
Dopo un anno di quelli da raccontare ai nipotini, con il vecchio campione che ritrova la versione migliore di sé e strappa addirittura la convocazione per il Mondiale, il Bologna scopre quanto faccia male sentirsi sedotti e abbandonati, e che l’amore nel calcio ha troppo spesso i contorni della menzogna. Roberto Baggio rompe gli indugi nelle ore in cui Marco Pantani inizia a temere che Pavel Tonkov possa rimanergli attaccato alla ruota anche se decidesse di andare in capo al mondo: mentre "il Divin Codino" annuncia la sua intenzione di uscire dal contratto che lo lega al Bologna dietro pagamento di una penale da 3,8 miliardi di lire, "il Pirata" non riesce a scrollarsi di dosso il russo sui tornanti dell’Alpe di Pampeago. Il giorno dopo, a Plan di Montecampione, a forza di guardarsi in mezzo alle gambe dopo gli attacchi infilati uno dopo l’altro, finalmente vedrà l’ombra di Tonkov allontanarsi e regalargli il primo e unico Giro d’Italia della sua carriera.
Ma questa non è la storia di Pantani e a pensarci bene non è nemmeno quella di Baggio, che sceglie di tornare a Milano, stavolta sponda Inter, dopo essersi regalato una stagione da sogno con la maglia del Bologna: va a prendere 10 miliardi di lire in due anni, il patron rossoblù Gazzoni Frascara non parla, non commenta, rimugina. Roberto invece sì, racconta, spiega, si mette a confronto proprio con Pantani: «Io quattro operazioni alle ginocchia, lui un’auto che lo falcia e un gatto nero che gli attraversa la strada. Il destino ci ha sfidati, ma abbiamo vinto noi. Ringrazio Gazzoni, il Bologna e i suoi tifosi. Ma l’Inter vuol dire Champions League e scudetto. E, soprattutto, Ronaldo. Sarà un piacere giocargli a fianco». Le cose andranno in maniera leggermente diversa.
Questa, però, è la storia dell’ultimo grande Bologna europeo, ed è una storia che comincia da quello strappo, da quella decisione di Baggio di andare a caccia della grandezza in nerazzurro. Il Bologna si convince di essere specializzato in una missione impossibile, quella di rigenerare campioni che sembrano destinati al dimenticatoio. In un giorno di inizio luglio del 1998, con i primi impegni di Intertoto alle porte, Gazzoni Frascara si siede davanti ai giornalisti e pronuncia una frase secca: «La storia va avanti».
Da Bologna non se ne è andato soltanto Baggio, ma anche Lele Oriali, il direttore generale che era arrivato nel 1994, con il club in Serie C, e se ne va adesso, con la squadra qualificata all’Intertoto: sceglie di andare a Parma. E non c’è più nemmeno Renzo Ulivieri, l’uomo delle due promozioni, reduce da una stagione in cui ha dovuto mettere a dura prova il proprio ego per fronteggiare Baggio. Al suo posto arriva Carlo Mazzone, sostanzialmente fermo da un anno con l’eccezione rappresentata da una parentesi brevissima alla guida di un Napoli disastrato, destinato a retrocedere senza combattere. E ci mette del suo per portare a Bologna un vecchio rivale dei tempi romani. La numero 10 del Bologna passa dalle spalle di Roberto Baggio a quelle di Giuseppe Signori, che deve scrollarsi di dosso la stagione della recisione del cordone ombelicale che lo legava alla Lazio, oltre ad alcuni problemi alla schiena che lo stanno divorando da mesi: «Dopo tanti derby vissuti su sponde diverse, lavoreremo assieme. Ci siamo sempre rispettati. Percorrerò la stessa strada di Baggio, vedrete». In quel momento nessuno, nemmeno il più ottimista dei cantori di Bologna, metterebbe anche soltanto 500 lire sull’epilogo di quella stagione.
