Bogdan Bogdanovic, almeno a prima vista, non ha una qualità del suo gioco che spicca su tutte le altre, una di quelle che ruba immediatamente l’occhio. Non è particolarmente atletico, almeno nei termini canonici di un giocatore che salta tanto e corre più veloce degli altri; non è un giocatore particolarmente fisico, in grado di travolgere gli avversari o di tirare loro in testa a volontà; non è neanche un giocatore che fa della creatività il suo punto di forza, o almeno non quanto altri giocatori della sua stessa squadra o nazionale.
Eppure c’è qualcosa di magnetico nel modo in cui si muove in campo, nel modo in cui il pallone sembra sempre trovarlo nelle migliori situazioni possibili e in come riesce a far girare le partite sempre dalla sua parte. Una tendenza particolarmente evidente in questi Mondiali di Cina, dove con la sua Serbia ha disputato tre partite incredibili nel girone di Foshan e un’altra spettacolare nella sconfitta contro la Spagna, mostrando la qualità tecnico-tattica e la ferocia mentale del giocatore pronto a fare il salto di qualità decisivo della sua carriera.
Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Bogdanovic lo scorso giugno a Milano, più precisamente in SDA Bocconi per il terzo corso organizzato dalla NBPA e diretto dai professori Dino Ruta e Emanuela Prandelli, pensato per far fronte alla crescente necessità dei giocatori di conoscere e vivere la dimensione internazionale anche dal punto di vista economico-manageriale. Per sua stessa ammissione durante le lezioni che abbiamo potuto osservare - insieme a lui c’erano anche Zaza Pachulia, José Manuel Calderon, Cristiano Felicio, Axel Toupane, Al-Farouq Aminu, Moe Harkless, Evan Turner, Brandon Paul, Kyle Anderson, Langston Galloway, Rudy Gay e Amedeo Della Valle - Bogdanovic non sa ancora cosa farà “da grande”, anche perché sta entrando solamente adesso nel prime della sua carriera. D’altronde ha compiuto 27 anni lo scorso 17 agosto e i progetti possono ancora aspettare almeno un lustro abbondante.
Il gruppo in Bocconi dell’estate 2019 (foto: Matteo Marchi/NBPA)
Quando abbiamo potuto parlare con lui della sua carriera, del suo presente con la nazionale e del suo futuro ai Sacramento Kings, ha ammesso lui stesso di aver messo la pallacanestro sempre e comunque al primo posto: «Ho sempre giocato a basket per passione, non ho mai fatto nient’altro: per tutta la vita sono sempre rimasto concentrato al 100% sulla pallacanestro». Una determinazione che lo ha portato molto lontano.
The Journey
A differenza della maggior parte dei suoi compagni e di buona parte dei giocatori NBA, il percorso di Bogdan Bogdanovic per arrivare nella lega di Adam Silver è stato notevolmente più lungo. A 19 anni, l’età in cui alcuni suoi vicini di spogliatoio come De’Aaron Fox o Marvin Bagley sono stati scelti al Draft, non era neanche lontanamente vicino a fare il grande salto verso la NBA. Anzi, non era nemmeno riuscito ad affermarsi in patria, dove i suoi risultati a livello giovanile all’SSK Zvezdara prima e al KK Zitko (specialmente uno spettacolare torneo NIJT a Parigi durante le Final Four del 2010) poi gli sono valse il passaggio a 18 anni al Partizan Belgrado. Lì però la sua “educazione serba” era appena all’inizio: nei primi due anni non ha praticamente mai visto il campo, complice una squadra allora molto forte (andata vicina a eliminare a sorpresa l’Olympiacos) e alcuni dei migliori tiratori di quella generazione nel suo ruolo come Aleksandar Rasic e Dusan Kecman, oltre a Vladimir Lucic che al tempo era considerato un prospetto migliore di lui.
