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La vittoria degli eterni secondi
03 dic 2024
Come il Botafogo è riuscito a vincere la Libertadores per la prima volta nella sua storia.
(articolo)
10 min
(copertina)
IMAGO / NurPhoto
(copertina) IMAGO / NurPhoto
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Alejandro Domínguez, che trasporta la mastodontica e un po’ traballante Copa Libertadortes con aria tronfia, viene prima scortato e poi praticamente aggredito. Le luci del Monumental di Buenos Aires si sono già accese, sullo sfondo c’è il crepuscolo porteño con la sua la sfumatura di ghisa dalle venature azzurrognole.

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I calciatori del Botafogo si catapultano sul presidente della CONMEBOL, sembrano avere l’urgenza di alzare al cielo quel monumento di metallo e legno: sollevano la Libertadores lontani dal baricentro coreografico perfetto disegnato dall’arco destinato ai campioni.

Quella che il Botafogo ha conquistato sabato scorso è la prima Copa Libertadores della sua storia, lunga 137 anni. Quanti sono centotrentasette anni in secondi? Più di 43 miliardi: una cifra spropositata, troppi per chi ha visto i propri colori sulle gambe storte di Mané Garrincha e la stella bianca rilucere sul petto possente di Didì, per chi sconfitta dopo sconfitta, successo sfumato all’ultimo dopo successo sfumato all’ultimo, si è guadagnato il soprannome di "o mais pipoqueiro do Brasil", i più pechofríos del Brasile. La versione carioca del Neverkusen, se ce n’è una.

"C’è tempo in un minuto", scriveva Ezra Pound, "per decisioni e revisioni che un minuto stesso saprà capovolgere". I tifosi, i calciatori, gli allenatori del Fogão hanno avuto il merito di non aver fatto mai spegnere quella fiammella: hanno continuato ad accarezzare, scacciando l’alone del pessimismo cosmico, del mainagioismo, quella cosa piumata che è La Speranza. E alla fine sono stati ripagati.

LA STRADA DEL BOTAFOGO

Il calcio d’inizio dovrebbe far sciogliere l’emozione: in questo caso c’è ancora qualche filo di brina sul pallone che è passato solo per una manciata di piedi, ha disegnato qualche piccola virgola ed è finito a danzare nei pressi del cerchio di centrocampo. Nella sfida per contenderselo, il centrocampista dell'Atlético Mineiro, Fausto Vera, ci mette la testa. Il suo diretto avversario del Botafogo, invece, la perde, alzando il piede oltre il consentito. All’altezza della tempia di Vera ora c’è un rivolo di sangue, ed ha il colore del cartellino che l’arbitro sta sventolando verso Gregore.

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Il mercoledì precedente alla finale, il Botafogo ha sfidato il Palmeiras a San Paolo. Una sfida al vertice in cui, letteralmente, le due squadre appaiate in vetta alla classifica del Brasileirão si giocavano il tutto per tutto, una sorta di finale anticipata, a due giornate dal termine. Poco prima che scoccasse il ventesimo, il Botafogo è passato in vantaggio con un gol di Gregore (la partita sarebbe finita per 3-1).

Soprannominato "Pitbull", Gregore è uno degli uomini chiave nei successi del "Fogão", come viene chiamato il Botafogo: il suo apporto è lievitato fino a farsi imprescindibile per l’allenatore Artur Jorge. E dire che al Botafogo è arrivato solo a febbraio scorso, dopo una carriera piuttosto minore, lontana dai radar, che l’ha portato ad esplodere nell’Esporte Clube de Bahia prima di scegliere un trasferimento a Miami before it was cool. In MLS si è presto distinto come uno dei centrocampisti più leali e aggressivi, esattamente come un pitbull, fino a diventare capitano dei Miami International. I compagni lo descrivono come un tipo «concentrato, intenso e chiacchierone»: sarebbe stato bello vedere i fenicotteri della Florida crescergli intorno, dividere il campo con Busquets, Jordi Alba, Messi e Suárez se non fosse che alla terza di campionato, un campionato iniziato con la fascia da capitano al braccio e un assist nella vittoria per 2-0 contro Montreal, a New York in uno scontro di gioco si sia rotto un piede. Quando è uscito dal campo, in barella, in campo c’erano Yedlin e Leo Campana, in panchina Phil Neville. Quando è tornato a giocare, dopo l’infortunio, in panchina c’era il "Tata" Martino e il capitano era Lionel Messi.