Il magico mondo dell’Intertoto
Ma cosa diamine era, la Coppa Intertoto? La competizione deve il suo nome alle scommesse. Toto infatti altro non è che il termine tedesco per indicare le scommesse sportive, e per anni è stata una competizione tollerata silenziosamente dalla UEFA: una coppa per i “senza coppa”, un torneo non ufficiale andato avanti dal 1967 al 1994, con il numero di club partecipanti che fluttuava anno dopo anno. Nel 1995, la UEFA decide di prendere il controllo del torneo, rendendolo di fatto una competizione di ingresso per la Coppa UEFA. La scelta del simbolo dell’Intertoto è terrificante, ma tiene fede all’origine della coppa.

Ebbene sì, stiamo parlando di una coppa con sopra impressi “1X2”.
L’edizione che si disputa nell’estate del 1998 è anche la prima che vede al via le squadre italiane, che hanno diritto a due posti. La formula è bizzarra, ma dopo aver visto il design del trofeo qualsiasi cosa sembra acquisire senso logico. Si procede a suon di partite a eliminazione diretta, i posti in palio per entrare nella Coppa UEFA 1998/99 sono tre e dunque, quando si arriva alle semifinali, le squadre in corsa sono ancora dodici. Si giocheranno, quindi, tre finali distinte.
La prima italiana a entrare in gioco è la Sampdoria, in occasione del secondo turno, a supera a fatica il Rimavska Sobota. Il Bologna appare nel tabellone a metà luglio, dall’altra parte c’è il National Bucarest. I rossoblù vincono 2-0 al Dall’Ara in una partita che vive dei gol di Paramatti e Ingesson e di uno stop di 4’ per problemi all’impianto di illuminazione dello stadio, e sentono di avere la qualificazione in tasca. Lo credono a maggior ragione dopo il rigore trasformato da Kolyvanov al quarto d’ora del match di ritorno, salvo poi scoprirsi fragilissimi: Pigulea e Parlog ribaltano il risultato, Marocchi si fa espellere, al 27’ della ripresa arriva il 3-1 con una deviazione di schiena di Mangone. Dopo venti minuti in apnea, però, il Bologna passa per via del gol segnato in trasferta.
La semifinale è il derby italiano con la Sampdoria: i rossoblù vincono 3-1 (Andersson-Paramatti-Kolyvanov, inutile il momentaneo pari di Palmieri) e anche stavolta ipotecano in casa il passaggio del turno. Ma Andersson si fa male e a Genova la Samp di Luciano Spalletti spinge più che può. La fortuna del Bologna è che Vincenzo Montella vive una notte disgraziata: l’1-0 firmato ancora una volta da Palmieri vale il passaggio del turno per i ragazzi di Mazzone. La finale che tocca in sorte a Paramatti e compagni è morbida, c’è il Ruch Chorzow (per i più curiosi, le altre due finali sono Salisburgo-Valencia e Werder Brema-Vojvodina).
Per vedere Signori dall’inizio è ancora presto - «Beppe è un grande attaccante, un personaggio che si allena in umiltà, gli ho detto di fare come Baggio. È avanti rispetto a quello che pensavamo, sarà pronto per il campionato», dice Mazzone – ma almeno recupera Andersson. L’andata con i polacchi lascia in sorte un bottino magro, un 1-0 maturato su autogol, e regala il primo spezzone di Signori, un quarto d’ora per riprendere confidenza con il campo. Nel match di ritorno, senza Andersson, Mazzone vede i suoi archiviare il discorso con un gol di Kolyvanov e la prima firma rossoblù di Signori, ancora in campo per un quarto d’ora e a segno in pieno recupero. Il Bologna, con un filo di gas, si qualifica per la Coppa UEFA.
Otto minuti di highlights di Ruch Chorzow-Bologna in una qualità video sorprendente: e c’è ancora chi si lamenta di Internet.