«Io ho sempre sognato di andare nella NBA, ma so da dove vengo» spiega Bogdanovic quando gli chiedo dello strano percorso della sua carriera, specialmente in questa era in cui si sa tutto di tutti fin da giovanissimi. «Ognuno ha affrontato un viaggio diverso per arrivare in NBA: ogni giocatore nel corso della sua carriera ha dovuto trovare il suo modo per avere successo, emergendo prima di tutto nel suo luogo di nascita. Il Partizan era un grande club in Serbia, perciò il mio primo obiettivo era diventare il miglior giocatore di quella squadra. Quando ci sono riuscito, dopo quattro anni, sono passato al Fenerbahce con lo stesso atteggiamento: rimanere lì fino a quando non avessi trovato il modo per diventare il migliore della squadra».
Un passaggio di squadra arrivato a 22 anni, al termine della stagione 2013-14 che rappresenta il vero punto di svolta della sua carriera, grazie anche al lavoro incessante e alla fiducia concessagli da coach Dusko Vujosevic e a quella di un altro coach fondamentale nella sua crescita come Sasha Djordjevic. Nell’estate del 2013, infatti, le prime esperienze con la nazionale serba hanno rappresentato un boost di fiducia nei propri mezzi che lo ha portato ad affermarsi definitivamente al Partizan, rifilando anche 27 punti al CSKA Mosca in una memorabile partita di Eurolega.
È nata una stella.
Al termine di quella stagione europea chiusa sfiorando i 15 punti, 4 rimbalzi e 4 assist di media è stato votato come Rising Star della competizione, e in patria ha vinto il titolo di MVP del campionato viaggiando a 31 punti a partita nella serie finale contro la Stella Rossa. Quell’anno il suo nome finisce anche tra quelli selezionati al Draft, essendo ormai arrivato in età per poter essere automaticamente chiamato dalle squadre NBA. A sceglierlo furono i Phoenix Suns con la scelta numero 27, una pick talmente bassa da risultare quasi offensiva a vederla con gli occhi di oggi (davanti a lui furono scelti, in ordine sparso, Dante Exum, Nik Stauskas, James Young, Jordan Adams e P.J. Hairston, giusto per rimanere quelli più o meno nel suo ruolo). «Non ero particolarmente conosciuto: non sono arrivato al Draft come un grande prospetto perché in pochi mi avevano visto giocare ad alto livello, o forse non ero abbastanza forte al tempo» spiega oggi Bogdanovic parlando della sua percezione al momento del Draft, anche se pur essendo solamente cinque anni fa appare impossibile che la Rising Star dell’Eurolega venisse considerata così poco.
Bogdanovic quella sera non era neanche in Green Room.
Forse c’entra un po’ l’etichetta che le guardie europee si portano dietro da diverso tempo. Mentre ormai i lunghi europei sono riusciti a togliersi lo stigma di “molli”, venendo selezionati anche nelle primissime posizioni del Draft (con risultati che variano da Andrea Bargnani a Kristaps Porzingis) forti della loro altezza e delle loro skill con la palla tra le mani, per le guardie europee è ancora ben presente lo stereotipo che contro l’atletismo dei pari-ruolo americani o contro i più mobili lunghi della NBA non possano creare separazione con la stessa facilità con cui lo fanno in area FIBA. Un pregiudizio che ha colpito anche un talento innegabile come Luka Doncic, accompagnato da un po’ di scetticismo da parte di alcune squadre NBA al suo arrivo al Draft salvo poi spazzare via tutto con una stagione da rookie sensazionale.
Bogdanovic si spiega così la differenza di percezione tra guardie e lunghi europei: «Per una guardia europea è effettivamente un po’ più difficile emergere. È anche una questione di cultura: per molti giocatori americani vengono prima l’individualità e i propri obiettivi, mentre in Europa ai lunghi viene insegnato a essere prima di tutto utili per la squadra nelle piccole cose. Per questo ci sono tanti lunghi europei in NBA che, pur senza mettere su grandi cifre, sono in grado di avere lunghe carriere ad alto livello in America — perché sono in grado di aiutare i giocatori di maggiore talento ad avere più spazio e a giocare meglio facendo le ‘cose da lunghi’. In NBA tutti vogliono essere delle guardie, perché è una lega di guardie — almeno fino a quando non tornerà uno Shaquille O’Neal a cambiare di nuovo il gioco».