Tornare in Brasile, però, per giocare nell’ambizioso Botafogo, non gli è mai parso un ridimensionamento. Al quarantesimo secondo della prima finale continentale della sua storia, Gregore è l’esatta personificazione della maledizione che i tifosi del Botafogo si sentono appiccicata addosso da sempre: se c’è qualcosa che potrà girare storta nel momento più apicale, beh, stai pur certo che lo farà.

Durante l’ingresso in campo (cioè qualche minuto prima del calcio d’inizio, ovvero qualche minuto e quaranta secondi prima che venisse espulso), Gregore vede Luiz Henrique, che lo precede, allungare un braccio verso la piattaforma della Copa. Più che una carezza sembra una pacca sulla spalla.

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Le procedure di gestione della jettatura seguono una precisa codificazione, da queste parti. Per osare in maniera così sfacciata bisogna avere un’altissima considerazione di se stessi, prima che del collettivo che si rappresenta. Per qualche strano motivo, però, Luiz Henrique quella sfacciataggine sembra proprio avercela.

L’estremo destro che da ragazzino stava quasi per scegliere il judo per il calcio è stato lanciato da Diniz nella Fluminense – per un’ironia della sorte il suo esordio è stato proprio contro il Botafogo – nel 2020, ed è tornato quest’anno in Brasile dopo una stagione e mezza in Liga con la maglia del Betis per precisa volontà del proprietario del club, il magnate statunitense John Textor, che ha sborsato venti milioni di dollari per strapparlo ai biancoverdi – la cifra più alta mai pagata, ad oggi, da un club brasiliano.

Non è stato il solo investimento (al Botafogo sono arrivati anche il campione del mondo cresciuto a Fuerte Apache, Thiago Almada, e il giovanissimo attaccante Igor Jesus), ma quello con più alti dividendi. Tentacolare, esplosivo, iperatletico, sinuoso come una canna di giunco al vento, nell’uno contro uno letale come il più letale dei crotali ferro di lancia di Queimada Grande, in poco meno di nove mesi (e in sole 50 partite) Luiz Henrique ha segnato undici gol e servito cinque assist, oltre a dominare la classifica dei migliori dribblatori del Brasileirão e sfracellare, da migliore in campo, la resistenza del Peñarol in semifinale.

I secondi che la sfera ci ha messo – accarezzata dai compagni, impegnata a dribblare una busta di plastica al centro del campo, respinta da uno con la sua stessa maglia al centro dell’area – per arrivargli sul sinistro allo scoccare del 35’ devono essergli sembrati infiniti.

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La gioia per aver aperto le marcature in una finale che sembrava maledetta: pure.

SECONDO TEMPO

Al secondo minuto del secondo tempo, proprio mentre i tifosi del Botafogo sono intenti a prendersela con un giornalista che ha cambiato posto durante l’intervallo – gesto dal gettito menagramo potenzialmente incalcolabile – Hulk si appresta a battere un calcio d’angolo. Il Botafogo conduce per 2-0, perché dopo il gol di Luiz Henrique è arrivato anche il raddoppio, grazie a un rigore trasformato da Alex Telles con un tiro di rara arroganza.

Hulk getta uno sguardo di taglio ai compagni disposti in area, calcia una parabola apparentemente senza pretese e quasi all’altezza del dischetto, indisturbato, trova Edu Vargas, quell’Edu Vargas, entrato all’inizio del secondo tempo, con il suo taglio di capelli post punk e un cerotto sull’orecchio.

Tra quando ha messo piede in campo e il momento in cui la palla si è posata sulla sua fronte sono passati solo centoventi secondi. Eppure da quante stagioni Edu Vargas segna gol decisivi? Da quante semplicemente segna in Libertadores? Da quante, ancora più semplicemente, segna? Quanto fa, in secondi?

Alla vigilia della finale, in allenamento, Edu Vargas aveva avuto un bisticcio colorito con il suo compagno di squadra Deyverson: nell’abbraccio a tre che si scambiano con Hulk, invece, c’è come un’esplosione di virilità tossica.

Nei quarantacinque minuti in cui Vargas è in campo l’Atlético Mineiro produrrà il massimo dei suoi sforzi offensivi, e al cileno capiteranno almeno due occasioni lucidissime per pareggiare, imprimere un’altra inerzia al match, e poi chissà.

Ma i cileni, per qualche ragione, quando hanno a che fare con il Brasile finiscono per fermarsi a qualche centimetro dalla gloria: prima Edu brucia il suo marcatore ma alza un pallone – non facilissimo – di poco alto sulla traversa. Poi, nella più classica delle azioni generate dal mancato rispetto, da parte dei difensori, delle dosi di panico, ansia da prestazione e paura, nel cocktail dei minuti finali di una gara che sembra stia per sfuggirti di mano, riesce a trovare uno spiraglio per involarsi verso la porta del Botafogo, ma senza trovare un finale all’altezza.

