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Prima o poi qualcosa succederà
07 mar 2019
Intervista a Daniele Petrucci, la cui incredibile carriera sembra essere stata già dimenticata.
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San Basilio è il quartiere di Roma che Daniele Petrucci porta allacciato alla vita come la cintura di un titolo mondiale, senza separarsene mai. Lì è nato, lì ha incontrato il maestro Maggi, lì si è formato come pugile, lì ha lavorato come factotum alla Lodigiani, la squadra del quartiere, per pagarsi la carriera nella boxe e lì, infine, ha scontato i suoi problemi con la giustizia.

Quando saliva su un ring “c’era tutta San Basilio a tifare per lui”. Al termine dell’ultimo incontro, a Civitavecchia, ha dedicato la vittoria alla gente di San Basilio "che purtroppo non è potuta venire”.

Nella sua carriera pugilistica, dal 2004 al 2013, Petrucci ha perso soltanto una volta, ma quell’unica sconfitta ha segnato la fine di una carriera mai del tutto rivelata. «Un giorno sei in alto», mi dice quando lo incontro nella sua casa a San Basilio «Ma se sbagli, presto si dimenticano di te». Da ragazzino, un amico lo chiamava “bucetto” perché pare fosse un bambino fortunato (a Roma la fortuna viene spesso indicata con la parte più intima del didietro). Oggi a ricordare questo aneddoto storce la bocca: «Eh, non te dico... non sai che fortuna...». Eppure da quel soprannome non si è mai separato, portandolo in ogni palazzetto, in ogni palestra.

Era entrato in quella di via Recanati, a 10 anni. Era il 1990. Quel piccolissimo scantinato era il regno di Carlo Maggi, a sua volta un ex pugile di San Basilio, diventato presto allenatore dopo una breve carriera sul ring. Interrotta dal «naturale corso della vita», come diceva lui stesso. Si era sposato, aveva avuto una figlia e aveva dovuto pensare a mantenere una famiglia. Anche se poi nel mondo della boxe ci era rimasto, «in senso lato». Aver dovuto abbandonare l’attività agonistica restava un rimpianto.

La palestra di quartiere, per Carlo, doveva soprattutto togliere i ragazzini dalla strada, come si dice. Ogni mattina, andava a svegliare i suoi pugili e li portava a correre. Nel pomeriggio c’era la seconda sessione di allenamento. I ragazzi lo aiutavano a sistemare il soffitto, le docce, il pavimento della sala. Con Maggi si potevano raggiungere risultati sportivi impensabili, a patto di rispettare le regole. «Se non avevi carattere e pazienza potevi durare tre mesi, poi te ne andavi. Nessuno era privilegiato, tutti facevano lo stesso allenamento. Non esisteva che ci si allenava da soli».

Dalla “Boxe Roma San Basilio”— si è chiamata sempre così, anche dopo l’ultimo trasferimento a Pietralata—sono usciti 15 campioni. Daniele Petrucci, però, era diverso dagli altri. Lui era il “capolavoro pugilistico” di Carlo, come l’ha definito il giornalista Alfredo Bruno. In un’intervista recente, per il film Boxe Capitale, Daniele ha ricordato lo sconforto che lo prese a metà di un match importante: «Alla settima ripresa mi sono detto, ‘non ce la faccio, e mo che cazzo mi invento?’ Allora mi sono seduto, mi sono guardato Carlo dentro di me e ho detto ‘o me prende un infarto o vinco per KO. Ci devo morire stasera’».

Foto di Paolo Bruno / Stringer

Dopo 70 match da dilettante, Daniele era passato ai pro mantenendo le cattive abitudini. Il giorno dopo i match prendeva troppo peso e di allenarsi non aveva mai voglia. «Non mi è mai piaciuto, però quando c’era da dare er fritto (il massimo, ndr) non mi tiravo indietro». Combatteva con tutti Petrucci, non rifiutava nessuno. «Ecco perché la gente si innamorava di me. Facevo sempre le battaglie con tutti. Con le pippe, con quelli forti».

