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Marco D'Ottavi

Lunga vita ai Boston Celtics

Una lunga rincorsa coronata da un bellissimo titolo.

A 12 secondi dalla fine del secondo quarto, dopo un passo laterale verso sinistra, Jason Tatum segna la tripla del +20 in faccia a Luka Doncic. Lo sloveno si fa dare rapidamente il pallone, approfitta di un blocco altissimo di Dereck Lively e punta Tatum. Lo batte dal palleggio, subisce il fallo e riesce anche a segnare con un floterino dal centro dell’area. -18 e il libero per andare a -17 con 4 secondi sul cronometro. Non è tanto, ma quando non hai altro, si dice, è importante finire bene i quarti. Doncic però sbaglia il libero supplementare, Al Horford prende il rimbalzo e apre per Payton Pritchard, che era appena entrato dopo essere stato rimosso dalla rotazione nel primo tempo. Pritchard ha giusto il tempo di avvicinare la linea di metà campo prima di lasciar andare la sua meteora sulla sirena: solo rete, +21. 

 

Se c’era il minimo dubbio, è su questo tiro che i Boston Celtics hanno vinto il loro 18° titolo, superando gli acerrimi nemici, i Los Angeles Lakers, fermi a 17.

 

 

La forza del collettivo

Quello di Pritchard è un canestro più che altro simbolico, in una partita che Boston avrebbe forse vinto anche giocando bendata, ma è indicativo di come – per tutta la stagione –  il loro collettivo è stato semplicemente troppo superiore agli avversari. I Celtics avevano costruito il loro vantaggio fin lì con lo stesso asfissiante basket con cui hanno vinto 80 partite tra stagione regolare e playoff, a fronte di sole 21 sconfitte. Quando non si lasciano distrarre dalla loro stessa superiorità non ce n’è per nessuno, neanche per Doncic e Irving, che avranno avuto i loro problemi ma mai come nelle partite al TD Garden sono sembrati tornare sulla terra rispetto al resto dei playoff.

 

Quante altre volte avete visto una squadra dove almeno in cinque o sei possono essere, per partite intere, il miglior difensore o il miglior attaccante? Chiunque sia sceso in campo per Boston è stato in grado di tenere il proprio avversario in difesa, di non andare troppo sotto nei cambi difensivi e poi di mettere tiri importanti quando contava, all’interno di una serie dove – generalmente – non si è tirato benissimo (e dove, per via di gara-4, anche i numeri totali sono un po’ falsati e non raccontano la netta superiorità dei Celtics).

 

Quando una squadra domina così, c’è il rischio di confondere la forza con la fortuna o la pochezza degli avversari. Ma basta guardare gara-4 e poi gara-5 per capire che non basta avere il miglior roster per vincere un titolo. L’atteggiamento molle e pretenzioso che venerdì notte era costato la peggior sconfitta della stagione (nonché la terza più pesante nella storia delle Finals), ieri sera si è trasformato in aggressività e ambizione. Boston è partita fortissima in difesa, rendendo la vita un inferno a Doncic e lottando su ogni pallone (51 rimbalzi a 35 alla fine, con tanto di Derrick White che ci lascia un dente per smanacciare un pallone vagante).


In attacco poi erano tutti sulla stessa lunghezza d’onda: i primi 6 punti sono stati di Jrue Holiday, poi c’è stata una tripla di Al Horford, due liberi di White, un canestro al ferro di Jaylen Brown, altri liberi del rientrante Kristaps Porzingis. Tra primo e secondo quarto sono arrivate anche due triple di Sam Hauser, una schiacciata di Brown che ha fatto tremare il palazzo. Dopo neanche 15 minuti Tatum aveva messo a referto 7 assist; quando poi si è trattato di portare il vantaggio da 10 a 20 punti, si è messo in proprio con un secondo quarto da 12 punti e 4/4 dal campo. Avrà anche tirato male in questi playoff, ma quando mette palla per terra Tatum ha qualcosa di ipnotico e meraviglioso. Dall’altra parte ogni canestro di Dallas sembrava un’impresa titanica. 

 



Raccontare il secondo tempo sarebbe anche superfluo, 24 minuti che sono stati una lunga attesa per il 18° titolo. Se Boston ha una strana passione per le rimonte (subite), ieri non avrebbero concesso un punto in più per nulla al mondo, neanche quando Dallas ha tolto i titolari: festeggiare al TD Garden era troppo importante. Dopo aver perso un titolo in casa contro Golden State e una tragica gara-7 contro Miami negli ultimi due anni, i tifosi di Boston sono tornati a vedere i loro beniamini alzare il Larry O’Brien Trophy esattamente a 16 anni di distanza dall’ultima volta, quando a vincere erano stati Garnett, Pierce e Allen. Per quanto i Celtics siano tornati a essere la franchigia più vincente della storia, si tratta solamente del secondo titolo negli ultimi 38 anni.


Dinastia?

