C’è qualcosa che non torna nell’azione che decide la partita tra Bolivia e Colombia. Al 58', sulla fascia destra, si ritrovano di fronte Miguelito - il cui nome da giocattolo rivela l'inesperienza tra i professionisti - e Lucumì - che ha già fatto il titolare in Champions League. In uno contro uno non dovrebbe esserci storia e forse è questo che pensa anche il resto della Nazionale colombiana che controlla quel fallo laterale nella propria trequarti in maniera un po’ troppo rilassata. Cosa potrà mai andare storto? La differenza di velocità tra i due però si rivela impressionante. La giovane ala boliviana è elettrica. Punta Lucumì e con l’esterno del sinistro lo supera di netto, mentre quello sembra sgonfiarsi come un palloncino. Poi, arrivato al limite dell’area, fa come per tirare. Castaño gli si butta tra le gambe per parargli il tiro ma quello finta di nuovo con l’esterno del sinistro, aprendosi un’altra volta lo specchio della porta. Arriva finalmente il momento del tiro: una traiettoria che si impenna con la stessa accelerazione chirurgica dei missili terra-aria e si infila in maniera talmente precisa sotto il sette più lontano che il pallone sembra impigliarsi nella rete.
È il gol che decide una partita strana. Per la Colombia i primi minuti devono essere stati come entrare in uno dei quei video in cui si accelerano gli highlights di Ronaldo il Fenomeno, solo che Ronaldo il Fenomeno era ogni singolo giocatore della Nazionale boliviana. Dopo poco più di un minuto di gioco un cross velleitario da sinistra per poco non finisce sotto il sette. Dopo una manciata di secondi un tiro di Miguelito da una ventina di metri si proietta verso la porta a una velocità impressionante. Il portiere riesce appena a sfiorarlo che si stampa sulla traversa e si innalza verso il cielo. Nei minuti successivi è Chura a provarci dalla stessa distanza per un paio di volte, e poi Ramiro Vaca. Per il portiere colombiano è un bombardamento. Poi al ventesimo il centrocampista boliviano Cuellar viene espulso per fallo da ultimo uomo e le cose si normalizzano. La Colombia ha avuto le sue occasioni, alcune clamorose, ma alla fine non è bastato. Avere in campo Luis Diaz e James Rodriguez, un uomo in più per oltre 70 minuti, e 74 posizioni di ranking FIFA di differenza non è servito ad evitare la sconfitta.
Non è stata una sconfitta netta, le cose sarebbero potute facilmente andare in maniera diversa, eppure il titolo del video degli highlights pubblicato dalla divisione latinoamericana di Fox News non ha dubbi: la Colombia è solo “un’altra vittima dell’altura boliviana”.
Altura è una parola che in italiano quasi non si usa e che in castigliano invece ha assunto un significato estremamente preciso nella zona della Cordigliera delle Ande. Più che l’altitudine di un posto si intende la forza quasi nucleare della montagna nell’annientare l’essere umano. La sensazione di non avere più aria nei polmoni o più forza nelle gambe, che anche il più piccolo sforzo sia diventato insostenibile, figuriamoci una partita di calcio ai massimi livelli. «La altura que sofoca», come la definiscono i Calle 13 nella canzone Latinoamérica.
Il CT della Colombia, Nestor Lorenzo, aveva provato a prendere delle precauzioni. Giorni prima della partita aveva detto di voler convocare giocatori più abituati a giocare in queste condizioni e aveva radunato la squadra per acclimatarsi a Cochabamba, quasi 400 chilometri a sud-est di La Paz, l’ultimo accampamento prima dell’assedio alla montagna. «Perché è a un’altitudine simile a quella di Bogotà», aveva detto. Cochabamba è a 2558 metri sul livello del mare. Bogotà a 2640. Per arrivare a La Paz, dove solitamente la Nazionale boliviana ospita i suoi avversari, bisogna però aggiungere quasi un altro chilometro di dislivello: lo stadio Hernando Siles, dedicato al 31esimo presidente della Bolivia, è a 3637 metri sul livello del mare. Camminando intorno al suo perimetro, tra i palazzoni color sabbia, i venditori ambulanti che arrostiscono le salsicce sulla griglia, non vi verrebbe mai in mente che in Italia esistono solo 17 cime che superano quell’altezza. Tecnicamente quella semplice passeggiata potrebbe qualificarvi come alpinisti. Il problema, per Nestor Lorenzo e il resto della Colombia, è che la partita contro la Bolivia non si teneva all’Hernando Siles, e nemmeno a La Paz, ma allo stadio di Villa Ingenio di El Alto, un nome che non ha bisogno di spiegazioni. L’altitudine a cui si trova il campo è di 4150 metri sul livello del mare, circa 90 in più rispetto alla cima del Gran Paradiso. Per arrivarci da La Paz, che è molto vicina, si può usare una funivia.