Oltre all’allenamento in palestra, Daniele si preparava sulle montagne di Farfa, a Rieti. Appendevano i sacchi agli ulivi e boxava vicino ai monaci dell’abbazia. La perseveranza di Carlo aveva cominciato a dare i primi risultati molto presto.

Petrucci era un welter potente, agile, resistente. Non aveva il pugno del KO, ma i suoi colpi facevano male, soprattutto il montante sinistro. Boxava in una maniera semplice, spartana, efficace, preparato sia nella boxe d’attacco che in quella di rimessa. Chiuso in guardia, si apriva soltanto per fare la cosa giusta. Seguiva alla lettera le indicazioni di Carlo e Sergio Calì, il secondo allenatore, all’angolo. «Sulla fronte il destro, così... Più scattante... montante sinistro e destro sopra. Il gancio, quando metti il montante sotto». In ogni ripresa, nonostante il frastuono degli spalti, i colpi dell’avversario, la stanchezza delle gambe, il fiato corto, i fischi nelle orecchie indolenzite, Daniele doveva riuscire a ascoltare le indicazioni dal suo angolo. Era l’unico modo che conosceva per vincere.

Ha vinto il titolo italiano, europeo e intercontinentale. Dopo il 2008, l’anno d’oro in cui conquista tre cinture, aveva cominciato a intravedere la possibilità di confrontarsi per un match mondiale. L’occasione era arrivata con José Luis Cruz. Non c’era un titolo in palio ma gli appassionati erano convinti che chi avesse vinto avrebbe potuto avere una chance mondiale. Dopo la vittoria ai punti di Petrucci, su La Repubblica avevano parlato di una “svolta per la carriera del pugile romano”. E invece quella svolta non era arrivata.

«Per confrontarmi con l’America» e anticipare la fortuna andando a «bussare alla porta della boxe che conta», “Bucetto” aveva deciso di trasferirsi per qualche mese in California, a Tarzana, Los Angeles. Su consiglio di un amico aveva scelto di allenarsi nella palestra di Joe Goossen, uno che tra i suoi atleti aveva avuto tanti campioni del mondo.

La città non gli piaceva, troppo dispersiva. Usciva poco, non aveva la macchina, e così si allenava tutto il giorno. È stata la prima, e unica, volta che al suo fianco non c’era Carlo. Si sentivano al telefono, anche con Sergio e gli amici della palestra di San Basilio. Carlo non era d’accordo con la scelta, avrebbe voluto averlo più vicino, voleva che scegliesse la Germania. L’esperienza di Petrucci era durata tre mesi, fino alla scadenza del visto. In quel poco tempo a disposizione gli era stato offerto soltanto un match da collaudatore che aveva rifiutato. Su YouTube si trovano le tracce di quella breve esperienza: un filmato amatoriale girato in palestra da un appassionato. Gli chiede se in Italia sia una celebrità: «Eh», risponde Daniele «Me conoscono».

Quando era ritornato a San Basilio, nel marzo del 2010, il suo procuratore italiano gli aveva programmato un incontro valido per il titolo IBF. Anche quella volta, per la sfida con Ronny McField, i giornali avevano parlato di un match «che potrebbe proiettarlo alla meritata ribalta internazionale». Ma Daniele iniziava a capire l’antifona. “Il naturale corso della vita” si stava facendo più chiaro anche per lui, come lo era stato anni prima per il suo maestro. Prima del Mondiale, aveva detto in un’intervista, «c’è la famiglia, la fidanzata Noemi, la nascita di un figlio, i genitori e soprattutto la gente di San Basilio, persone che mi seguono e mi amano, persone semplici che affrontano la vita con sacrifici e onestà».

Neanche dopo aver battuto ai punti Ronny McField, Jorge Daniel Miranda e aver conquistato due cinture IBF, era avvenuta l’accelerazione decisiva nella sua carriera. Il match mondiale non arrivava mai. A chi gli chiedeva come se lo spiegasse, Daniele confessava di non saperlo. «Si vede che le cose devono andare così, ma va bene lo stesso, prima o poi qualcosa d’importante capiterà».

