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La finale delle finali
09 nov 2018
Per la prima volta nella storia, Boca Juniors e River Plate si incontreranno in finale di Copa Libertadores.
(articolo)
16 min
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«Y la silbante víbora en medio del estadio,

enorme pan abierto, rosca de Reyes,

River Plate y Boca»

Fernando Guibert

Arriverà, sta già arrivando, quel principio d’estate australe in cui le due squadre più iconiche del Sudamerica scenderanno in campo per giocarsi la partita più importante della loro storia, e una delle più importanti della storia di molte persone. Tra venti, trent’anni, chissà quante ricorderanno dov’erano, con chi erano, mentre andava in scena il Superclásico in finale di Libertadores. Sabato, e ancora dopo due settimane, Boca e River, River e Boca, si troveranno contrapposte a giocarsi la finale che consegna lo scettro della migliore del continente, come mai non era successo, e come mai più potrà succedere. E forse stavolta c'è in palio qualcosa di più: è come se dagli esiti di questa finale possa dipendere la prosecuzione dell’esistenza dell’una, e dell’altra squadra.

La tensione sulle tribune sarà simile solo a quella degli istanti che precedono l’avvento di un uragano: «l’odore della battaglia», come lo definisce Leopoldo Marechal in “Megafón y la guerra”, «misterioso e temibile, che non se ne va mai dal naso di ogni porteño e che ci ubriaca come una polvere». Quando dalla sommità dei palchi dell’Estadio Alberto José Armando, lo stadio che incute timore, che trema quando la sua hinchada, la Doce, canta, partiranno i fuochi d’artificio, sarà come vedere agli angeli che riavvolgono il cielo al termine del Giorno del Giudizio: la combustione aerea sarà il segnale che il piano del reale ha iniziato a scivolare verso il caos primigenio, regredendo allo stadio più primitivo del calcio, alla lotta per la sopravvivenza, Caino contro Abele.

Foto di Juan Mabromata / Getty Images

Arriverà, sta arrivando, e non potranno esserci tifosi neutrali, sordi alla fascinazione. Ci troveremo di fronte a qualcosa che avvertiamo e che crediamo - ci convinciamo - di capire, ma che non potremo mai afferrare fino in fondo. Ci illudiamo che quel che sappiamo ci possa bastare: che esiste uno spirito boquense e uno riverplatense; sappiamo della mistica millonaria, fatta di elitarismo, scienza, cervello; sappiamo di quella bostera, che è invece proletaria, viscerale, sanguigna. Ma non capiremo davvero mai del tutto. Perché non siamo là. Perché non siamo nati là.

Quello che però arriverà distintamente alle nostre orecchie sarà l'amplificazione di una storia, già di per sé rumorosa, come quella del Superclásico, che rimbomba in una cornice più ampia, come quella di una finale continentale.

Foto AFP / Getty Images

Eduardo Galeano ha definito Boca-River «un duello che inizia sugli argini del Riachuelo, e che divide in due la città di Buenos Aires». Il Riachuelo è il Rio Matanza, che nel suo immettersi nel Rio del Plata genera l’insenatura che conosciamo come il barrio de La Boca. La Boca non è solo casa degli xenéizes, ma anche la culla del River Plate, che qui è nato prima di spostarsi verso nord, prima di abbandonare - colpevolmente, secondo qualcuno - l’aura operaia per i quartieri dei ceti medi, Palermo prima, Núñez poi. L’ascensione sulla scala sociale che diventa una macchia.

Arriverà, sta già arrivando, e ovviamente sarà soltanto una partita di calcio, quel gioco che rimane sempre lo stesso ma che le storie che gli girano intorno, e i contesti in cui si inscrive, contribuiscono a rendere sempre diverso, e a volte pazzesco. L’attesa ha riempito questo Superclásico di così tanta carica emozionale che sembra quasi volgare, un dettaglio superfluo che per forza di cose rovinerà le nostre aspettative, il fatto che alla fine si giochi.