Il cammino in Coppa UEFA
L’inizio di campionato del Bologna è sciagurato: tre sberle prese in casa del Milan, altre tre al Dall’Ara con l’Udinese, quindi tre 0-0 in fila (Bari, Parma ed Empoli). La Coppa UEFA è dunque il rifugio dei ragazzi di Mazzone nel momento più difficile dell’anno. Il destino si diverte a far ripartire il Bologna da dove aveva finito sette anni prima, la stagione dell’ultima escursione europea, culminata poi con una bruciante retrocessione in Serie B. Era il 1991, Gigi Radice in panchina arrivato dopo un avvio tremebondo agli ordini di Franco Scoglio (cinque KO nelle prime sei giornate). In maniera sorprendente, quel Bologna si era arrampicato fino ai quarti di finale di Coppa UEFA, ribaltando sistematicamente al Dall’Ara i disastri fatti lontano da casa: il 3-1 con gli Hearts rovesciato in casa con un 3-0 firmato Detari-Villa-Mariani, il 3-0 subito in Austria con l’Admira Wacker restituito con gli interessi a Bologna (Waas-Cabrini-Negro) grazie ai calci di rigore. Con lo Sporting, dopo l’1-1 dell’andata in casa, Turkyilmaz e compagni si erano arresi a Lisbona nel match di ritorno.
Ed è dallo Sporting, dalla trasferta in Portogallo, che si riparte, con una formazione decimata. Fuori Boselli, Andersson, Fontolan e Paramatti, oltre ai tre nuovi acquisti (Bia, Binotto e Simutenkov) rimasti fuori dalla lista UEFA e a Magoni che rimedia una distorsione al ginocchio nell’ultima rifinitura prepartita. Mazzone piazza Nervo e Signori ai fianchi di Kolyvanov e ne esce da signore, vincendo grazie alle reti di Nervo e di un apparentemente giovane brasiliano arrivato in estate, veloce come il vento anche se ancora da sgrezzare tecnicamente. Sfrutta le voragini concesse dalla difesa portoghese nel finale, con lo Sporting proiettato in avanti nonostante l’espulsione di Vidigal (sì, quel Vidigal) per una gomitata rifilata a Signori, e a tu per tu con Tiago non sbaglia. Si chiama Eriberto, o almeno così dice il suo documento, e questo è tutto quello che abbiamo da dire al momento.
Il vantaggio pare rassicurante in vista del ritorno ma Mazzone si ritrova a dover fare la conta dei superstiti per la sfida del Dall’Ara, con l’elenco degli indisponibili che sale a quota 12 e si ingrossa ulteriormente con il forfait di Fontolan a ridosso del match e quelli di Kolyvanov e Paganin a partita in corso. Al 27’ del primo tempo Mazzone ha già dovuto fare due cambi (dentro Eriberto e il baby Gallicchio) e si ritrova sotto di un gol, con Ingesson reinventato difensore centrale per gestire l’emergenza. Ci pensano ancora Nervo e Signori, uno che negli anni laziali aveva segnato caterve di gol in Serie A salvo incepparsi sistematicamente in Coppa UEFA, con la miseria di tre reti in 19 presenze. Anche stavolta, ad aiutare il Bologna è un’espulsione provvidenziale, quella di Simao, per un’entrata folle su Eriberto, con il brasiliano poi protagonista in occasione dell’1-1 di Nervo.
Il sorteggio di Ginevra, secondo i giornali, sorride ai rossoblù, che pescano lo Slavia Praga, se non fosse che il solo abbinamento di quelle due parole manda ancora in ebollizione Mazzone al ricordo dell’eliminazione patita qualche anno prima alla guida della Roma. E proprio in occasione del sorteggio, la UEFA svela al mondo il progetto di riforma della Champions League e l’intenzione di unire Coppa UEFA e Coppa delle Coppe, in quello che viene definito «il piano anti-Superlega», il progetto di competizione annunciato da una realtà di nome Media Partners, una maxi competizione a numero chiuso che sicuramente vi ricorderà qualcosa.