A queste altezze siamo abituati ad immaginarci neve soffice e ghiaccio, aria fredda respirata a pieni polmoni. E invece lo scenario è desolante. La rarefazione dell’ossigeno e la bassa pressione rendono la vita difficile, i paesaggi sono semi-desertici e vengono inceneriti dal sole. El Alto si arrampica sulla roccia quasi nuda, dove sembra non possa crescere niente, e sullo sfondo si staglia l’immenso massiccio roccioso dell’Huayna Potosí, immerso tra le nuvole bianche, che sembra guardare da lontano le sofferenze degli sventurati che hanno deciso di vivere proprio lì. Il suo profilo è disegnato anche sugli spalti del Villa Ingenio, dove la Nazionale boliviana ha deciso di spostare le sue partite in casa a partire da questa stagione.
A inizio settembre era stato il Venezuela a doversi avventurare fin qui per giocare la prima partita competitiva tra nazionali giocata in questo stadio, e le cose erano andate anche peggio. Era finita 4-0, i giocatori boliviani sembravano spuntare da tutte le parti. A fine partita il CT argentino del Venezuela, Fernando Batista, si è presentato ai microfoni furibondo. «La verità è che disumano giocare qui. Non voglio accampare scuse ma è disumano», ha ripetuto, «Io stesso sono dovuto tornare per due volte nello spogliatoio a inalare dell’ossigeno perché stavo affogando. Alcuni dei miei giocatori sono usciti dal campo con la nausea». I resoconti dei venezuelani sono drammatici come quelli di chi si ritiene fortunato anche solo di essere sopravvissuto all’inferno. «È per ragioni mediche che non si può giocare così in alto», ha commentato Alí Cañas, ex giocatore ed ex membro dello staff della Nazionale venezuelana, «In qualsiasi momento potrebbe succedere qualcosa di brutto e a quel punto non potremo fare altro che dispiacerci».
I boliviani sono abituati a questo tipo di commenti e ogni volta cercano di sminuire le preoccupazioni sulle salute dei giocatori avversari. Quando nel maggio del 2019 l’arbitro Victor Hugo Hurtado è stato stroncato da un infarto proprio nello stadio di El Alto, mentre dirigeva una partita tra Always Ready e Oriente Petrolero, le autorità boliviane si sono affrettate a smentire qualsiasi correlazione con l’altura. L’autopsia ha confermato che «non c’era un edema polmonare, che nelle malattie legate all’altura è la prima cosa che si nota quando c’è un problema al sistema cardiaco», ha detto il medico dell’Always Ready, Erick Koziner, il primo a soccorrere il povero arbitro.
Che giocare così in alto sia un rischio è un sospetto che gli avversari delle squadre boliviane sollevano da sempre, soprattutto in Argentina e in Brasile, dove si sente che altrimenti sarebbe proprio impossibile perdere. Nel 2007, dopo che il Flamengo era stato costretto ad aiutarsi con dell’ossigeno per affrontare in Copa Libertadores il Real Potosì (altezza del campo sul livello del mare: 3637 metri), diversi club brasiliani annunciarono che non avrebbero più giocato a quelle altitudini, spingendo la federazione a lamentarsi con la FIFA. Non è accettabile che i giocatori finiscano la partita senza fiato e con le palpitazioni, dicevano. Il risultato fu un divieto temporaneo a giocare partite internazionali sopra i 2500 metri che però, oltre agli stadi boliviani, finì per escluderne anche altri in Colombia e in Ecuador (Quito, ad esempio, è a 2800 metri sul livello del mare). Per questa ragione in un secondo momento fu alzato a 3000 metri, escludendo di fatto solo La Paz e pochi altri stadi boliviani, una decisione di non poco conto. La Paz è infatti la capitale di fatto della Bolivia, il suo centro culturale più importante, nonché la sede della “casa” della Nazionale, il già citato stadio Hernando Siles.
