Prima della partita di mercoledì scorso tra Gibilterra e Norvegia, valida per le qualificazioni ai Mondiali in Qatar del 2022, è successa una cosa che non capita tutti i giorni. I giocatori norvegesi durante l’esecuzione degli inni si sono presentati indossando una t-shirt bianca con scritto in nero “Human rights: on and off the pitch”, cioè “Diritti umani: dentro e fuori dal campo”. Un messaggio in realtà talmente vago e condivisibile che per poter essere decodificato aveva bisogno di un po’ di contesto. Per esempio le dichiarazioni del CT della Norvegia, Stale Solbakken, che prima della partita contro Gibilterra aveva annunciato che i suoi giocatori avrebbero utilizzato la partita per sollevare la questione delle violazioni dei diritti umani perpetrate in Qatar, dove migliaia di lavoratori sono morti per costruire gli stadi e le infrastrutture necessarie allo svolgimento dei Mondiali dell’anno prossimo. «La parola dialogo è molto vaga e pavida. Deve esserci una pressione, misure dirette affinché le cose migliorino», ha dichiarato Solbakken, «Lo sport può mandare dei segnali».
Il giorno dopo alla Norvegia si è unita la Germania, che però ha optato per un altro metodo. Forse perché qualcuno si era lamentato della scarsa visibilità delle magliette norvegesi, i giocatori tedeschi hanno indossato una maglietta nera ognuna con una grande lettera bianca. Una dietro l’altra andavano a comporre le parole “Human Rights”. Poi è stato il turno della Danimarca, dell’Olanda e del Belgio che a loro volta nelle loro prime partite di qualificazione ai Mondiali hanno indossato una maglietta, questa volta con scritto “Football supports change”, ovvero “Il calcio sostiene il cambiamento”. La Norvegia, però, è stata l’unica tra queste Nazionali ad aggiungere alle magliette anche un ulteriore gesto per rafforzare il messaggio. Nella seconda partita di qualificazione, contro la Turchia, i giocatori norvegesi durante l’esecuzione del proprio inno hanno anche alzato la mano aperta a fare il segno del cinque.
Anche in questo caso, lo statement della Norvegia non era chiarissimo: a cosa si riferiva quel cinque? Secondo alcune interpretazioni, quello dei giocatori norvegesi era un riferimento allo Human Rights Act - la legge con cui il parlamento della Norvegia nel 1999 recepì all’interno del proprio sistema giuridico cinque importanti trattati internazionali a protezione dei diritti umani (cioè la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; la convenzione internazionale sui diritti civili e politici; la convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali; la convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna; e la convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia). La domanda che sorge spontanea di fronte a queste immagini e a queste interpretazioni è perché le Nazionali che si sono esposte non hanno scelto un messaggio più chiaro e diretto nei confronti dei Mondiali in Qatar: perché, insomma, hanno deciso di essere così vaghe?
La risposta è più semplice e pratica di quanto non si possa pensare. La FIFA infatti vieta in maniera molto esplicita e rigida l’esposizione di messaggi politici in campo, sia con gesti che con magliette, con pene anche severe. E probabilmente lo sarebbe stata tanto più su un tema così spinoso che la coinvolge in prima “persona”, dato che alla fine è stata la FIFA a decidere di giocare i Mondiali del prossimo anno in Qatar e non certo i giocatori, come ha fatto notare Georginio Wijnaldum. Le Nazionali in questione hanno quindi optato per un messaggio più ampio e condivisibile possibile così da non incorrere in sanzioni dalla FIFA (che di certo non avrebbe potuto punire delle Nazionali per invitare il pubblico a rispettare i diritti umani), ma il cui riferimento ai Mondiali in Qatar del 2022 fosse comunque comprensibile. Come detto, ha aiutato anche il contesto che si è venuto a creare intorno a queste partite attraverso le dichiarazioni di queste stesse Nazionali. Le federazione olandese e quella belga, ad esempio, hanno preso posizione attraverso un comunicato in cui spiegavano la loro iniziativa in maniera incredibilmente coraggiosa per gli standard del mondo del calcio. Quella belga è andata addirittura oltre, pubblicando un paio di tweet in cui chiedeva «misure più forti per migliorare le condizioni di lavoro e il rispetto dei diritti umani in Qatar».