E mentre a Cracovia Dino Baggio deve lasciare il campo colpito da un coltello lanciato dagli spalti, a Bologna è un’incornata di Klas Ingesson a scacciare gli incubi di Mazzone: a Praga si prospetta comunque un ritorno complicato dopo il 2-1 del Dall’Ara (a segno anche con Signori, sempre più centrale, in avvio di partita), ma andare in Repubblica Ceca dopo un pareggio avrebbe avuto ben altro sapore anche perché, in quel momento, il Bologna deve ancora vincere una partita di campionato. Lo farà quattro giorni più tardi, battendo 3-1 il Piacenza.
A Praga, con una prestazione accorta e una squadra ormai più consapevole dei propri mezzi anche grazie al passaggio al modulo a due punte dopo un inizio di stagione improntato sul tridente, il Bologna gestisce nel primo tempo e affonda i colpi nella ripresa, con i gol dei nuovi entrati Signori e Cappioli. In vista degli ottavi il grande timore è quello dei derby italiani, visto che in corsa ci sono ancora Parma e Roma, ma l’urna è dolcissima: non solo non c’è lo scontro fratricida, ma le tre italiane evitano anche le rivali più pericolose (Liverpool, Atletico Madrid e Marsiglia). Al Bologna tocca in sorte il Betis, che nel corso dell’estate ha preso le prime pagine dei giornali di tutto il mondo portando a Siviglia Denilson, inseguito per mesi dalla Lazio di Cragnotti e poi approdato in Andalusia nello stupore generale, dietro versamento di circa 63 miliardi di lire, diventando, in quel momento, il giocatore più costoso di sempre. Nonostante tutto, il Betis è una polveriera: è già saltato l’allenatore Aragones ed è arrivato Javier Clemente, ex commissario tecnico della Spagna e, soprattutto, ex architetto dell’Athletic Bilbao di metà anni Ottanta, capace di vincere per due volte la Liga.
Al Dall’Ara, Clemente sposta Denilson seconda punta e lo getta tra le fauci dei centrali del Bologna. Il 4-4-2 di Mazzone profuma di anni Novanta, due ali che vanno sul fondo col piede forte (Eriberto e Fontolan), la prima punta grossa (Andersson) e la seconda più tecnica (Kolyvanov, che parte titolare con Signori in panchina in un turnover ragionato). Va in scena una grande serata di calcio: Fontolan, Kolyvanov ed Eriberto portano i rossoblù sul 3-0, Benjamin accorcia, ancora Fontolan chiude i conti. Arrivato al Bologna dall’Inter a trent’anni dopo alcuni dissapori con Roy Hodgson, l’ex interista è ancora un giocatore capace di coprire con pericolosità la fascia sinistra, diventando una sorta di terzo attaccante ma senza togliere equilibrio alla corsia. Il suo primo gol di serata è un diagonale da fuori area che accarezza il palo prima di entrare, il secondo un destro sporco che sorprende Prats. In mezzo, un gol da bomber di razza di Kolyvanov – con un controllo in area abbastanza sospetto – e l’ormai abituale incursione di Eriberto, che spara sotto la traversa il pallone del momentaneo 3-0.
La partita di andata contro il Betis in versione integrale.
Mazzone diventa l’uomo del momento. Nessuno aveva immaginato che potesse rischiare la panchina a inizio stagione, ma le voci su un allenatore dal calcio superato, dallo stile ai limiti dell’impresentabile, si erano accumulate con fare fastidioso. Chiedeva tempo, in quelle settimane. Poneva l’attenzione su una preparazione anomala – l’Intertoto era iniziato a metà luglio – e su un’infermeria piena oltre ogni logica. Poi, all’improvviso, il Bologna ha iniziato a marciare, mettendo in fila 15 partite senza sconfitte. In un’intervista fiume rilasciata a Marco Ansaldo, sulle pagine della Stampa, elogia Signori («Dubitavo che sarebbe stato così umile da lavorare tanto, l’aria di Roma vizia: il lunedì invece è in campo per allenarsi anche se è il giorno di riposo») e rivendica la bontà del suo lavoro: «Per qualcuno un sessantenne dovrebbe farsi da parte, invece nel nostro mestiere la prima qualità è l’esperienza. Negli anni Settanta, quando portai l’Ascoli dalla C alla A, mi consideravano il Messia e un pochino ci credevo pure io. Solo adesso mi rendo conto dei casini che combinavo nello spogliatoio, con i dirigenti, con la stampa. Da rabbrividire».
