Le immagini angoscianti di Fiorentina-Inter, quando Edoardo Bove è stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Careggi per un improvviso arresto cardiaco, ci hanno riportato agli attimi di ansia vissuti ad Euro 2020 con Christian Eriksen. E come successo con il danese, non appena è stato possibile mettere da parte la preoccupazione più urgente, ci si è concentrati sulla possibilità che il calciatore tornasse in campo: cioè quando e dove. Rispondere a queste questioni, però, non è mai semplice, soprattutto per chi non ha conoscenze approfondite in campo cardiologico (verosimilmente, la stragrande maggioranza di tutti noi).
Negli ultimi giorni si è parlato di un possibile prosieguo di carriera all’estero per Bove, la cui idoneità per la pratica sportiva professionistica in Italia - ma non altrove, ad esempio in Inghilterra - potrebbe essere definitivamente compromessa. Ad oggi la sua situazione è ancora provvisoria, ma il dibattito in cui si inserisce non è affatto nuovo. Il caso Bove ha rispolverato infatti tutte le difformità - normative e di pensiero - in Europa e non solo su un tema che porta in dote dilemmi di natura etica, medica e sportiva. Non si tratta soltanto della sicurezza del ritorno in campo e dei conseguenti rischi (potenzialmente letali, come ci hanno insegnato le tragiche storie di Davide Astori e Piermario Morosini), ma anche del confine tra responsabilità collettive e individuali, e del ruolo che i protocolli sanitari devono avere per tutelare la vita e la salute dell’atleta.
Per Natale perché non regalare un abbonamento a Ultimo Uomo? Scartato troverete articoli, podcast e newsletter esclusive che faranno felici i vostri amici impallinati di sport.
Per chiarirmi un po’ le idee, e di conseguenza chiarirle anche a voi, ho intervistato il dottor Simone Gulletta, specialista in aritmie cardiache dell’IRCCS Ospedale San Raffaele (Milano), dove in passato si sono curati diversi calciatori di Serie A con malattie cardiovascolari.
DEFIBRILLATORI E RESTRIZIONI IN ITALIA
Partiamo dai fatti. Secondo il primo referto medico dopo l’incidente nella partita contro l’Inter, l’arresto cardiaco di Bove è stato causato da una aritmia ventricolare, molto rara in soggetti giovani come il centrocampista della Fiorentina, che ha appena 22 anni. La situazione ha reso necessarie le manovre cardiorianimatorie e il ricorso alla terapia intensiva, e successivamente ha portato all’applicazione, tramite intervento chirurgico, di un defibrillatore sottocutaneo. Una soluzione che riduce i rischi nel caso in cui l’aritmia dovesse verificarsi di nuovo ma che rappresenta uno sbarramento per continuare a giocare a calcio a livello agonistico in Italia. Come mai?
I defibrillatori sono strumenti in grado di rilevare le gravi aritmie ventricolari (per esempio la fibrillazione ventricolare), interrompendole grazie a uno shock elettrico salvavita. Da questo punto di vista, il defibrillatore impiantabile sottocutaneo rappresenta un’alternativa meno invasiva rispetto al tradizionale defibrillatore transvenoso, e per questa ragione negli ultimi anni ha cambiato molto le cose in questo ambito. «Il defibrillatore sottocutaneo è stato davvero un’evoluzione nel campo dell'impiantistica e della prevenzione della morte improvvisa», mi dice il dottor Gulletta, «migliorando notevolmente la qualità della vita dei pazienti che ne hanno bisogno. I defibrillatori endocavitari, quindi con cateteri che vanno dentro il cuore, oltre a presentare rischi di danneggiamento, malfunzionamento e infezione a lungo termine, richiedono una procedura più complessa di impianto ed eventuale estrazione. Nel caso del defibrillatore sottocutaneo, invece, l'elettrocatetere non è più dentro il cuore, ma in regione sottocutanea, sopra lo sterno; in tal modo si evitano i rischi di perforazione cardiaca».
Impiantare questi dispositivi richiede un intervento meno invasivo, e questo li rende strumenti ideali per situazioni come quella di Bove. Secondo alcune fonti, il centrocampista della Fiorentina avrebbe una specie di “cicatrice” sul cuore (forse figlia di una precedente miocardite, un’infiammazione al muscolo cardiaco) che potrebbe rendere più probabile una nuova aritmia in futuro, ma questo in fin dei conti cambia poco. In Italia, come detto, anche con un defibrillatore sottocutaneo non è possibile giocare a calcio a livello agonistico.
