trasforma da eroe in leggenda, quella di cui tutti hanno sentito parlare, ma in pochi hanno visto di persona. Al suo ritorno in America Fischer presenzia a qualche show televisivo e si presta a una copertina per Sports Illustrated insieme al nuotatore Mark Spitz, come a sancire il diritto di cittadinanza degli scacchi fra gli sport propriamente detti. Poi però rifiuta oltre cinque milioni di dollari in contratti di sponsorizzazione. I soldi, per lui, erano una questione di orgoglio: voleva essere pagato come un giocatore di football, o non essere pagato affatto. Comincia a condurre un'esistenza da recluso, mentre nel giro di pochi anni, in quello che verrà definito “Fischer Boom”, gli iscritti alla federazione scacchistica statunitense aumentano di più del doppio, un'esplosione ancora oggi senza eguali.
Ora che è campione, può estraniarsi senza patemi da quelle attività che gli erano diventate tediose: confrontarsi con gli altri giocatori, e soprattutto assecondare le richieste e le lusinghe dei media e del governo americano. La propaganda a stelle e strisce incentrata su Fischer riesce soltanto a metà, perché ora che Fischer ha disertato la scacchiera cedendo di nuovo le redini ai russi, la retorica dell'eroe solitario che combatte da solo contro l'impero sovietico si fa meno credibile – e su queste basi, l'America non gli avrebbe mai mostrato pietà per gli incidenti futuri.
Nel 1975, dopo tre anni senza scacchi, è tempo di difendere il titolo contro il primo sfidante, il russo Anatoly Karpov, ma Fischer impone severe condizioni alla FIDE per partecipare al match, non tanto economiche quanto regolamentari: vuole una partita che proceda a oltranza finché uno dei due giocatori non abbia ottenuto dieci vittorie, dissuadendo così la tattica del “giocare per la patta” da lui tanto odiata, e vuole che il campione in carica mantenga il titolo in caso di pareggio 9-9. Nella scena scacchistica si anima una fervente discussione tra chi gli dà ragione e chi torto, ma alla fine la FIDE prende posizione e rifiuta le sue richieste, stanca forse di farsi ricattare da un uomo interessato solo alla propria fama e al proprio tornaconto, e non a promuovere attivamente la disciplina. Fischer non si fa problemi: lascia il titolo nelle mani di Karpov, si dissocia dalla condotta della FIDE e continua a ritenersi il legittimo campione. Non siederà mai più davanti alla scacchiera per dimostrarlo.
Senza gli scacchi a mostrargli il nord della bussola, in rapporti tumultuosi con la famiglia, abbandonato da colleghi, sponsor e politici che ormai hanno gettato la spugna con le sue incontentabili richieste, Fischer deve trovare un altro sfogo. Si associa alla Worldwide Church of God, oggi conosciuta come Chiesa Cristiana della Grazia, ipnotizzato dalle prediche radiofoniche del fondatore Herbert W. Armstrong e irretito dalle previsioni apocalittiche del culto. Finì per versare molti soldi nelle casse della chiesa e uscirne in aperta polemica nel 1977, dichiarandola “satanica”. Nel frattempo, però, il suo rancore si era spostato ancora di più verso gli ebrei. Fischer si immaginava vittima di una cospirazione ebraica internazionale, che vedeva in Israele e negli Stati Uniti i principali responsabili, ma da cui non si salvava nemmeno l'Unione Sovietica: «Sotto il comunismo ci sono i bolscevichi», dichiarò una volta, «e sotto la maschera dei bolscevichi ci sono sempre gli ebrei».
Gli anni '80 sono il suo periodo più buio, dove lascia macerare nell'anonimato i suoi malumori, del tutto ignaro del mondo colorato, chiassoso e ottimista dell'epoca. Riemerge nel 1992 quando organizza una rivincita contro Spassky, ma sono due cavalli bolsi e malinconici. Hanno due obiettivi precisi: mettere qualche soldo in cassa e dimostrare la superiorità degli scacchi “di una volta”. Il primo riesce, con un montepremi di cinque milioni di dollari, ma il secondo non altrettanto, perché Spassky è ovviamente sceso in graduatoria rispetto ai campioni più giovani e Fischer, per quanto sia sempre uno spettacolo vederlo giocare, non è più al passo con i tempi. Il dettaglio più importante è che il match si tiene a Belgrado, nella Jugoslavia che all'epoca era sotto embargo statunitense. Interrogato sull'argomento dai giornalisti, Fischer rispose prendendo l'ordine esecutivo in oggetto, firmato da George Bush Senior, e sputandoci sopra. Ne ottenne un mandato d'arresto e l'obbligo a una vita da emigrato. La rottura con gli Stati Uniti era ormai irreparabile.
