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Il dramma di Bove ci ha fatto sentire una comunità
02 dic 2024
Una riflessione su come il malore di Bove ci ha fatto sentire più vicini.
(articolo)
7 min
(copertina)
Foto IMAGO / Giuseppe Maffia
(copertina) Foto IMAGO / Giuseppe Maffia
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Per mezz’ora abbiamo fissato un’immagine sempre uguale. La grammatica televisiva di una partita di calcio si arresta su un’immagine statica: un prato deserto circondato da spalti pieni di persone silenziose. Fiorentina-Inter è stata prima sospesa, poi rinviata. Edoardo Bove si è chinato per allacciarsi le scarpe e poco dopo si è accasciato a terra privo di sensi e di respiro. Le persone in campo si sono avvicinate e hanno fatto scudo intorno al corpo immobile, quelle intorno al campo hanno trattenuto il fiato; altre persone in campo hanno iniziato ad agitarsi perché ogni secondo poteva essere fatale, e altre sono corse con la barella in mano.

Quelle sugli spalti hanno riconosciuto la gravità di ciò che stava succedendo ma non potevano fare nulla se non preoccuparsi. E quando la barella ha portato il corpo di Bove sull’ambulanza, e quello ha ripreso a respirare, e i giocatori sono rientrati negli spogliatoi, ed era chiaro che la partita non sarebbe mai più ripresa, lo stadio Franchi è precipitato in un silenzio denso e preoccupato. Tutte le 22mila persone sono rimaste sedute al proprio posto, fumando sigarette, scrollando il cellulare in attesa di sapere qualcosa. Sembravano rifiutarsi di lasciare il seggiolino e andarsene a casa con quel peso sul cuore, anche se lì non c’era niente da fare.

A casa, seduti sul divano, abbiamo fatto lo stesso. Appesi a quel campo lungo televisivo, a scrollare il cellulare, in attesa una notizia qualsiasi, mescolata alla paura di una notizia qualsiasi. Se non c’erano notizie, almeno segnali rassicuranti. L’inviato a Firenze di Sky, Marco Barzaghi, dice che nell’ambulanza aveva ripreso a respirare.

La regia televisiva aveva staccato prontamente l’inquadratura dal corpo a terra, ma poi aveva inquadrato quelli intorno. E dalle espressioni sulla faccia delle persone in campo abbiamo visto riflessa la gravità della situazione. Colpani con le lacrime sulle guance e le mani sulla testa; l’arbitro sbuffa e scuote la testa, Comuzzo si stropiccia la faccia nella maglia, poi si siede a terra e Bastoni si inginocchia davanti a lui e gli mette le mani sulle spalle. Ha vent’anni. Non sembrano dirsi niente. Vediamo sbucare un occhio di Ranieri dalle braccia di Kouamé, un occhio terrorizzato. Federico Dimarco che sbraccia e litiga con l’ambulanza - che da protocollo non può entrare in campo, perché rischia di impantanarsi, ma in quel momento a tutti ci sembra un’assurdità. Per una decina di minuti la telecamera inquadra queste facce sconvolte e noi ci chiediamo cosa hanno visto, e l’angoscia ci sale. Una partita di calcio è uno spettacolo emotivo, siamo abituati a leggere lo scontro fra le due squadre anche come un teatro di cui riconosciamo i codici. Quelle espressioni, però, uscivano da quei codici. Una partita di calcio non dovrebbe mostrare emozioni così profonde, esibire gli esseri umani che si confrontano con la presenza della morte - o con la sua paura. Quando Eriksen si accasciò a terra fu persino peggio: le telecamere avevano mostrato la sua esperienza pre-morte, e per chi è stato costretto a guardarla ora è impossibile dimenticare.

Edoardo Bove ha 22 anni e nella sua giovane carriera si è già costruito la fama dell’atleta esemplare. È impossibile non ammirarlo per la sua serietà, il suo spirito combattivo, la sua generosità. È impossibile non sentirlo vicino. È il ritratto di ciò che dovrebbe essere un’atleta di alto livello: sano, atletico, forte. Pensare che possa essersi accasciato in campo, in un momento qualsiasi, dopo un gesto qualsiasi, ci raggela. Sappiamo di essere fragili, ma quando questa fragilità colpisce chi non dovrebbe non riusciamo a farcene una ragione. Non può essere tutto così arbitrario. Non può una persona che ogni settimana ci mostra lo spettacolo della forza all’improvviso rivelarci il suo contrario.

Com’era già successo con Davide Astori, scopriamo però anche di avere un sentimento di familiarità con questi esseri umani che forse va persino oltre il buon senso. Qualche giorno fa ho visto il video di un anziano tifoso che vuole scattarsi una foto con Daniele De Rossi; dopo essersi fatto aiutare, andandosene via, sembra non poter fare a meno di dirgli: “Torna presto”, come si dice a un figlio emigrato. Questo rapporto intimo che sviluppiamo con gli atleti, e specialmente con una parte di essi, è difficile da spiegare a chi non segue il calcio, ma è un sentimento puro, di cui prendiamo consapevolezza assoluta quando succedono cose del genere.