A livello normativo, la certificazione per gli sport professionistici in Italia è regolamentata dalla legge del 23 marzo 1981 n. 91, dai Decreti del Ministro della Sanità del 5 marzo 1982 e del 13 marzo 1995, e dalle successive modifiche e integrazioni di tali atti, cui sono soggetti tutti i tesserati delle federazioni affiliate al CONI, tra cui la FIGC. Le misure contenute in ambito cardiologico, predisposte dalla Federazione Medico Sportiva Italiana (FMSI) seguendo le linee guida redatte periodicamente dal COCIS (Comitato Organizzativo Cardiologico per l'Idoneità allo Sport), non sono particolarmente flessibili per sport ad alta intensità e di contatto come il calcio.
«Qui in Italia la responsabilità è sempre del medico, l'idoneità viene concessa dal medico sportivo, che solitamente si avvale di specialisti nel campo cardiologico per eventuali valutazioni approfondite», mi dice il dottor Gulletta. «E di sicuro le nostre norme sono molto stringenti, però questo limita il rischio di morti improvvise. In altri Paesi la legislazione permette al paziente stesso di assumersi la responsabilità, sgravando completamente il medico. Di questo si dibatte molto: è giusto, non è giusto? Io credo che il nostro sistema sia ottimale. Francamente, in quei casi in cui ci sono delle patologie gravi che portano all'arresto cardiaco e all’impianto del defibrillatore, bisogna negare l’idoneità, nel caso di sport di contatto soprattutto».
La ragione è duplice: primo, in un paziente cardiopatico con pregressi episodi aritmici ventricolari, uno sforzo fisico massimale può facilitare l’insorgenza di ulteriori episodi aritmici gravi; secondo, per le gravi conseguenze che possono derivare da un eventuale danno al defibrillatore, in seguito a contatti di gioco o cadute scomposte. «In Italia abbiamo questa indicazione: non dare idoneità sportiva agonistica nei soggetti portatori di defibrillatore», spiega il dottor Gulletta, «ma come dico sempre il punto non è il dispositivo ma la cardiopatia che ne ha reso necessario l’impianto».
In un recente intervento su La Gazzetta di Lucca, il dottor Francesco Bovenzi (direttore dell’area Cardiologia ed Emodinamica dell’ospedale San Luca) ha dichiarato che «dovremmo essere tutti consapevoli che non è un male che in Italia ci sia una rigorosa regolamentazione dello sport in tema di salute. Negli sportivi il limite tra salute e malattia è spesso impercettibile, porre grande attenzione anche ai minimi dettagli di una malattia o a sintomi seppur aspecifici non è un capriccio scientifico, ma un dovere della comunità medico-sportiva orientata alla prudenza. Abbiamo la fortuna di avere da oltre 40 anni un sistema di medicina dello sport tra i più evoluti ed efficienti, che il mondo ci invidia; certamente è tra i più restrittivi, perché è finalizzato alla massima tutela della salute degli atleti, in particolare quelli più esposti per l’elevato rendimento fisico proprio di alcune discipline. (…) Il nostro sistema sanitario è tra i più efficienti al mondo, anche perché supera il concetto di una medicina individualistica, così come è concepito in molte Nazioni anche evolute, vedi Stati Uniti e Inghilterra. In Italia, crediamo con orgoglio in una medicina sociale che supera l’individuo e guarda alla tutela della collettività nel suo insieme, e che supera le diseguaglianze sociali ed economiche, cui rispondiamo offrendo l’eguaglianza delle cure».
LE DISCREPANZE CON GLI ALTRI PAESI
I protocolli, come ci ricorda la storia di Eriksen, non sono gli stessi ovunque. Non per caso il danese dopo l’applicazione di un defibrillatore ha salutato la Serie A e si è trasferito in Premier League (Brentford prima e Manchester United poi), nel contesto più flessibile proprio della medicina sportiva oltremanica. L’ex Inter è un caso raro nel panorama europeo, ma non l’unico: l’olandese Daley Blind (Girona) e l’inglese Tom Lockyer (Luton) sono altri due esempi di calciatori regolarmente in attività con un defibrillatore attaccato al cuore. Edoardo Bove potrebbe essere il prossimo, a patto che gli accertamenti delle prossime settimane e la sua volontà vadano in questa direzione.
In ogni caso, quando vediamo Eriksen sui campi dell’Europa League e Blind su quelli della Champions League (per citare due competizioni a cui partecipano anche i nostri club, alle quali si aggiungono ovviamente i campionati nazionali) ci troviamo costantemente di fronte alla discrepanza tra la filosofia medico-sportiva osservata dal CONI e quella di altre federazioni. In assenza di una standardizzazione e di una visione comune in materia, le norme riflettono infatti le tradizioni etico-giuridiche e le cornici legislative in cui si inseriscono; un universo in cui, cercando di semplificare più possibile il discorso, possiamo individuare all’interno dell’area UEFA tre orientamenti.