Il migliore in Europa
Fatto sta che nel 2014, a 22 anni ormai prossimi a compiersi, non va in NBA ai Phoenix Suns come sarebbe stato lecito attendersi da giocatori della sua età e delle sue prospettive, ma passa al Fenerbahce di Zelimir Obradovic per diventare non solo il miglior giocatore in Serbia, ma in tutta Europa. «Per me essere il migliore non significa quello che ha i migliori numeri, ma quello che può guidare e aiutare gli altri, il punto di riferimento all’interno della squadra» spiega ora Bogdanovic su quello che è il suo personale concetto di “migliore”. «È quello che ho imparato nei sistemi del Partizan e del Fener, dove ho avuto degli ottimi allenatori. Sono contento di averli conosciuti perché hanno fatto un grande lavoro: ho capito che cosa volevano da me e cosa volevano che io facessi per la squadra nel sua totalità, imparando molte cose positive che ora posso sfruttare a mio vantaggio. Da loro ho imparato come vincere le partite».
E vincere è stato ciò che ha fatto nei suoi tre anni in Turchia al fianco del nostro Gigi Datome: alla sua bacheca ha aggiunto due campionati turchi (2016 e 2017, il secondo da MVP delle finali), una coppa di Turchia (2016 da MVP), una coppa del presidente (2016), un altro premio di Rising Star dell’Eurolega (2015) e il coronamento della sua carriera europea, quella Eurolega del 2017 arrivata dopo aver perso alle Final Four sia nel 2015 (in semifinale contro il Real Madrid) che soprattutto nel 2016 (finale al supplementare contro il CSKA Mosca).
In quell’estate del 2016 i suoi diritti NBA passano dai Suns ai Sacramento Kings del neo-arrivato GM Vlade Divac in uno scambio nella notte del Draft, ed è facile immaginarsi un suo immediato passaggio nella lega di Adam Silver in una squadra con una forte presenza serba alla guida (oltre a Divac c’è anche Peja Stojakovic nella dirigenza). Bogdanovic però insieme ai suoi compagni più importanti decide di avere un conto in sospeso con l’Eurolega e torna per un’altra stagione nella quale, finalmente, riesce a conquistare il più importante trofeo europeo battendo Real Madrid e Olympiacos nelle Final Four. È solo in quel momento che Bogdanovic ritiene di essere pronto al grande salto, anche perché — essendo passati tre anni dalla sua chiamata al Draft — può negoziare liberamente il suo contratto con i Kings senza sottostare alle regole del rookie scale.
Il rookie più pagato di sempre
La notizia della sua firma in NBA fa rumore soprattutto per le cifre del suo contratto: 36 milioni di dollari in tre anni, diventando immediatamente il rookie più pagato di sempre. Quando gli chiedo se questa cifra ha aumentato il livello di aspettative nei suoi confronti, la risposta di Bogdanovic è estremamente pragmatica: «Il fatto di essere il rookie più pagato di sempre è semplicemente una questione di mercato, non significa niente. Nei prossimi anni arriverà un nuovo rookie a guadagnare più di quanto ho guadagnato io col mio primo contratto perché la popolarità della NBA sta esplodendo e i salari vanno di pari passo. Penso comunque di essermi guadagnato tutto sul campo in termini di soldi».
In effetti ora 12 milioni di dollari sembrano pochi per un giocatore del suo livello, e c’è da scommettere che il prossimo stipendio di Bogdanovic sarà decisamente più alto — specialmente in una classe di free agent del 2020 che non offre nomi particolarmente altisonanti, né nel suo ruolo né altrove. In ogni caso il suo adattamento alla NBA ha richiesto tempo, prendendosi praticamente un’intera stagione per capire come funziona un mondo per lui totalmente nuovo: «Ho approcciato la mia carriera in NBA partendo da zero senza preconcetti, dicendomi: ok, vediamo qual è la situazione e godiamoci il momento, poi analizziamo la bigger picture».
Il viaggio di Bogdanovic raccontato dai Sacramento Kings.