L’allora presidente della Bolivia, Evo Morales, non la prese bene. Iniziò una campagna contro quello che chiamava «apartheid nel calcio», una forma di discriminazione che minava «l’universalità dello sport». Riuscì ad assoldare anche Maradona, forte della sua fedeltà ideologica al cosiddetto socialismo del XXI secolo che Morales aveva portato in Bolivia a partire dal 2006. “El Diez” avrebbe guidato una squadra di ex giocatori argentini in un’amichevole dimostrativa da tenersi proprio all’Hernando Siles di La Paz, contro una squadra boliviana allenata da Morales. Finì 7-4 per gli argentini. E se a quest’altezza riesce a giocarci un ex giocatore di 47 anni con la storia clinica di Maradona, volevano dire le autorità boliviane con quella partita, come fanno a lamentarsi dei professionisti perfettamente allenati di vent’anni? Nel maggio del 2008 il divieto venne sospeso, ufficialmente per compiere nuovi studi sugli effetti dell’altura, poi di lì a poco scomparse dall’agenda politica della FIFA.
Meno di un anno dopo, come se le divinità volessero farsi beffe dell’obbedienza di Maradona al potere, la sua Argentina si arrampicò fino a La Paz per vivere la peggiore sconfitta della sua storia. Un 6-1 a una squadra che poteva contare su Tevez, Di Maria, Mascherano, Javier Zanetti e ovviamente Lionel Messi, e che in Argentina viene ricordato annualmente ancora oggi. Paradossalmente, la Bolivia perse tutte le altre partite di quel torneo di qualificazione, comprese quelle in casa, tranne una: 2-1, a La Paz, contro il Brasile. «Ogni gol della Bolivia è stata una pugnalata al cuore», disse Maradona dopo quella partita «Se avessimo sognato quello che è successo prima della partita avremmo pensato che sarebbe stato impossibile». Inchiodato alla prospettiva di un’incoerenza evidente, Maradona si rifiutò di dare qualsiasi responsabilità all’altura per la sconfitta e fece i complimenti alla Bolivia «dal portiere fino all’ultimo dei sostituti».
In realtà, dallo storico dei precedenti è difficile non arrivare alla conclusione che quelle in Bolivia non siano partite come le altre. L’Argentina tra il 1973 e il 2005 lì non ci ha vinto nemmeno una partita. Anche restringendo il campione alle ultime partite l’indicazione pare chiara. Dal 2020 a oggi, delle 12 partite giocate a La Paz, la Bolivia ne ha perse solo 6, un risultato non male per quella che è di gran lunga la peggiore Nazionale sudamericana per ranking FIFA, tanto più se si pensa che le sconfitte sono arrivate contro le migliori Nazionali del continente (cioè Argentina, Brasile, Cile ed Ecuador). Nello stesso periodo di tempo, la Bolivia ha vinto una sola partita competitiva in trasferta, due se si includono anche le amichevoli.
D’altra parte, nessuno si sognerebbe di negare che l’altura ha un peso - anche in senso letterale, se si guardano le squadre costrette a giocare in Bolivia. Il CT colombiano, Roger Martinez, più pacato di quello del Venezuela, dopo la sconfitta della sua squadra ha detto che «non è facile» giocare a queste altitudini «anche con un uomo in più». «In queste condizioni è comune che succedano queste cose, che la palla viaggi più velocemente, che non si abbia la solita finezza nel controllo del pallone. Gli stessi boliviani non riuscivano a tenerlo incollato al piede». La bassa pressione atmosferica e la rarefazione dell’ossigeno induriscono i muscoli e offuscano la vista, e ormai il tema è talmente di pubblico dominio che anche la semplice suggestione potrebbe avere un ruolo. Personalmente sono stato a Sucre, capitale costituzionale del Paese a quasi 2800 metri d’altezza sul livello del mare, e per il mio organismo è stato come un lento effetto del sottovuoto. Dopo qualche ora in città ero costretto a riposarmi su una panchina anche dopo una passeggiata di poche decine di metri. Non riesco ad immaginarmi cosa significhi giocare una partita di calcio a più di 4000 metri. Secondo il centrocampista colombiano Michael Ortega, che gioca per il The Strongest, squadra di La Paz, a quei livelli l’altura ha anche un effetto fisico sul gioco: «La palla non prende effetto ed è molto più veloce quando passa attraverso lo spazio», ha detto recentemente in un podcast di ESPN.