Il Superclásico più importante di tutti i tempi

Nessun Superclásico è banale, o insignificante, neppure quelli che si giocano d’estate, a Mar del Plata, prima che inizi la Superliga. Ma è vero anche che non c’è mai stato Superclásico con tale portata immaginifica. Il River-Boca che stiamo per vivere segnerà un punto di non ritorno: tanto per cominciare perché non ci sarà mai più una Libertadores assegnata in doppia sfida, con gare di andata e ritorno. Dalla prossima edizione si giocherà in partita unica, in campo predefinito, alla stregua della Champions League (e chissà quanti tifosi, in un continente come il Sud America, saranno in grado di seguire la propria squadra per la finale). E allora cos’è, se non un meraviglioso dono di commiato, il fatto che a una delle partite con più mistica del calcio mondiale, che più segna l’immaginario collettivo, sia affidato l’onore di chiudere, in un certo senso, un’epoca?

In una Libertadores che, seguendo le orme della confederazione che la organizza, la CONMEBOL, si apre alla modernità, all’innovazione, che cerca di espandersi per farsi davvero continentale - dal 2020 potrebbero farne parte anche le squadre della MLS, per dire - un Superclásico in finale è quasi un retaggio antimodernista. L’ultima propaggine di passato che si cristallizza nel presente prima di proiettarsi nel futuro.

Superclásico mitici ce ne sono già stati, ovviamente. Anche in Libertadores. Nel 2004 ad esempio ci si giocava l’accesso alla finale: finì per andare in scena la rappresentazione più alta - fino ad allora - dello spirito che questa sfida incarna.

L’espulsione di Gallardo alla Bombonera, l’uscita dal campo sotto gli scudi protettivi della polizia, il gol del gregario Schiavi; e poi il gol del momentaneo pareggio al Monumental di Tévez, che schernì gli avversari mimando il gesto della gallina - che è come vengono chiamati i giocatori e i tifosi del River da parte dei bosteros. Finì ai rigori, appendice nevrastenica di uno scontro ansiogeno. Ci sembrava avessimo raggiunto l’apoteosi: non immaginavamo, né osavamo sperare, potessimo ambire a di più.

Non ci sono mai state due argentine in finale di Libertadores. Ne consegue che non ci sono mai state le due rivali storiche, che si sono fronteggiate in un contesto dalla fatalità ineludibile come quello di una finale solo in situazioni che al confronto impallidiscono: una finale del Nacional, 42 anni fa, sul campo del Racing; la Supercopa Argentina di quest’anno, a Mendoza.

Il motto impresso sull’arco che sovrasta l’ingresso in campo dei giocatori in ogni Libertadores non poteva essere più premonitore: «La gloria eterna». Forse è davvero questo che si gioca.

Tutto ciò che ha portato a questo Superclásico

Le due semifinali hanno messo di fronte, casomai si tratti ancora di un discorso valido, le due scuole calcistiche principali del continente, quella brasiliana e quella argentina. River-Gremio e Boca-Palmeiras: un’occasione per ribadire anche che il calcio albiceleste è ancora vivo, nonostante le tribolazioni federali, nonostante i fracasos, cioè i fallimenti, della Nazionale.

Il River in semifinale non ha avuto vita per nulla facile: i brasiliani del Gremio, i campioni in carica, si sono arroccati in tre tempi da fortezza inespugnabile, sfruttando ogni occasione, capitalizzandola al massimo. Hanno vinto l’andata, conducevano il ritorno. Poi, durante l’intervallo, il “Muñeco” Gallardo, l’allenatore del River, nonostante fosse squalificato è sceso negli spogliatoi: non sappiamo cosa possa aver detto, quanto possa aver usato il Superclásico all’orizzonte come grimaldello motivazionale, fatto sta che al ritorno in campo il River ha inscenato un capolavoro di abnegazione.

A dieci minuti dalla fine gli argentini segnano il gol del pareggio a , ma non è abbastanza: serve quello del 2-1. A meno di cinque dalla fine l’arbitro Andrés Cunha si avvicina al monitor, richiamato dal VAR: un’innovazione che è entrata in Libertadores da un anno, precisamente dalla semifinale della scorsa edizione, in cui il River si è visto negare un rigore abbastanza cristallino prima di lasciare il passo al Lanús per la finale. Il primo VAR, in quella partita, era proprio l'arbitro Cunha.