Quando gli chiedo se c’è stato un momento in cui ha capito non solo di poter essere un giocatore NBA, ma un giocatore NBA di successo, Bogdanovic è rapido nel farmi capire che tra le due espressioni c’è molta differenza: «Ho capito di poter essere un giocatore NBA quando sono stato scelto al Draft, ma avere successo in NBA è un altro discorso. Per molti giocatori arrivarci è già l’obiettivo finale, ma quando ci giochi ti scontri davvero con la realtà della lega. È una sorta di presa di coscienza di qual è il livello richiesto o di quali sono le differenze rispetto agli altri campionati: vedi che non ci sono più gli spazi ai quali eri abituato, sia in termini di minuti che di spazi fisici in campo. In tanti, quando si scontrano con questo nuovo contesto, tornano indietro in Europa dove possono avere un ruolo maggiore, oppure alcuni americani vanno in Europa per avere più minuti e migliorare, tornando indietro quando sono davvero pronti».
Una differenza, quella tra NBA e Eurolega/FIBA, che ritorna spesso nei discorsi di Bogdanovic: «Il basket nella NBA e in Europa sono completamente diversi: regole diverse, numero di partite diverse, mercati diversi, la linea dei tre punti più lontana, le dimensioni del campo, come vengono fischiati i falli, tutto. Alla fine bisogna sempre saper mettere il pallone nel canestro, ma il modo in cui puoi segnare in NBA è diverso rispetto a quello della FIBA, dove c’è un po’ più di fisicità e dove i giocatori sono un po’ più preoccupati nel fare certi tipi di cose, mentre in NBA si è più liberi da spintine, trattenute e cose del genere. La cultura è diversa».
Leggendo tra le righe delle sue parole non è difficile capire quale sia quella che Bogdanovic preferisce e che se potesse scegliere lui giocherebbe sempre in area FIBA — a un certo punto mi ha detto: «Se il campionato serbo fosse stato il migliore al mondo, sarei rimasto lì per il resto della mia vita» — e in particolare nella cultura di pallacanestro che lui evidentemente preferisce. Una predilezione che è particolarmente evidente nel modo in cui gioca con la nazionale serba, con la quale ha raccolto una sequenza di argenti (in Spagna nei Mondiali del 2014, alle Olimpiadi di Rio nel 2016 e agli Europei del 2017) che spera di interrompere quest’anno ai Mondiali di Cina salendo sul gradino più alto del podio.
Da come ha giocato contro l’Italia, questa sembra essere la volta buona per la Serbia.
La “cultura condivisa” della Serbia
L’infortunio di Milos Teodosic durante la preparazione alla FIBA World Cup ha reso inevitabilmente ancora più centrale la figura di Bogdanovic per questa versione della Serbia, che sembra cucita su misura per esaltare le sue caratteristiche tecniche e le sue doti di leadership. Anche qui, la crescita è stato un processo lento e costruito nel tempo, che lui stesso sottolinea rispondendo alla mia domanda su quanto lo abbia aiutato giocare con la Nazionale per diventare il giocatore che è ora: «Per me è stato fondamentale. Solo giocando certi tipi di partite capisci cosa serve nelle circostanze più complicate, più tese» dice, e gli occhi sembrano illuminarsi diversamente da prima. «Tutto in nazionale è diverso: giochi insieme a tutti i migliori del tuo paese, perciò ti inserisci anche in un contesto di cultura condivisa differente rispetto agli altri, insieme a persone che sono cresciute giocando nello tuo stesso modo e che vedono la pallacanestro come te. Per me è molto più divertente: con la Nazionale vado in campo e me la godo».