Il primo è costituito dai sistemi più flessibili, in cui all’atleta - sempre previa approfondita valutazione e accertamenti periodici - è garantito un discreto margine di scelta; sistemi in cui si riconosce insomma il diritto individuale all’assunzione di tali responsabilità: Regno Unito, Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia, Norvegia. All’estremo opposto ci sono i contesti più restrittivi, in cui i soggetti con dispositivi cardiaci del genere sono ritenuti non idonei al calcio professionistico: Italia, Portogallo, Grecia, Polonia. Di mezzo, alcuni casi “ibridi”, con approcci misti tra linee guida universali e valutazioni cliniche individuali: Spagna, Francia, Belgio, Svizzera, Austria.
È un discorso che riguarda anche il peso delle aspettative con cui gli sportivi - e soprattutto i calciatori di alto livello - devono convivere quando si trovano in situazioni del genere. Insomma, cambiare vita dal giorno alla notte non è facile per nessuno, figuriamoci per un calciatore di questo livello. Queste restrizioni, però, sono pensate esattamente per proteggere l’atleta, che magari in una situazione simile sarebbe disposto a mettere a repentaglio la propria vita senza esserne troppo consapevole.
«Secondo me è sempre giusto che l'indicazione arrivi dal medico in questi casi», mi dice il dottor Gulletta. «Il nostro sistema di screening medico sportivo è sicuramente tra i migliori del mondo e questo è importante per diversi motivi. Non dimentichiamo infatti che ha anche una funzione di prevenzione per diverse malattie cardiache: ci sono patologie cardiovascolari asintomatiche che spesso vengono riconosciute proprio dai medici sportivi grazie all’elettrocardiogramma che viene effettuato per la prima volta durante la visita».
Tornando al calcio di alto livello, se la storia recente di Eriksen sembra premiare gli approcci più flessibili, quella di Blind solleva invece qualche dubbio. L’olandese ha scoperto nel 2019 di essere affetto da miocardite, e da allora ha giocato regolarmente - dopo l’installazione di un defibrillatore - in Eredivisie, Bundesliga e Liga, rispettivamente con le maglie di Ajax, Bayern Monaco e Girona; durante un’amichevole estiva del 2020, però, ha riportato un danneggiamento del dispositivo, che si è spento probabilmente in seguito ad un contatto di gioco, facendo vivere a Blind e ai suoi compagni di squadra attimi di grande preoccupazione.
Da allora fortunatamente non si sono più registrati episodi simili, per Blind come per Eriksen, ma è evidente che una manciata di casi non siano abbastanza per costituire un’evidenza scientifica. Cosa dicono, dunque, i numeri? «Chiaramente per quanto riguarda il rischio di morte improvvisa nei soggetti che fanno attività sportiva professionistica dipende prima di tutto dalle patologie, congenite o acquisite», risponde il dottor Gulletta «Gli studi ad oggi dicono che da 1 a 3 su 100.000 giovani atleti apparentemente sani muoiono improvvisamente durante l’esercizio fisico agonistico; quanto alla possibilità di sopravvivenza in casi di arresto cardiaco, invece, dipende principalmente dal contesto: è più alta se si interviene subito ovviamente, e per questo la presenza di personale addestrato alla rianimazione cardiopolmonare e di defibrillatori nei luoghi pubblici è fondamentale».
La domanda che mi viene spontanea è quanto manchi, oggi, per arrivare abbastanza vicini a quel rischio-zero necessario per un allargamento delle maglie. «Ci vorrà ancora del tempo e il rischio-zero chiaramente non si può raggiungere, ma siamo sulla strada giusta. I progressi in campo cardiologico sono frequenti, è possibile che avvenga in un futuro non lontano. In questo momento ci sono degli studi su patologie genetiche che stiamo seguendo con grande attenzione: sono ancora recenti e in fase di valutazione, ma potrebbero dare risultati davvero entusiasmanti nella prevenzione e cura di alcune patologie. I protocolli cardiologici per l’idoneità allo sport professionistico vengono aggiornati a distanza di alcuni anni, e in Italia l'ultimo aggiornamento è del 2023, quindi recentissimo».
«La speranza è che prima possibile l’evoluzione della medicina in campo cardiologico e in campo di prevenzione delle morti improvvise consentano, responsabilmente, un cambiamento di questo tipo».