Petrucci sul ring con Jorge Daniel Miranda (foto di Paolo Bruno / Stringer).

All’inizio del 2011, Petrucci era ancora imbattuto. Il suo score segnava 28 vittorie, di cui 10 per KO, e un pareggio. Finalmente il suo manager era riuscito a trovare la chiave di volta della sua carriera. Aveva programmato un incontro tra i due più forti welter a livello europeo: due italiani. Se Daniele avesse vinto avrebbe potuto finalmente giocarsela in un Mondiale. «Resto scaramantico fino al match», aveva detto Buccioni «Però senza far nomi e senza dir niente, ci sono già stati dei contatti in caso di vittoria, molto importanti, oltreoceano».

L’avversario di Daniele Petrucci si chiamava Leonard Bundu. Un pugile fiorentino, nato in Sierra Leone, che si allenava con il maestro Boncinelli. Lo chiamavano il “Leone”. Imbattuto anche lui, aveva 6 anni più di Daniele, ma lo score non era poi così distante. Pure Bundu aspettava la sua chance mondiale, e sapeva che Petrucci sarebbe stato l’ostacolo da superare per conquistarla. «Sono sempre stato più teso quando veniva la gente a fare i guanti dalle altre palestre che quando andavo a combattere», mi confessa Daniele «Quando combattevo pranzavo, dormivo quattro ore... Quello con Bundu è stato l’unico match in cui non ero tranquillo».

La sfida Bundu e Petrucci resta ancora oggi uno degli eventi più importanti della storia recente della boxe italiana. Per decretare un vincitore erano stati necessari due match. Un doppio spettacolo che aveva strappato più di 16mila biglietti, un numero enorme per questo sport in Italia.

Il 25 luglio 2011, Daniele giocava in casa, al Centrale del tennis. “Sembrava di avere il pubblico addosso” ricorda il giornalista Marco Archetti “L’idolo di San Basilio era accompagnato da una perenne ovazione. Petrucci, faccia monolitica e quadrata, scurita da due sopracciglia che erano due ditate di fuliggine”. Dagli spalti i suoi sostenitori si facevano sentire: “Metti il destro! Poi il sinistro! Buttalo per terra, buttalo per terra! Bucio alè! Bucio alè”. Daniele teneva sotto controllo l’emozione. «Quando sali sul ring, faccia a faccia con un altro uomo», aveva detto nel pre-match «Le urla di chi ti ama ti spingono, ma non mettono KO nessuno: ci devi arrivare da solo». Alla presentazione aveva abbracciato Carlo, prima di togliersi l’accappatoio.

Petrucci e Leonard Bundu durante la conferenza stampa dell'incontro (foto di Mario Carlini / Iguana Press / Stringer)

Il match era terminato all’ottava ripresa, per una ferita sulla fronte di Bundu, dopo una testata involontaria. Tra i fischi del pubblico che non si aspettava un finale monco in una sfida così importante, era stata decretata la parità. Fino allo stop dei medici, «dicono che stavo in vantaggio io», mi dice Daniele. Sui giornali il pareggio veniva definito un po’ stretto per Bundu invece, “che meritava qualcosa in più”. Per avere un verdetto incontestabile e per non compromettere uno spettacolo irripetibile era stato pianificato un secondo incontro.

Al Mandela Forum, il 4 novembre, la tensione fuori dal ring era altissima. Da San Basilio erano partiti per la trasferta pullman carichi di tifosi. Sugli spalti, poco dopo il suono della campanella, era scoppiata una rissa nel settore ospiti, e l'incontro era stato interrotto per qualche minuto.

Sul ring i due pugili combattevano a viso aperto, dando il massimo su le dodici riprese. Alla fine, i giudici avevano dato la vittoria a Bundu, con verdetto unanime. Anche Daniele lo aveva ammesso: «Ha vinto il più forte, è stato bravo e furbo nel non farmi boxare come faccio di solito. Comunque sono giovane e vedremo cosa fare in futuro».