Quando torna verso il campo, e disegna un monitor con le dita, l’arbitro uruguaiano sa che lo stadio potrebbe implodere: ma fischia lo stesso il rigore. Passeranno sette minuti prima che il Pity Martínez possa tirarlo, e realizzarlo, in mezzo ci saranno poliziotti in tenuta antisommossa che si preparano al peggio, delegati CONMEBOL che confabulano per garantire la sicurezza, e la regolarità, di ogni aspetto di gara, di tutto ciò, insomma, che sta succedendo dentro quello stadio.

Con quel rigore il River va in finale: per la squadra di Gallardo, che negli ultimi tre anni ha lavorato su un gruppo di giocatori talentuosi forgiandolo fino a farne una macchina perfettamente rodata, in cui ogni meccanismo di gioco è dedicato alla funzionalità ma senza disdegnare l’estetica, è il miglior riconoscimento possibile, la naturale conclusione. Se il miglior portiere del Sudamerica dell’ultimo semestre, Armani; e uno dei centrocampisti più promettenti per il futuro Albiceleste, Exequiel Palacios; e un redivivo dal talento indiscusso come Quintero non avessero partecipato alla finale, beh, sarebbe stata un’ingiustizia.

Ma è proprio sul termine ingiustizia che, già dopo il fischio finale, il Gremio ha provato a portare avanti la propria protesta, sperando di togliere il posto in finale che il VAR aveva dato al River. Ma non è sul VAR che protestavano...

Tutto ciò che ha provato a impedire questo Superclásico

C’è un racconto di Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges, che scrivevano sotto lo pseudonimo di Bustos Domecq, che si intitola “Esse est percipi” e si apre con la scoperta, girando per Núñez, che il Monumental è scomparso. È stata la prima cosa a cui mi è venuto da pensare, mentre regnava l’indecisione sulla presenza o meno del River in finale: il Gremio, infatti, dopo la semifinale di ritorno ha presentato ricorso, che la CONMEBOL si è riservata di analizzare con cura - nonostante avesse già pubblicizzato, senza opporre troppa resistenza all’entusiasmo immaginifico, la Finale Delle Finali.

La possibilità che proprio arrivati in limine alla concretizzazione di una sceneggiatura perfetta, beh, la finale di questa Libertadores potesse anche non essere un Superclásico da remota si è fatta, con il passare dei giorni, sempre più concreta. «Mi sono preso il rischio di scendere negli spogliatoi e parlare con i miei giocatori. Ne avevano bisogno loro e ne avevo bisogno io. Forse ho infranto una regola. Non mi era concesso, lo ammetto, ma era ciò che dovevo fare», ha ammesso Gallardo la sera stessa della vittoria, con un atteggiamento che non si capisce bene quanto sia di sfida, o quanto sincero. «Non mi pento, perché credo che sia ingiusto che ti venga tolta la libertà di lavorare».

Gallardo sapeva che, scendendo negli spogliatoi, stava infrangendo il regolamento: quando un delegato della CONMEBOL lo fotografa di nascosto durante il tragitto verso lo spogliatoio, lui lo richiama. «Vieni, vieni qua, scattamela per bene», gli dice. È convinto che la parte da giocare nel mito, la sua, sia quella di sfidare il regolamento.

Il Gremio ha provato a fare leva su questo dettaglio, per provare a cambiare la storia, e la CONMEBOL si è pronunciata dopo un’interminabile attesa, solo quattro giorni più tardi, comminando una sanzione di 50mila dollari a Gallardo - che ne uscirà come una specie di eroe morale, che ha anteposto l’esigenza della compattezza del suo gruppo a ogni possibile ripercussione - oltre a quattro giornate di squalifica, che gli impediranno di sedere sulla panchina, e anche sulle tribune, in finale.

Un’inezia, in confronto alla tragedia emozionale che avremmo vissuto se ci avessero tolto il Superclásico.

Dall’altra parte del Riachuelo

Il Boca, dalla sua, ha atteso con pacato timore l’esito dell’indagine dell’Unità Disciplinare. Trovarsi di fronte gli arcirivali è solo un incentivo motivazionale, non aggiunge né sottrae niente a quella che di suo è - come ben testimonia uno dei cori più famosi della Doce - un’ossessione, a prescindere dall’avversario che è necessario superare per cumplir, per farcela.