Negli anni '90 Fischer vaga per il mondo. Vista la sua fama, già trascesa a figura di culto, non mancano le offerte per procurargli una sistemazione (come quando a Budapest allena le giovani sorelle Polgár), né le liason romantiche, nelle Filippine e in Giappone. Di tanto in tanto interviene in interviste radio lanciando le sue consuete invettive. All'indomani dell'11 settembre 2001 arriva a esultare per l'attentato. Le autorità americane lo rintracciano in Giappone e Fischer finisce addirittura in prigione, quando la polizia giapponese lo ferma all'aeroporto di Narita trovandolo in possesso di un passaporto revocato dagli Stati Uniti. Lo avrebbero deportato in patria, per scontare la pena risalente al 1992, e si moltiplicarono gli appelli di appassionati, ex compagni e avversari: su tutti il più accorato fu proprio quello di Spassky, che si disse disposto a scontare la detenzione insieme a Fischer, a patto di avere una scacchiera nella cella. «Bobby è una persona tragica» disse Spassky. «È un uomo onesto e buono, di natura. Ha un altissimo senso della giustizia e non accetta compromessi con la sua coscienza né con le altre persone. È un uomo che ha fatto del male a sé stesso in qualsiasi modo. Io non intendo difendere o giustificare Bobby Fischer. Lui è quello che è. Chiedo soltanto una cosa: pietà, perdono».
Fu l'Islanda invece a trarlo in salvo: il parlamento locale, su proposta del vecchio amico di Fischer Bill Lombardy, gli concesse la cittadinanza con un atto speciale, in virtù del prestigio che il match del 1972 aveva recato alla nazione. Una delle più recenti apparizioni in video risale proprio al viaggio aereo che lo accompagna in Islanda, con la barba lunga e i capelli incolti, mentre risponde, irritato ma spietato come sempre, alle domande maliziose dei giornalisti. Sarà proprio in Islanda che Fischer morirà nel 2008, a 64 anni, uno per ogni casella sulla scacchiera, da estraneo al mondo, adulato e richiesto, ma sempre una persona non grata.
La ricerca della verità
C'è un luogo comune secondo cui gli scacchi, con lo studio ossessivo che richiedono e le vertigini probabilistiche a cui espongono la mente umana, conducano alla pazzia chi li pratica con troppa intensità, come chi scruta in un abisso troppo profondo. Lo scrittore G. K. Chesterton diceva: «I poeti non diventano pazzi, ma i giocatori di scacchi sì», mentre secondo Malcolm Gladwell ciò che definiamo genio è semplicemente una combinazione fra abilità innate e intensa applicazione. Si pensa spesso a casi-limite che rimandano a un certo immaginario degli scacchi romantici, come Paul Morphy, il giocatore americano più famoso prima di Fischer, che si ritirò giovanissimo, pressoché imbattibile anche in Europa, e morì a 47 anni fra allucinazioni e paranoie. Anche Wilhelm Steinitz morì in disgrazia, in un manicomio di Manhattan, e Akiba Rubinstein, a inizio Novecento, tra una mossa e l'altra si nascondeva in un angolo della sala per trovare sollievo dall'antropofobia.
Nel caso di Fischer invece (e sembra essere anche l'interpretazione del personaggio di Beth Harmon ne La Regina degli Scacchi) è forse vero l'opposto: Fischer era un uomo fragile e problematico, che negli scacchi trovava l'unico punto di riferimento, il nord della bussola. Come ha titolato Stephen Moss per The Guardian, era unmadman made sane by chess, un pazzo reso lucido dagli scacchi, e varrà la pena consultare un altro contributo di Moss, scacchista, giornalista e scrittore, che racconta lo smarrimento di una mente che si perde fra le immensità e gli orrori degli scacchi, un percorso personale di verità, bellezza e annientamento. Vengono in mente le tante pseudo-diagnosi operate a distanza sulla salute mentale di Fischer, quando l'opinione più convincente sembra essere quella dello psichiatra islandese Magnús Skúlason, amico di Fischer negli ultimi anni di vita, come riportata nella biografia Endgame, di Frank Brady: Fischer non soffriva di schizofrenia né di altre patologie propriamente dette, ma possedeva una mente problematica che non era mai riuscita, anche per la sua ostinazione a non chiedere aiuto, a risolvere traumi pregressi e a scavare verso la radice di paranoie, paure e sospetti. E più una mente è acuta, più le sue sovrastrutture schiacciano il resto della personalità sotto il proprio peso, quando collassano. «La nostra mente è tutto ciò che abbiamo» disse una volta Fischer in una delle sue rare riflessioni introspettive. «Certo, a volte ci conduce allo sbando, ma non possiamo fare a meno di analizzare le cose nella nostra testa».