Mi sentivo un po’ stupido, a dire il vero, a essere così profondamente angosciato per Edoardo Bove. Il mio cervello ha fatto quel giro un po’ meschino che molti fanno in questi casi. Quanto era giusto essere in apprensione per la vita di un ragazzo privilegiato che non sa nemmeno chi sono, mentre la guerra e la morte e la devastazione sono praticamente diventate la tappezzeria del nostro quotidiano? Col nostro sguardo, e la nostra sensibilità, cerchiamo di normalizzare il più possibile lo spettacolo disumano che i media ci raccontano ogni giorno - e lo facciamo per proteggerci; eppure non riusciamo a non farci investire dal più gelido atterrimento di fronte alle immagini di un calciatore che di accascia a terra - che forse ha avuto una crisi cardiaca, o un ischemia, o un attacco epilettico, i più sciacalli si arrischiano in ipotesi sui social, e non possiamo fare a meno di leggerle e stare peggio.

Non ho una spiegazione per questo, se non che funzioniamo così come esseri umani. È immane, è incommensurabile, l’orrore della guerra in Palestina, e per molti di noi quest’ordine di grandezza è inconcepibile. Oppure è semplicemente un rifiuto a volerlo guardare. I drammi si susseguono giorno dopo giorno, scavando sempre più a fondo nel baratro di gravità, e la velocità dell’informazione in un modo o nell’altro ci anestetizza e ci protegge. Tra guerre e disastro climatico, la catastrofe è così grande da non avere confini, da avvolgere tutto, e ignorarla - o anche solo metterla tra parentesi - può essere il modo per sopravvivere. Bisogna pur sempre vivere. Del resto Hiroshima si è ricoperta di fiori, dopo l’esplosione nucleare.

Di fronte al dramma, unico e singolare, di Edoardo Bove non abbiamo potuto fuggire. La sua storia individuale ci riguardava pur non volendo, la partita interrotta in un’immagine statica ci intrappolava: siamo stati costretti a guardare. Siamo stati costretti al capannello di uomini attorno a un altro uomo a terra; l’ambulanza, la barella, i medici con le loro divise fosforescenti e i compagni di squadra terrorizzati e allarmati. Siamo stati costretti a elaborare delle emozioni e un sentimento intorno all'evento. E poi è inevitabilmente più immediato il dramma di Edoardo Bove, che viene dai nostri stessi posti, parla la nostra lingua, e gli è successa una cosa terribile di fronte ai nostri occhi. Lo abbiamo visto crescere, esordire con Mourinho, farsi spazio con determinazione e serietà, e fare quel gol romantico in semifinale di Europa League contro il Bayer Leverkusen.

Ieri sera però è successa una cosa che non darei per scontata. Aver visto ci ha resi in qualche modo migliori: più sensibili, più attenti, più empatici. Obbligati a confrontarci con la dimensione più liminale dell’esistenza, siamo stati costretti a essere umani. So che si può scadere facilmente nella retorica in questi casi, ma chi fa parte della comunità del calcio ieri sera deve avere percepito qualcosa di diverso. Sui social, nelle chat su whatsapp, in televisione, sui giornali. C’era un modo diverso di parlare tra noi. All’improvviso ritrovarsi in un ambiente più sano, più caloroso - di punto in bianco ritrovarsi in un mondo in cui era caduto tutto ciò che non contava veramente. La provocazione, il conflitto, il litigio - che sono il nostro linguaggio quotidiano - avevano lasciato il posto non solo alla commozione, ma anche a un desiderio di capirsi di più, senza cazzate. La manovra con la lingua andava fatta? L’ambulanza poteva entrare? Il fatto che non abbiano provato la rianimazione in campo è giusto? Sta bene?

Sono cominciati ad arrivare i messaggi di solidarietà di tutte le squadre, di tutti gli atleti, mentre su Sky Sport Fabio Caressa rassicurava: Edoardo Bove respira, ha ripreso i sensi. Abbiamo comunicato la notizia su Whatsapp a chi non aveva Sky. Caressa ha gestito la diretta in modo impeccabile. Quasi da solo in uno studio televisivo, ha filtrato le informazioni che gli arrivavano, incrociando le fonti e cercando di parlare solo delle cose sicure. Ha avvolto le informazioni del peso di cui avevano bisogno. A parte i soliti casi patologici - a cui non farei troppo caso - sono sembrati tutti più responsabili e professionali. È venuta fuori una sensibilità all’altezza della situazione.

In serata un comunicato della Fiorentina insieme all’ospedale Careggi ha escluso “danni acuti”. Siamo rimasti in ansia di fronte all’espressione “sedazione farmacologica”. Ancora adesso “sedazione farmacologica Bove” compare subito tra i suggerimenti di Google. Stamattina abbiamo scoperto che Edoardo Bove sta bene e non ha riportato danni.

È strano che per sentirci parte di una comunità, e applicarci nel rispetto reciproco, dobbiamo essere messi di fronte all’estremo, no?

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