Una manciata di giorni dopo prende a sberle pure la Juventus in campionato, 3-0 in meno di mezz’ora, Paramatti-Signori-Fontolan. Paramatti col pizzetto da pirata e i capelli lunghi, terzino operaio raccattato da Oriali nel 1995 quando si allenava con l’Equipe Romagna, la formazione improvvisata dei senza contratto, e che grazie al periodo bolognese arriverà proprio alla Juventus. Ogni piazzato di Signori è un invito per la testa di un compagno e un attentato alla porta di Peruzzi, il Bologna del primo tempo potrebbe esondare.
Nel ritorno contro il Betis arriva una sconfitta indolore (1-0) e il pass per i quarti di finale è in tasca. A questo punto, in gara sono rimaste soltanto italiane, spagnole e francesi. Il Bologna pesca il Lione, teorico vaso di coccio. Il Parma trova il Bordeaux, la Roma l’Atletico Madrid, chiude il quadro Olympique Marsiglia-Celta Vigo. La legge dei sorteggi di fine dicembre è però quella di mettere tutto in un congelatore per poi rivedersi a marzo, nella speranza che nulla sia cambiato. Un’utopia.
Da Lione a Marsiglia
Gli equilibri, a inizio marzo, sono pesantemente cambiati. Il Bologna ha perso parte della sua certezza, ha appena preso cinque gol dal Piacenza nel quale brilla la stella di un giovane attaccante dal cognome altisonante: Simone Inzaghi, autore di una tripletta. Il Lione, che al momento del sorteggio zoppicava in Ligue 1, si è di colpo ritrovato. Mazzone recupera Nervo soltanto per la panchina, Eriberto è out, la buona notizia è che sulle fasce ci sono comunque Binotto e Fontolan.
È il 2 marzo 1999, si gioca di martedì pomeriggio (il giovedì non è ancora il giorno delle gare UEFA), c’è Beppe Signori che dopo una manciata di minuti arpiona col mancino un cross da destra di Binotto. Lo gira in modo strano, da sinistra, verso il palo più lontano, un movimento in mezza acrobazia: capisce mentre è in aria che Coupet sta difendendo il suo palo e allora va a cercare l’altro, trovandolo con una traiettoria strettissima. Nella ripresa arriva un classico momento Signori, il pallone che si avvicina al suo piede sinistro e un attimo dopo è in fondo alla rete, scagliato via con un diagonale che non ammette repliche. Il tris lo firma Binotto, sembra fatta. Il ritorno si gioca pochi giorni dopo aver perso malamente a Roma (panchina numero mille in carriera per Mazzone, occasione che gli consente di ricordare come tutto era iniziato: «Allenavo i ragazzini dell’Ascoli, Rozzi mi fece sostituire l’allenatore appena esonerato. Poi un giorno mi disse: “Ogni anno chiamo un scienziato e lo caccio a metà stagione perché non combina niente. Stavolta cominci tu”. Gli devo quasi tutto») e il Bologna è ai minimi termini: Alenichev ha azzoppato Fontolan, Antonioli e Mangone partono con la squadra senza essere al meglio, così come Eriberto e Tarantino, preoccupa pure Kennet Andersson. Lo svedese, così come Antonioli e Mangone, alla fine va in campo. Ma proprio Mangone al 25’ alza bandiera bianca. Dopo 40 minuti, il Bologna ha già sprecato un cambio ed è sotto di due gol.