C’è una certa discontinuità tra l’inevitabilità di questo titolo per Boston e tutto quello che è successo lungo il percorso che li ha portati alla vittoria e che, per assurdo, parte proprio da quella vittoria nel 2008 (o meglio dal successivo scambio con Brooklyn, che si è trasformato nelle chiamate al Draft di Tatum e Brown). Una differenza di giudizi che proprio Tatum ci ha tenuto a sottolineare a margine della festa: «Questi 7 anni sono stati una montagna russa, pieni di alti e bassi. Ho dovuto ascoltare tutta la m***a che hanno detto su di me, e stanotte ne è valsa la pena». È stato lui, più di tutti, a esprimere il fastidio per le critiche ricevute, che però sono il contrappasso di giocare per una franchigia storica e di farlo da costante e credibile contender che però non riesce a fare l’ultimo passo.


Per anni non avere una chiara gerarchia era stato considerato il punto debole di Boston. Quando perdevano finali di Conference o finali NBA partiva sempre il tormentone: per vincere avrebbero dovuto scambiare uno tra Tatum e Brown e costruire intorno al prescelto una squadra a sua immagine e somiglianza. Una visione che da ieri sera può definitivamente essere chiusa in soffitta. Brown e Tatum hanno vinto insieme e, insieme a loro, hanno vinto da protagonisti Holiday, White, Horford, Porzingis. Hanno vinto come una delle squadre più dominanti nella storia della NBA.

 

  

Il premio di MVP delle finali è indicativo della forza di Boston: l’ha vinto Brown – 20.8 punti,  5.4 rimbalzi, 5 assist di media – e soprattutto una difesa solidissima su Doncic, ma avrebbe potuto tranquillamente vincerlo Tatum – 22.2 punti,  7.8 rimbalzi e 7.2 assist di media – perfetto nel capire come dividere la sua leadership con i compagni. Tuttavia non sarebbe stato assurdo vederlo alzare a Holiday, che in difesa sembrava avere 4 braccia e che in gara-2 ha anche vinto la partita in attacco, o magari a Porzingis, che nei momenti della serie in cui è stato sano è stato il migliore in campo per Boston (+11 di plus/minus, più di tutti per distacco). 


Rimangono fuori Horford e White, e sarebbe esagerato dire che anche loro avrebbero meritato di essere l’MVP delle finali, eppure anche il loro contributo è stato decisivo e non nella forma retorica che spesso viene accordata ai comprimari. Sono anche il lato romantico di questa vittoria: Horford che vince un titolo dopo 17 anni nella lega e 186 partite di playoff (solo Karl Malone ne ha di più senza aver mai vinto l’anello), e lo fa giocando 30 minuti di media in finale a 38 anni; White che si dimostra essere uno dei giocatori più sottovalutati della lega, dando un contributo semplicemente eccezionale lungo tutta la stagione, con il picco della serie contro Miami. 


Ma questa è – banalmente – anche la vittoria di Joe Mazzulla, che si è ritrovato sulla panchina di Boston quasi per caso in un momento critico e che, superando qualche difficoltà, è riuscito a imprimere il suo stile di gioco alla squadra e a portarli alla vittoria. Oggi Mazzulla ci sembra un genio di questo sport, e davvero sembra esserlo (anche ai limiti dell’autistico), eppure più che la sua capacità di allenare le X&O è stata anche la bravura, a 35 anni e senza esperienze precedenti da capo allenatore NBA, nel farsi seguire da una squadra di giocatori magari senza titoli ma tutti affermati nei loro ruoli.  

 

Se volte saperne di più sul “Mazzulla ball” (lo so, nome rivedibile) 

 

Se ogni vittoria ha tanti padri, l’ultimo da citare è indubbiamente Brad Stevens. Prima dalla panchina ha formato il nucleo di questa squadra, poi dalla scrivania ci ha aggiunto i pezzi mancanti. Costruire un roster NBA è un incubo, un puzzle dove i pezzi non ne vogliono sapere di incastrarsi, oppure quelli che vorresti sono irraggiungibili o troppo costosi. Lui è riuscito a lavorare con gli scambi meglio di chiunque altro probabilmente nella storia. Oggi la scelta di prendere Holiday e Porzingis rinunciando a Smart, Brogdon e Robert Williams ci sembra genialmente scontata, ma era indubbiamente un rischio. Se non avesse funzionato, avrebbe potuto rappresentare la sua fine.  

 

Ora invece a Boston si respira aria di dinastia. L’anno prossimo torneranno quasi sicuramente con la stessa squadra, l’unico punto interrogativo può essere Horford, che magari dopo aver vinto il titolo vorrà mollare qualcosa. Chi può mettergli i bastoni tra le ruote? A Est è difficile immaginarlo: forse Embiid sano? Lillard e Giannis che trovano una quadra? New York e Indiana che fanno un altro passo in avanti? A Ovest si scanneranno per trovare una sfidante. I Celtics hanno dovuto aspettare tanto, forse più di quello che pensavano, ma ora davanti a loro hanno un meraviglioso futuro. Devono solo andare a prenderselo. 

 

 

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Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.