C’è un documentario, ideato e narrato da Juan Pablo Varsky, uno dei più quotati e autorevoli giornalisti sportivi argentini, e prodotto da Netflix, che si chiama “Boca Juniors Confindencial”. Sull’orma di quelli girati in seno al Manchester City o ai protagonisti de La Liga, si tratta di un’incursione all’interno non solo del club, ma anche dei suoi tifosi, un affondo nel ventre molle dell’essere bostero. Ed è significativo che uno dei primi fotogrammi rappresenti l’ossessione che il Boca ha per la Libertadores, che non vince da più di dieci anni.

Trionfare in questa doppia finale, mettere in bacheca la Settima, gli permetterebbe di raggiungere l’Independiente, il club finora più titolato, mettendo in discussione l’epiteto di cui la squadra di Avellaneda si fregia da trent’anni: quello di, appunto, Rey de Copas.

Il gioco del Boca di Schelotto non ha l’autorevolezza identitaria di quello del River di Gallardo: la sua coralità si basa più sulle singole associazioni tecniche dei vari talenti. Però può contare sul miglior plotone offensivo, per varietà di assortimento, di tutto il calcio argentino, forse sudamericano.

C'è il “Kichán” Pavón, con la sua genetica eccezionale, i suoi strappi micidiali. C'è Carlitos Tévez, redivivo trascinatore, scappato dalla Cina dove si era rifugiato per vivere il calcio con più serenità, meno pressioni, proprio nel momento in cui si è reso conto che erano le pressioni a farlo rendere al massimo. E c’è un altro resuscitato da Schelotto, Mauro Zárate, e Ramón “Wanchope” Ábila.

Soprattutto, con la fame di chi si è visto privare da un infortunio la possibilità di giocarsi un Mondiale, e ora ha voglia di riprendersi ciò che gli spetta, con gli interessi, c’è Darío Benedetto, forse il prodotto più genuino, al netto delle sovrastrutture di amore e odio, tradimento e riconciliazione di Tévez, dell’essere xenéize.

Benedetto ha segnato 3 reti nelle ultime due partite, le semifinali. La seconda, alla Bombonera, quella che ha messo in cassaforte la finale, è un concentrato di semplicità e potenza. Alzare la Libertadores, per lui, significherebbe anche liberarsi dall’aura di eroe minore che una carriera ai margini gli ha cucito addosso.

Una vetrina irripetibile, una bomba a orologeria

Il presidente argentino Mauricio Macri, ex presidente del Boca, poco prima delle semifinali aveva dichiarato: «La verità è che preferisco che vinca una delle brasiliane, per non avere un Superclásico in finale». Perché «sapete cosa sono tre settimane senza dormire? Una pazzia. Immaginate quanta pressione possa esserci? Chi perde avrà bisogno di vent’anni per riprendersi. C’è troppo in palio».

Al di là della provocazione, forse anche scaramantica, c’è da riconoscere che un evento di tale portata per il governo argentino ha da subito rappresentato una moneta dalle due facce: prezioso, da un lato, e allo stesso tempo complicatissimo da maneggiare. A partire dal 30 novembre, Buenos Aires ospiterà il G20: questo significa che la capitale sarà blindata almeno da quarantotto ore prima, che è poi la ragione principale per la quale si è resa necessaria una rimodulazione delle date, inizialmente previste per il 7 e il 28 Novembre, al 10 e 24 Novembre, con un cambio di orario (si giocherà alle le 17 locali, le 21 in Europa) per agevolare controlli e garantire la massima sicurezza - e chissà, magari anche per favorire la fruizione televisiva in prime time dall’altra parte dell’Oceano.

Come ha scritto Enrico Udenio in uno studio antropologico, La hipocresia argentina: «Ci sono momenti in cui l’Argentina sembra una terra senza aree grigie». All’ufficialità che la finale sarebbe stata il Superclásico, Macri ha scritto un tweet molto criticato, questo:

Macri, pienamente cosciente che tutti gli occhi del mondo saranno puntati sul suo Paese, non ha perso l’occasione di rimarcare come la storicità di questa finale possa rappresentare l’opportunità di dimostrare una rinnovata maturità, un cambiamento, una riappacificazione delle tifoserie. L’occasione perfetta per tornare alla compresenza delle tifoserie rivali nello stesso stadio. Perché in Argentina, da 5 anni, le partite si giocano senza pubblico ospite, o addirittura - come è successo pochi giorni fa per il Clásico Rosarino tra Central e Newell’s Old Boys - in campo neutro.