È difficile pensare a un giocatore instabile come Fischer che possa avere successo negli scacchi odierni, dove il confronto con i computer ha portato a un approccio metodico, fatto di costanza e ripetizione nello studio, e capacità di resistere allo stress per replicare in partita le tattiche preparate a priori. Quando parliamo di quell'unica mossa giusta a cui Fischer mirava, oggi non è più avvolta dall'affascinante alone di mistero: un motore scacchistico può dirci all'istante qual è. Fischer rivolse critiche feroci anche agli scacchi che vennero dopo di lui: rei di non aver seguito il suo esempio, si erano ridotti a una miscela di memorizzazione e ripetizione, accentuata dall'avvento dei computer negli anni '90. Il risultato erano partite chiuse, talvolta prevedibili, che fornivano a Fischer il pretesto per tornare ad accusare i russi, tra cui Karpov e Kasparov, di patteggiare a priori l'esito delle partite. Fischer promosse con vigore la sua personalissima variante degli scacchi, Chess960 o Fischerandom, la sua soluzione all'immobilità degli scacchi contemporanei che disponendo casualmente i pezzi sulla scacchiera introduceva un numero più alto di possibilità e stimolava i giocatori a interagire con situazioni imprevedibili, in cui si palesava l'autentica conoscenza della disciplina. È una variante ancora oggi studiata e sperimentata, con il primo campionato mondiale che si è tenuto proprio lo scorso anno, ma che certo non può impensierire la tradizione del gioco tradizionale; ed è quasi paradossale, in questo senso, notare che la vera influenza di Fischer sugli scacchi sembra allinearsi proprio in quell'evoluzione che lui tanto odiava – un'influenza onnipresente e misericordiosa, che perdona i suoi misfatti in virtù di ciò che ha donato agli scacchi, tanto che persino un giocatore come Kasparov, più volte oltraggiato da Fischer che lo definì «un criminale, una disgrazia per gli scacchi e per la razza umana», si è espresso in sua difesa.
Intanto, fu tra i primissimi a valorizzare il fitness, la tenuta fisica oltre che quella mentale, un concetto oggi familiare ai migliori giocatori del mondo, tutt'altro che topi da biblioteca, come ben dimostra Magnus Carlsen. Certi capisaldi del suo stile sono tra i fondamenti della teoria contemporanea: la tendenza alla semplificazione, come dicevamo, e la raffinatissima conoscenza di aperture – in cui si affidava, come molti campioni di oggi, a un repertorio ristretto – e finali, entrambi versanti dove la memorizzazione è assai importante. Il Fischer più maturo, a dispetto del suo carattere bizzoso, giocava in modo simile a un computer: senza slanci azzardati, inattaccabile, privo di debolezze, uno stile che ha ispirato lo stesso Carlsen. Forse proprio da questo derivò il suo progressivo distaccarsi dalla disciplina competitiva: aveva già intuito che direzione avrebbe preso l'evoluzione degli scacchi, e da un lato protestava per fermare quello che ai suoi occhi era un declino, dall'altro se ne estraniava per paura che, tramite l'insofferenza, il suo amore per il gioco si sarebbe trasformato in odio. Un amore per il gioco che però, nel vortice di odio che inglobò la vita di Fischer dopo il ritiro, restava intatto.
Dopo l'atterraggio a Reykjavik tenne una conferenza stampa in cui raccontò che durante la prigionia giapponese aveva giocato una partita con un secondino birmano, che gli strappò persino una patta; il suo ultimo avversario, forse, è stato un dilettante sconosciuto. Nel 2006, dal ritiro islandese, il suo ultimo cenno di vita quando telefonò a un emittente locale che stava trasmettendo una partita di scacchi per suggerire una combinazione vincente, sfuggita ai giocatori e ai telecronisti. Questo è il Fischer che amava gli scacchi, e che attraverso gli scacchi cercava la verità. Forse l'ha trovata e ne è rimasto accecato, come il Kurtz di Cuore di Tenebra e Apocalypse Now, che siede al centro della foresta e pronuncia “l'orrore, l'orrore”. O forse non l'ha mai trovata, perché come disse Garry Kasparov, alla fine della tragedia non sempre dev'esserci una morale, e il tracollo di Bobby Fischer è stato tanto banale quanto erano stati splendidi i suoi scacchi.