Alla fine, comunque, il messaggio è stato efficace nell’attirare attenzione su un tema di cui si parla da anni ma che non è mai riuscito a produrre una risposta politica di qualche tipo. Nelle due settimane di pausa internazionale la stampa ha interrogato i giocatori di queste Nazionali sulle condizioni dei lavoratori in Qatar, qualcosa che fino a qualche tempo fa sembrava impensabile. Negli ultimi anni non ci sono mai state così tante dichiarazioni “politiche” di calciatori come negli ultimi giorni e già questo è un risultato non di poco conto. Sul tema si sono espressi, tra gli altri, Odegaard, Wijnaldum, Kimmich e Goretzka, anche se forse quello che si è esposto di più è stato Toni Kroos, che al podcast "Einfach mal Luppen" ha parlato lungamente di ciò che secondo lui non andava nel giocare i Mondiali in Qatar citando non solo le condizioni dei lavoratori ma anche temi meno dibattuti come la criminalizzazione dell’omosessualità. Interrogato sulla possibilità che la Germania possa arrivare a boicottare i Mondiali del prossimo anno, il centrocampista del Real Madrid però è stato chiaro. «Devi chiederti: qual è il punto di un boicottaggio? Migliorerebbe davvero le cose laggiù? Cambierebbe le condizioni di lavoro? Non penso», ha dichiarato Kroos. «I Mondiali forse possono spostare l’attenzione su questi problemi e cambiare le cose in futuro così che la situazione migliori».
Le dichiarazioni di Kroos rispondono in parte alla seconda domanda che istintivamente ci si potrebbe fare guardando le immagini delle scorse settimane, e cioè: perché, se sono contrarie ai Mondiali in Qatar, queste Nazionali non si sono ritirate dalle partite di qualificazione? In realtà, come ha fatto capire anche Kroos, il fatto che abbiano deciso di prendere posizione sul tema non significa che siano a favore di un boicottaggio dei Mondiali, anzi. Belgio e Olanda nel comunicato in cui hanno spiegato la propria iniziativa hanno messo in chiaro di essere contrarie. «A un anno dell’evento potremmo ancora, come qualcuno sta suggerendo, decidere di boicottare la Coppa del Mondo in Qatar», si legge ad esempio nel comunicato della federazione olandese «Nonostante ciò, organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch non sono in favore di un boicottaggio che a loro modo di vedere non aiuterebbe i lavoratori migranti in Qatar».
Il punto di vista di Belgio e Olanda, ma anche di Germania e Danimarca (sulla Norvegia il discorso è più complesso e ci torneremo più avanti), è quindi esclusivamente utilitaristico: secondo loro, semplicemente, il boicottaggio sarebbe inutile a raggiungere gli obiettivi che si prefigge. Un punto di vista discutibile e che nasconde una certa dose di ipocrisia, certo, soprattutto nel nascondere gli indiscutibili interessi che queste Nazionali hanno nell’evitare di promuovere un boicottaggio vero e proprio. Quale sarebbe stata la reazione del Qatar o della FIFA se una Nazionale importante come la Germania si fosse ritirata dalle partite di qualificazione? Siamo sicuri che un gesto così forte non avrebbe prodotto alcuna conseguenza? A questo proposito è anche giusto sottolineare, come ha fatto il giornalista di AP, Rob Harris, che se queste iniziative hanno prodotto un’eco relativamente grande in Europa, in Qatar invece non hanno suscitato alcuna reazione. Nonostante le scorse due settimane siano state le più dure per l’immagine dei Mondiali del prossimo anno, né il comitato organizzatore né il governo di Doha hanno deciso di rispondere alle accuse.
Da casa, ovviamente, ognuno è libero di esigere la coerenza che vuole nei confronti degli atleti che si espongono su questi temi. C’è chi sarà contento per essere riuscito a ottenere per lo meno una presa di posizione da parte di un mondo che ha la fobia di esporsi su temi che non hanno a che fare con il campo, sperando magari che nelle prossime settimane il dibattito si allarghi a tal punto da produrre davvero dei risultati concreti. E chi invece utilizzerà la presa di posizione dei giocatori e delle Nazionali per giudicare ogni loro scelta futura, inchiodandoli alla loro incoerenza: quanti rinfacceranno questa t-shirt ad Haaland, ad esempio, nel caso in cui quest’estate dovesse passare al PSG, che è di fatto controllata dal governo del Qatar?
Io che non ho la pretesa di plasmare la vostra sensibilità e di certo non so prevedere il futuro non posso far altro che provare a rispondere a una terza domanda che qualcuno magari potrebbe porsi. E cioè: perché, se i Mondiali in Qatar sono stati assegnati nel lontano 2010 e sono anni che si discute di un possibile boicottaggio, le Nazionali si stanno esponendo solo adesso? La risposta è più complicata di quanto non sembri e ha a che fare con quel concetto fumoso e intangibile che va sotto il nome di “potere del giornalismo”.