Gabi Milito, l’allenatore del Galo, in ginocchio, sembra vedere gli angeli – come in certi dipinti rinascimentali – riavvolgere il firmamento.

HAPPY ENDING

I minuti di recupero, in una finale ancora potenzialmente in equilibrio, possono essere uno stillicidio di frustrazione, o il compiaciuto presentimento della gloria.

Al novantasettesimo minuto, sul 2-1 per il Botafogo, l’attaccante del Fogão in campo da dieci minuti addomestica un lancio lungo. Anzi, è più corretto dire che controlla a distanza un lancio lungo, gli tiene gli occhi incollati addosso, e sfruttando il primo rimbalzo elude l’attenzione del suo marcatore, dirigendosi verso la bandierina del calcio d’angolo. Due avversari cercano di chiuderlo, Júnior Santos vede lo spazio assottigliarsi. La memoria del corpo inizia a bisbigliarli il dolore che farà ricevere un calcio sullo stinco. Poi, però, ha un’illuminazione.

Otto anni fa, Júnior Santos è all’interno di una chiesa. Sente una voce sussurrare che il suo futuro non è lì, ma è in giro per il mondo. Fa il muratore, in quei giorni, Júnior Santos. A volte il facchino in un supermercato. Gioca al calcio, sì, ma per divertirsi, per passare il tempo. Decide di credere alla voce. Decide di credere in se stesso. Tre anni più tardi è in Serie A, al Fortaleza. Non trova spazio, e poi la voce ha detto che il suo destino è «in giro per il mondo». Si trasferisce in Giappone, dove gioca con i Kashiwa Reysol, con gli Yokohama Marinos, con il Sanfrecce Hiroshima. È fuori dimensione. Ci resta tre anni. Ogni tanto, nelle pause della J-League, torna in Brasile in prestito. L’ultima volta: al Botafogo. Ci si capisce a vicenda. A febbraio, il trasferimento è a titolo definitivo.

Esordisce in Copa Libertadores nello stesso messe, a Cochabamba, duemilacinquecento metri sul livello del mare, e segna. Contro i boliviani dell’Aurora mette il suo nome anche e soprattutto nella gara di ritorno, per quattro volte nel 6-0 finale. Poi segna altre tre reti, tra andata e ritorno, al Bragantino (tra cui uno, bellissimo, in girata). A maggio, quando segna il gol che vale la vittoria contro l’LDU di Quito, è già a quota nove, il massimo goleador di Libertadores per distacco.

Sembra sapere cosa lo aspetta, per questo si è portato avanti con il lavoro: in estate subisce un brutto infortunio, si frattura la tibia. Rimarrà fuori per tre mesi, rientrerà in campo solo a inizio novembre, e sempre per una manciata di secondi. Verrebbe da dire che è in attesa del suo appuntamento con la gloria. Subentra nella finale a Thiago Almada (che è arrivato quando Júnior Santos era infortunato, e che a gennaio sarà già in Francia, a Lione).

Ha un’illuminazione, Júnior Santos. Con un gioco di prestigio si fa scivolare la palla tra le gambe, la tocca con il tacco destro, si lascia i difensori che lo pressano alle spalle: si smaterializza, per poi rimaterializzarsi dentro l’area. Cerca di servire un assist, ma la deviazione dell’avversario glielo proibisce. O forse è solo tutto un enorme pretesto per fargli trovare il pallone lì, pronto a essere sospinto in rete.

John Textor, da giovane, è stato uno skater freestyler. C’è chi dice che negli anni Settanta fosse più forte anche di Rodney Mullen. Ha preso il Botafogo al nadir della sua parabola, spogliato del lustro, in Serie B, con una traiettoria che a breve potrebbe diventare speculare a quella del Lione, in Francia. L’ha portato a lottare per un titolo che a dieci giornate dal termine del campionato 2023 sembrava alla portata, e che è sfumato lentamente, inesorabilmente.

Ha investito tanto, tantissimo nel Fogão. Non solo in termini economici. Ha puntato tutto su un allenatore pressoché sconosciuto, Artur Jorge. «I fantasmi erano ancora lì», ha raccontato il tecnico, ricordando il momento in cui si è caricato la croce sulle spalle. «Ma ho voluto trasmettere un messaggio: guardare avanti, mai indietro. Non ignorare quello che è successo, ma concentrarsi su quello che può succedere da ora in avanti».

Ha raccolto i brandelli degli eterni secondi, li ha rimessi insieme, ha costruito un’architettura perfetta. In cambio ha ottenuto secondi eterni.

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