Mazzone vede i fantasmi di un tracollo senza precedenti e decide di esaurire le sostituzioni dopo l’intervallo: fuori Binotto e Nervo, dentro Cappioli e un difensore come Boselli, per passare a un abbottonatissimo 5-3-2, lasciando Andersson e Signori a battagliare in solitudine, mentre Dhorasoo e Malbranque dominano a centrocampo. Il Bologna non vede palla, è un’agonia, il palo salva Antonioli su Carteron, che più avanti chiede invano un calcio di rigore. Il primo segnale positivo arriva solo a cinque minuti dalla fine ed è l’espulsione di Laville. Mazzone tira un sospiro di sollievo, Signori colpisce una traversa, poi arriva il fischio finale. «Siamo duri a morire, veniamo dal niente», dice, stremato, l'allenatore romano.
Si teme ancora una volta il derby italiano, perché nell’urna sono rimaste Olympique Marsiglia, Atletico Madrid e Parma. Il Bologna pesca l’OM e Carletto è contento a metà: «Sarebbe stato meglio l’Atletico, sarebbe stato peggio il Parma. Va bene il Marsiglia. Noi siamo la cenerentola, vediamo di trovare la scarpetta». A Marsiglia, allora come oggi, c’è Fabrizio Ravanelli, che in quegli anni sogna così tanto di ritrovare la maglia della Nazionale da finire, proprio con la tuta azzurra, in una parodia di Gioele Dix per Mai Dire Gol.
Quella brutta storia della persecuzione contro i brizzolati.
«Il Bologna è difficile da interpretare ma possiamo batterlo, per me è un’occasione in più per mettermi in mostra. Nessuna polemica con Zoff, anche se mi è dispiaciuto non essere stato convocato. Noi italiani che giochiamo all’estero abbiamo più difficoltà a essere chiamati, ma se dovessi centrare l’accoppiata UEFA-campionato potrei rientrare nel giro», dice prima della partita del Velodrome. L’OM è primo in Ligue 1, oltre a Ravanelli c’è una vecchia conoscenza del nostro calcio come Dugarry ed è definitivamente sbocciato Robert Pires, che ha fatto meraviglie al Metz e a breve si prenderà il palcoscenico in Premier con l’Arsenal. E poi, al centro della difesa, Laurent Blanc, uno dei protagonisti del Mondiale vinto qualche mese prima. È il miglior Marsiglia dai tempi del crollo di Bernard Tapie e dello scandalo VA-OM.
Al Velodrome non mancano gli scontri tra tifosi, prima e dopo il match. Il Bologna tiene benissimo il campo, ha grandi occasioni che non concretizza con Fontolan (poi costretto a uscire per una dura entrata di Gallas) e Signori. Trema anche in un paio di occasioni, ma Antonioli non si fa sorprendere. Lo 0-0 tiene tutto in bilico in vista del ritorno, con l’OM che però sa di avere a disposizione praticamente due risultato su tre: la vittoria e i pareggi con gol, lusso non da poco per una formazione che non ha ancora perso una partita in UEFA. Mai il Bologna si era spinto così in avanti nella sua storia europea, con l’unica eccezione della semifinale in Coppa delle Fiere, nel 1968, agli ordini di Gipo Viani.
Mazzone prepara il ritorno sognando l’impresa che varrebbe una carriera intera, anche se tira una brutta aria: Gazzoni non intende rinnovargli il contratto in scadenza. «A Marsiglia ci hanno sottovalutato, stavolta saranno più determinati», spiega alla vigilia. Maxischermo in piazza Maggiore, forze dell’ordine allertate per evitare possibili incidenti. Nessuno può immaginare che Bologna-Olympique Marsiglia rimarrà, a suo modo, nella pluridecennale storia della Coppa UEFA.
In città si respira un clima da fine del mondo anche perché a Monaco, nel frattempo, scendono sul parquet la Virtus e la Fortitudo, in una semifinale di Eurolega agonica: 62-57 per la Kinder, Sasha Danilovic che fa il giro di campo sventolando la bandiera serba nel bel mezzo del conflitto tra Jugoslavia e Kosovo. In finale, però, le Vu nere si arrenderanno allo Zalgiris di Stombergas e di un folletto arrivato in Europa proprio in quella stagione e destinato a rimanere a lungo dalle nostre parti, Tyus Edney.