Sui Mondiali in Qatar, infatti, si è discusso molto ma per motivi diversi: prima si è parlato della corruzione che ha portato alla loro assegnazione, che poi ha portato all’azzeramento del management della FIFA; poi del caldo del Qatar in estate, problema “risolto” spostando in via eccezionale i Mondiali di inverno; infine delle condizioni di lavoro e di vita degli operai impiegati nella costruzione delle infrastrutture necessarie a ospitare la Coppa del Mondo, segregati dalla società qatariota e ridotti in uno stato di semi-schiavitù. Del problema più grande e controverso, quello cioè che queste condizioni avessero provocato addirittura la morte di centinaia di lavoratori, il governo di Doha era riuscito fino a poche settimane fa a non far trapelare storie e dati, impedendo all’opinione pubblica e alla politica di prendere una posizione chiara sul tema. Lo scorso 23 febbraio, però, le cose sono cambiate quando il Guardian è finalmente riuscito a pubblicare una lunga e approfondita inchiesta a riguardo. Un lavoro di fondamentale importanza, non solo perché contiene al suo interno finalmente una stima delle morti (circa 6750 dall’assegnazione dei Mondiali a oggi, tra i lavoratori provenienti da India, Nepal, Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka) ma anche perché riesce a raccontare alcune delle storie delle vite che sono andate perse. Come quella di Mohammad Shahid Miah, rimasto folgorato per la pioggia piovuta dentro la sua camera durante un acquazzone particolarmente violento ed entrata in contatto con alcuni cavi elettrici scoperti.
L’inchiesta del Guardian apre i comunicati delle federazioni belga e olandese, che lo definiscono “scioccante” e dicono di averla letto “con sgomento”, e non a caso. Se c’è una cosa che accomuna tutte le Nazionali ad aver preso posizione sono infatti i movimenti che si sono sviluppati all’interno delle rispettive società in reazione all’articolo del quotidiano inglese. In Olanda, ad esempio, lo scorso 2 marzo il governo ha deciso di posticipare un summit commerciale con il Qatar proprio per questa ragione. «Questa notizia ha portato ad un’ampia discussione nella società olandese e in parlamento», ha dichiarato il portavoce ministero degli esteri olandese Jeroen van Dommelen «Abbiamo già parlato con il Qatar delle cattive condizioni di questi lavoratori, ma questi numeri danno alla discussione un nuovo significato». In Germania è stata invece l’associazione ProFans, che riunisce i soci di minoranza delle squadre, a chiedere di prendere in considerazione un boicottaggio nei confronti del Qatar. In Danimarca è stata attivata una petizione popolare che, se dovesse raccogliere le 50mila firme entro l’8 giugno, porterebbe questa discussione in Parlamento.
La situazione più delicata, però, è quella della Norvegia, dove già dal 26 febbraio, cioè pochi giorni dopo la pubblicazione dell’inchiesta del Guardian, il Tromso ha fatto partire un’iniziativa per chiedere alla federazione di boicottare i Mondiali del prossimo anno. «Pensiamo che sia tempo per il calcio di fermarsi e fare qualche passo indietro», si legge nel comunicato della squadra norvegese «Il fatto che la corruzione, la schiavitù ed un alto numero di morti tra i lavoratori siano alla base del torneo più importante è del tutto inaccettabile». Nelle settimane successive, alla richiesta del Tromso si sono uniti ben sei altri club (tra cui i tre più grandi e seguiti, cioè il Rosenborg, il Vålerenga e il Brann) e 14 delle 16 associazioni di tifosi delle squadre della prima serie. In poco tempo, quindi, l’iniziativa del Tromso è diventato un caso nazionale. La federazione norvegese, che è contraria a un boicottaggio vero e proprio proprio nel momento in cui la Nazionale può contare su giocatori come Haaland e Odegaard, è riuscita a prendere tempo posticipando la decisione dal 14 marzo, quando era inizialmente prevista la votazione, al 20 giugno.
L’iniziativa della Nazionale, quindi, potrebbe essere vista anche come un modo della federazione per far vedere di star ascoltando le richieste che le vengono fatte in patria, magari con la convinzione di riuscire a convincere nelle prossime settimane l’opinione pubblica che questa soluzione di compromesso sia la migliore per tutti. Ma come ha spiegato l’editor della rivista norvegese Josimar, Håvard Melnæs, proprio al Guardian, non è detto che con il tempo il movimento per il boicottaggio si spegnerà, anzi. La proprietà dei club norvegesi è infatti fortemente democraticizzata e le decisioni sono prese a maggioranza tra i soci. Se si continuasse a discutere del boicottaggio o uscissero nuove inchieste è possibile al contrario che da qui al 20 giugno le richieste si farebbero ancora più forti e pressanti. E se la Norvegia dovesse ufficialmente uscire dalle qualificazioni per i Mondiali cosa farebbero a quel punto la Germania, l’Olanda, la Danimarca e il Belgio? E le altre Nazionali europee?
Al di là di come andrà a finire e di come la si pensi sul boicottaggio, bisognerebbe iniziare a riflettere e a discutere su queste domande anche in Italia. Non per forza per arrivare a una risposta univoca e condivisa, ma quanto meno per sviluppare una coscienza critica rispetto a un evento che pone gravi problemi etici all’intera industria calcistica. E quindi, in un Paese malato di calcio come il nostro, all’intera società. Alla fine è anche questo che significa essere una democrazia.