Se prendiamo per buona la definizione di “miglior giocatore” di Bogdanovic come quello che funge da riferimento per tutti gli altri, non c’è alcun dubbio che sia lui — più di Nikola Jokic, Boban Marjanovic o Nemanja Bjelica — il miglior giocatore della squadra di Sasha Djordjevic. Dal modo in cui dialoga con i compagni in maniera quasi telepatica, da come si muove lontano dal pallone sapendo che ogni suo taglio verrà premiato, da come lascia spazio agli altri nel gestire l’azione senza imporre il proprio ego, si capisce che quella tra Bogdanovic e gli altri membri della Serbia è una connessione che va oltre la semplice pallacanestro: è la cultura condivisa a cui lui stesso fa riferimento, dell’essere nati e cresciuti giocando un certo tipo di basket che tutti — dopo essersi sparpagliati tra Stati Uniti e Europa con le squadre di club — riconoscono immediatamente come insite nel proprio DNA. E di certo aiuta il fatto di essere tutti più o meno della stessa età e con un IQ cestistico di altissimo livello, che permette di intendersi letteralmente con un’occhiata.
Anche nell’unica sconfitta di questi mondiali della sua Serbia, la sua prestazione è stata spettacolare: 26 punti, 10 rimbalzi e 6 assist, meritandosi i complimenti di Sergio Scariolo che lo ha definito semplicemente “ridiculous”.
In questi Mondiali Bogdanovic sta probabilmente giocando la miglior pallacanestro della sua carriera, viaggiando nelle prime tre a 24 punti di media (solo il neozelandese Corey Webster ha fatto meglio con 25) con un’efficienza al tiro spaventosa: 61.5% dal campo con 15/23 da tre punti, sporcando solo leggermente le percentuali dopo essere partito con 12/14 dall’arco contro Filippine, Angole e primo tempo contro l’Italia. Bogdanovic sembra aver raggiunto quel raro momento della carriera in cui tutte le componenti — quella tecnico-tattica, quella fisica e quella emotiva — sono al picco, riducendo allo stesso tempo il suo gioco all’essenziale.
Fair to the game
Quasi due anni fa il nostro Miky Pettene con un azzardo immaginifico paragonava la struttura fisica e il gioco stesso di Bogdanovic alla corrente architettonica del Brutalismo serbo, e c’è qualcosa nel suo gioco che si percepisce come diverso. Guardando Bogdanovic è impossibile non essere rapiti dal modo in cui non spreca neanche un movimento: quando si alza per il tiro la meccanica è sempre centrata, le spalle sono sempre perfettamente rivolte verso il canestro, il gomito non si sposta di un millimetro dall’asse ideale che insegnano nelle scuole basket, l’angolo formato da braccia e spalle è sempre impeccabile, la frustata è essenziale nel suo movimento senza per questo perdere di morbidezza nel tocco. Quando Bogdanovic prende un tiro in ritmo, pensare che quel tiro possa uscire è semplicemente ingiusto nei confronti del minuzioso lavoro di preparazione che ha fatto.
Il suo pragmatismo non si limita solo alla sua meccanica di tiro: anche quando si muove per il campo il numero 7 serbo non utilizza neanche un palleggio più di quanto sia necessario, scarica il pallone e si muove immediatamente se pensa di non poter creare un vantaggio da solo, cerca di forzare il meno possibile se la situazione non lo richiede ed è sempre disponibile a passarla se ritiene che quella sia la soluzione migliore al problema che si trova di fronte. Caratteristiche che, unite alla sua mentalità assolutamente spietata quando si apre la possibilità di punire le difese avversarie (con uno sguardo infuocato che ricorda sinistramente quello di Andriy Shevchenko prima del rigore decisivo a Manchester 2003), lo rendono un giocatore pressoché ideale nei finali punto a punto, come ha dimostrato nella sua — ancor breve — carriera NBA.
Più ancora del suo buzzer beater contro i Lakers, questo canestro decisivo segnato contro Draymond Green riassume il suo gioco meglio di ogni altra azione: pur trovandosi davanti uno dei migliori difensori di questa generazione, fa sembrare facile costruirsi quel tiro in uno contro uno senza sprecare neanche un movimento e prendendo inevitabilmente il tempo all’avversario, mandando a vuoto il tentativo di stoppata con una spintina sul petto da veterano consumato e appoggiando dolcemente al vetro galleggiando in aria.