Il Bologna è il solito Bologna, Binotto e Fontolan in fascia, Andersson-Signori davanti. Sembra la favola perfetta quando Paramatti addomestica un pallone sul secondo palo e batte Porato, correndo come un pazzo per esultare. Nel secondo tempo i rossoblù perdono aggressività, tendono a rintanarsi per andare a caccia di ripartenze che non trovano. Signori ha la chance per il 2-0, Porato dice no. Antonioli nega il pareggio a Pires e Gallas, quindi Maurice parte sul filo del fuorigioco e viene atterrato proprio da Antonioli. Almeno, così sembra. I replay dal basso sono impietosi, il francese crolla a terra come colpito da una raffica di proiettili ben prima di incrociare le braccia protese del portiere. Quando il rigore viene fischiato mancano cinque minuti alla fine, Maurice rimane a terra agonizzante, sul dischetto si presenta Blanc, che spiazza Antonioli e inizia a esultare mentre l’arbitro impone la ripetizione.
Adesso di minuti ne mancano due e mezzo. Blanc non fa una piega, cambia angolo, spiazza ancora una volta il portiere. Il Bologna perde la qualificazione e la testa. Marocchi viene espulso, al triplice fischio succede un putiferio. Una mega-rissa che coinvolge giocatori, dirigenti, persino fotografi. Le botte si susseguono dal campo al sottopassaggio. A infiammare gli animi, secondo la versione di Paramatti, Stephane Courbis, il figlio dell’allenatore del Marsiglia, al seguito del club come dirigente addetto alla sicurezza. Sarebbe stato lui a centrare Giampiero Maini con un pugno sull’occhio, almeno secondo quanto dice il Bologna. I francesi ribattono dicendo che sarebbe intervenuto per difendere Peter Luccin, aggredito da Mangone e Paramatti dopo aver preso in giro i calciatori del Bologna. Volano calci, pugni, capocciate. Luccin parla di razzismo. Mazzone, che per due giorni dribbla le polemiche, alla fine si scaglia contro Dugarry: «È un vigliacco, in campo e fuori: mette la gamba per colpire l’avversario e quando salta di testa sgomita. Fuori dal campo picchia a tradimento». L’ex Milan prenderà cinque giornate di squalifica (come Mangone), quattro a Marocchi e Jambay, tre a Maini. L’OM arriverà alla finale avendo sul groppone anche le squalifiche di Ravanelli, Luccin e Gallas e prenderà tre gol dal Parma.
La stagione del Bologna finirà in un mare di polemiche per il mancato rinnovo di Mazzone, con il pubblico allineato con il tecnico, le dimissioni (annunciate e ritirate) del patron Gazzoni Frascara, persino le prese di posizione pubbliche di alcuni giocatori come Cappioli («Cacciare Mazzone è una pazzia») e le stilettate di Carletto al presidente: «Dice che l’ho chiamato solo tre volte in un anno? Io non alleno i presidenti. Se avessi fatto qualche telefonata in più, forse, avrei fatto un’altra carriera».
Un’annata infinita, chiusa con un’ulteriore appendice: lo spareggio UEFA vinto contro l’Inter, Baggio e gli altri che osservano Signori e Bettarini chiudere la pratica al Dall’Ara dopo il successo di San Siro firmato da Andersson e Paramatti. In sala stampa, davanti a giornalisti affamati, Mazzone si presenterà con gli occhi lucidi: «Ora me ne vado, non rimarrei nemmeno davanti a un contratto miliardario. Sono stato umiliato e mortificato, mai successo in 30 anni di carriera, Gazzoni mi dava appuntamenti ai quali non si presentava. L’affetto della gente non lo dimenticherò mai, ora però non vedo l’ora di salire in macchina e andarmene. Mi tolgo un peso enorme, Gazzoni è un uomo senz’anima».
Tornerà a Bologna quattro anni più tardi, con Gazzoni ancora patron ma non più presidente. Finirà ancora peggio, ma questa è un’altra storia.