Dante Panzeri, nel suo Fútbol. Dinámica de lo impensado, nonostante sia un libro vecchio di 50 anni, afferma una verità ancora molto attuale: «Il calcio senza pubblico è la negazione stessa del calcio come industria dello spettacolo». Una verità in senso assoluto che non tiene conto del fatto che se le due tifoserie vengono tenute a distanza, un motivo c’è. L'interesse di Macri in realtà è quello di utilizzare l’eccezionalità della doppia finale di Libertadores come «un fatto unico e irripetibile del quale dovremmo poter godere appieno» che gli permetterà di dare all’esterno un’immagine dell’Argentina che non combacia con la realtà, e forse neppure con la volontà degli attori coinvolti.

I primi a non essere convinti della possibilità di aprire i propri stadi ai rivali erano proprio i presidenti di Boca e River, Angelici e D’Onofrio. Mentre la posizione di Angelici è stata più vaga, D’Onofrio, cosciente dell’afflato populista delle dichiarazioni di Macri (e di quelle di Patricia Bullrich, ministro per la Sicurezza, che ha dichiarato «possiamo garantire sicurezza e dare un’immagine di normalità») è stato molto chiaro da subito: «Lo stadio del River non è preparato per ricevere gli ospiti. Se vogliamo metterlo in agenda possiamo farlo, ma non dal giorno alla notte. Concedere un pezzo di tribuna a quattromila ospiti è solo poter dire “c’erano gli ospiti”, ma non è così». Alla fine Macrì si è dovuto arrendere all'evidenza dei fatti: le due partite si giocheranno senza tifosi ospiti.

Valeva nel 2014, e vale ancora: «sarete undici tifosi, contro migliaia».

Un epilogo imprevedibile

Nel documentario Tierra de fanáticos, uno dei magazzinieri del River Plate dice: «Devi sempre cercarla, la fortuna. Se non la trovi, sarà il campo a darti un’altra possibilità». È un’affermazione che rilascia, nella comfort-zone degli spogliatoi, proprio dopo un Superclásico vinto, galleggiando sull’umore del momento. Perché nessuna sconfitta, in una finale, lascia davvero spazio a una rivalsa.

Il River, vincendo, metterebbe in bacheca la seconda Libertadores in tre stagioni, consacrerebbe definitivamente Gallardo e cancellerebbe, in maniera risolutiva, l’onta della retrocessione del 2011. Una vittoria del Boca, invece, trasformerebbe in leggenda Schelotto, che tra campo e panchina potrebbe vantare 5 Libertadores, una soltanto in meno di Francisco Sà, il vincitore massimo.

Ogni appassionato di calcio, non solo i tifosi di Boca e River, vivono l’attesa sotto l’impero anestetizzante dell’adrenalina. Roberto Fontanarrosa, illustratore e scrittore rosarino, una volta scrisse, parlando del Superclásico: «E allora mi chiedo: perché sono così nervoso se tifo per il Rosario Central? Perché è difficile non esserlo. C’è una carica elettrica, un’energia fatta di distensioni e contrazioni, che la partita sia bella, brutta, normale».

Nei giorni scorsi il presidente della Fondazione Cardiologica Argentina, Jorge Tartaglione, forse estremizzando un po’ troppo i toni, ha sensibilizzato sui rischi interconnessi tra calcio e cuore. Forse non è un caso che l’inventore del bypass aorto-coronarico, René Favaloro, fosse proprio argentino.

È oltremodo complicato, per non dire impossibile, anche solo cercare di prevedere quali saranno le conseguenze, e l’eredità, di questa finale dai contorni leggendari. Al vincitore, probabilmente, la gloria eterna. Ma cosa rimarrà agli sconfitti? Come può essere, la vita, dopo aver perso una finale di questa portata contro i rivali storici? Davvero, come sostiene Macri, ci vorranno vent’anni per risollevarsi?

Ci si potrà mai risollevare?

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