Quando provo a chiedergli se il suo controllo del corpo e l’essenzialità dei suoi movimenti siano i tratti che gli permettono di essere così efficiente nelle situazioni clutch, inizialmente sembra non capire la domanda — come se per lui giocare in quella maniera fosse l’unica possibile, come se un essere umano debba spiegare a un altro come fa a respirare. Poi provo a spiegarmi bene, mi rifila una risposta che non mi aspetto, ma che è perfetta per incorniciare in poche parole il suo gioco: «You have to always be fair to the game and to yourself», che si può tradurre come “devi essere sempre onesto nei confronti del gioco e di te stesso”. Poi spiega: «È quello che mi dà la fiducia per fare quello che ritengo sia giusto fare in campo: quando fai più cose positive rispetto a quelle negative, i risultati arrivano di conseguenza». Può sembrare un ragionamento semplicistico, ma è quella che meglio rappresenta la mentalità di un giocatore che in questa maniera è sempre riuscito a raggiungere gli obiettivi che si era prefissato.
Prossima fermata: i playoff NBA
Bogdanovic sa di aver fatto tutto nella maniera giusta, di non aver saltato neanche un passaggio nel lungo percorso che lo ha portato ad essere il miglior giocatore di ogni squadra di cui ha vestito la maglia — e ha in programma di diventarlo anche dei Sacramento Kings, per quanto per lui questo non coincida necessariamente col distribuire più assist di De’Aaron Fox, prendere più rimbalzi di Marvin Bagley o segnare più punti di Buddy Hield. Proprio con il bahamense, anzi, ha creato un rapporto di amicizia per certi versi impensabile, specialmente per due giocatori che hanno caratteristiche fisiche e tecniche estremamente simili. Lui stesso ammette che è una cosa rara: «Siamo entrambi in competizione per lo stesso ruolo e gli stessi minuti, ma non ho un problema di ego, non metto il mio ‘io’ davanti agli altri» spiega. «Forse succedeva quando ero più giovane, ma col tempo si impara. Buddy e io siamo più o meno della stessa età e allo stesso tempo, pur non essendo vecchi, siamo più avanti rispetto ai nostri compagni, quindi ci siamo ritrovati a essere leader e veterani di una squadra giovane. A entrambi poi piace allenarci, che è una delle tante cose che ci accomuna: questo ci ha fatto avvicinare in maniera imprevedibile».
Bogdanovic durante le lezioni in Bocconi (foto: Matteo Marchi/NBPA)
L’estate dei Kings ha portato a tanti cambiamenti in una squadra che lo scorso anno ha sorpreso tutti, giocandosela praticamente fino all’ultimo per un ottavo posto a Ovest che nessuno aveva previsto. Bogdanovic è stato ovviamente una parte importante di quella cavalcata pur partendo a rilento per un’operazione al ginocchio, e ha in testa di esserlo anche sotto la nuova guida di coach Luke Walton: «Per il prossimo anno ho un solo obiettivo: arrivare ai playoff. Bisognerà creare una nuova cultura con un nuovo allenatore e un nuovo staff: ci saranno tante novità perché cercheranno di fare le cose nella loro maniera, ovviamente, e solo dopo capiremo cosa potremo fare e quali saranno i nostri punti di forza. Ma conto comunque che saremo una squadra di successo il prossimo anno».
Il tempo di essere considerato una promessa per il futuro è ormai alle spalle, così come i giorni in cui Bogdanovic poteva permettersi di passare così tante ore davanti a World of Warcraft da dedicargli anche il suo nome del suo account Twitter @LeaderOfHorde, leader dell’Orda («Ci giocavo fino a 7-8 anni fa, quando era popolare: ora non ho più tempo per i videogiochi, ma spero sempre un giorno di poterci tornare seriamente. Erano i momenti migliori» dice con un sorriso al termine dell’intervista). Ora Bogdan Bogdanovic sente di aver fatto il lavoro necessario per prendersi prima il mondo con la Serbia e poi i playoff della NBA con i Kings, prima di presentarsi sotto una nuova luce sul mercato dei free agent 2020.
Quello che non cambierà è il suo approccio al gioco, verso il quale bisogna sempre essere onesti.