Insieme alla cintura europea, Leonard si era guadagnata la possibilità di combattere in un match mondiale WBA. Petrucci aveva perso anche la sua chance. «Non mi andava più di fare i sacrifici. Dopo Bundu tornai da una vacanza di quasi un mese e pesavo 86 chili. Avevo troppe cose per la testa. Mi dicevo ‘ma chi cazzo me lo fa fa’. Sto sport è così: se vinci sono pippe gli altri, se perdi sei una pippa tu. Io non so perché quelli dell’epoca mia ancora combattono».

Avrebbe fatto altri due match, sottoclou, prima di abbandonare l’attività professionistica. «Tra un po’ finisce tutto» si ripeteva da anni, consapevole della fragilità di una carriera da pugile. Dopo il marzo 2013, data del suo ultimo incontro, di Daniele si erano perse le tracce. Nei forum di pugilato, si chiedevano che fine avesse fatto “Bucetto”. Le notizie su internet erano poche. La maggior parte degli ultimi articoli sono ancora oggi datati al secondo match con Bundu.

Dopo la morte improvvisa di Carlo Maggi, all’inizio del 2015, con un silenzioso e oneroso passaggio di consegne, Daniele si è caricato sulle spalle la palestra. Tra alti e bassi. Non sempre riesce a essere presente agli allenamenti, deve stare appresso agli agonisti, portarli in trasferta. E poi si deve occupare della manutenzione del giardino, delle foglie nel vialetto, della pulizia dei bagni. Si scusa con i nuovi arrivati per la scarsa presenza: «So’ solo», dice.

In sala, durante gli allenamenti, ricorda con i più anziani qualche aneddoto su Carlo. Così chi non ha mai conosciuto Maggi, chi si è appena iscritto alla Boxe Roma San Basilio, capisce quanto sia stato importante per quella palestra. Su un lato del ring c’è uno striscione con una dedica. Una gigantografia pende dal muro. Ricordare Maggi è anche il modo che “Bucetto” ha di rivivere il suo passato. Il tormento che gli dava la bilancia, i pedinamenti per vedere se fumava, i match per il titolo, quello che gli riusciva meglio: boxare come diceva Carlo. «Palazzetto dello sport a viale Tiziano. Era la sera in cui dovevo combattere con Lauri, per il titolo UE. Mentre scendevamo le scalette, Carlo fa uno zompo come un gatto e si mette davanti a Lauri. Se lo guarda dal basso verso l’alto, gli dà una pizza sul petto, mi guarda e mi fa: ‘Aho, ma lo vedi? è un grissino! Quella sera sono salito sul ring come un leone. Non con una, ma con due grinte!».

Erano tanti gli atleti che affollavano la chiesa di San Basilio, vicino alla prima sede della palestra, per il funerale di Carlo Maggi. C’era chi lo aveva appena conosciuto e chi era stato seguito per anni. Fabio Russo, oggi un lottatore di MMA, è stato un pugile di Maggi.

«Carlo non sarebbe d’accordo sull’MMA», dice in un’intervista: «Ma quando combatto in quella gabbia, dentro quell’inferno, lui è sempre con me. Mi sono allontanato dalla Boxe Roma San Basilio e dal pugilato dopo la sua morte. Non la presi bene. Tanti anni a condividere, come lo siamo stati noi, come un padre e un figlio... quando viene a mancare è dura. Per riuscire a rialzarmi e a reagire sono scomparso, sparito».

Da quel gennaio 2015, ogni anno si tiene un Memorial, in cui gli allievi di Maggi si ritrovano al Palasport di Casal Bruciato, per ricordarlo a parole e incrociando i guantoni. Daniele, insieme alla famiglia Maggi, è uno degli organizzatori. Ogni tanto si diverte a fare l’arbitro negli incontri tra i più giovani, che finiscono sempre con un verdetto fraterno di parità. In una di queste celebrazioni ha partecipato anche Leonard Bundu. Lui e Petrucci sono diventati amici. Nel 2017 hanno disputato il terzo capitolo della loro sfida. Un’esibizione sulle tre riprese.

Alla fine si sono abbracciati e hanno tenuto per mano i figli. In palio non c’era nessun titolo.

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