Quello che per noi è solo un trucco per aiutare una Nazionale sfigata, in Bolivia però assume connotati politici e identitari. Alla fine nel Paese andino trovare una città che non sia in quota non è così facile (l’unico grande centro in “piano” è Santa Cruz de la Sierra, 416 metri sul livello del mare) e negli ultimi vent’anni la sua anima indigena legata agli altipiani e alle montagne è diventata politicamente sempre più importante. Dal 2006 infatti è stato eletto il già citato Evo Morales, primo presidente di etnia “india” dell’America Latina (Aymara per la precisione), che ha avviato un processo di ristrutturazione istituzionale volto a rimettere al centro le persone che non si riconoscono nell’eredità spagnola e più in generale europea del Paese. Popolazioni native o indigene, per lo più andine, legate alla cultura della montagna e della Pachamama (Madre Terra, in lingua Quechua), che per secoli sono state escluse dal potere in maniera meno brutale rispetto ai neri ma forse più subdola, e che oggi invece vengono riconosciute ufficialmente dalla nuova costituzione “indigenista”, che dal 2009 ha trasformato la Bolivia in uno “stato plurinazionale”.
Evo Morales, nato nella minuscola comunità di Isallavi (3783 metri d’altezza sul livello del mare), cresce politicamente come sindacalista dei coltivatori di coca, che i boliviani masticano in continuazione proprio per alleviare gli effetti dell’altura. La foglia di coca, la cui coltivazione per decenni è stata combattuta su suolo boliviano per via delle politiche imposte dalla war on drugs degli Stati Uniti, è così diventata un simbolo di questo rovesciamento politico, che ha rimesso in cima alle priorità dello stato boliviano gli elementi più cari alle popolazioni indigene, e in particolare andine. L’abbigliamento tradizionale, i culti pre-colombiani, la vita in quota, per l’appunto.
In questo processo la città di El Alto, una volta semplice propaggine di La Paz, ha assunto un’importanza culturale sempre maggiore. Di popolazione quasi del tutto Aymara (la stessa dell’ex presidente), negli ultimi anni si è arricchita con i commerci e l’economia informale, ed è diventata un centro culturale piuttosto vivace, aiutando il partito di governo (il MAS, Movimiento al Socialismo) a proiettare un’immagine moderna e proiettata nel futuro delle culture andine (per esempio con gli splendidi esempi di architettura “neo-andina”). Non è un caso allora che il MAS abbia deciso di costruire proprio qui uno stadio all’avanguardia, ovvero lo stadio di Villa Ingenio, nonostante la squadra di casa, l’Always Ready, al tempo in cui fu inaugurato (il 2017) era ancora in Serie B. Da quell’anno a oggi, l’Always Ready è stato promosso in massima serie, ha vinto uno scudetto per la prima volta dopo 63 anni, è tornato a giocare nelle competizioni continentali. Tra Copa Libertadores e Copa Sudamericana, al Villa Ingenio ha giocato sei partite e le ha vinte tutte e sei. Se si aggiungono le due della Nazionale boliviana contro Colombia e Venezuela, siamo a otto vittorie su otto in partite internazionali.
Di fronte a questi dati i boliviani continuano a considerare l’altura una condizione fisica come le altre, come il caldo, la pioggia o l’erba ghiacciata, ed è difficile dargli torto. Alla fine nessuna partita si può giocare in condizioni di sterilità ambientale. Nemmeno due anni fa abbiamo accettato che i Mondiali si giocassero letteralmente in mezzo al deserto e nessuno si penserebbe di considerare Francia-Argentina una partita “truccata”.
Negli ultimi 70 anni di storia la Bolivia si è qualificata ai Mondiali solo una volta e, nonostante l’aiuto delle Ande intorno a El Alto, anche la qualificazione ai Mondiali del 2026 sarà molto difficile, a conferma che l’altura può influire fino a un certo punto. Dopo una striscia di tre vittorie consecutive, di cui una piuttosto sorprendente in trasferta contro il Cile, ieri la Bolivia ha preso 6 gol contro l’Argentina al Monumental di Buenos Aires, scendendo a un settimo posto molto traballante che ora come ora le garantirebbe solo i playoff. E visto che una sconfitta per 6-0 contro l’Argentina per la Bolivia è nella natura delle cose, nessuno si è immaginato di tirare in ballo la conformazione del territorio, la storia, lo sviluppo economico e tutti gli altri fattori più o meno intangibili che rendono la prima una delle Nazionali più importanti nella storia di questo sport e la seconda una comparsa esotica di cui si parla solo per le sue montagne (e solo per giustificare sconfitte imbarazzanti, perché perdere per propri demeriti contro una Nazionale disgraziata come la Bolivia è evidentemente inconcepibile).
A proposito di questo, di fronte alle rimostranze della Nazionale venezuelana che aveva appena perso per 4-0, il CT boliviano Óscar Villegas a inizio settembre ha detto una cosa interessante. «Con la città di El Alto vogliamo dimostrare a tutte le persone e a tutte le autorità che si gioca dove si nasce».