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Brasile 1982: la squadra più bella di sempre
09 dic 2022
La squadra perdente e romantica per eccellenza.
(articolo)
50 min
(copertina)
Foto di Melchert / Getty Images
(copertina) Foto di Melchert / Getty Images
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​​Socrates siede nel salone di casa sua. È stato un calciatore, un filosofo, un comunista. In quel momento è intervistato in qualità di tutte e tre le cose, ma soprattutto come uno degli ultimi custodi dello spirito del calcio brasiliano, di quello a cui il mondo si riferisce come Futebol Arte. Con la voce irrochita dal fumo, accompagnato da mani grandi e benedicenti, spiega: «Vedo il calcio come una forma d’arte, mentre altre persone lo vedono come una competizione. È come avere vari pittori nello stesso studio che provano a fare le loro cose. Il lato artistico è ciò che attrae i tifosi. Non è la vittoria che conta, ciò che conta è l’arte. Chi cerca la vittoria cerca il conformismo».

Anche quando parla di calcio Socrates lo fa con la sicurezza del politico, del militante, di chi pensa di essere dalla parte giusta della storia. Sono passati cinquant’anni, oggi, ma nessuno dei brasiliani che erano in campo quel giorno ha il minimo dubbio: erano la migliore squadra del mondo, interpretavano il calcio come nessun altro e avrebbero dovuto vincere. Nessuno, insomma, ritiene che quella sconfitta, il 5 luglio del 1982, non sia stata un torto, un’altra manifestazione dell’ingiustizia del mondo.

Il momento in cui tutto è precipitato è arrivato al minuto numero 74 della terza partita del secondo girone del Mondiale, Brasile-Italia.

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Un cross di Antognoni innocuo che Cerezo appoggia in calcio d’angolo per errore. Il primo calcio d’angolo della partita a favore dell’Italia. Quando racconta quel momento, anni dopo, la voce di Zico è ancora frustrata e stupita. «C’erano undici brasiliani dentro l’area di rigore». Il Brasile difendeva quindi con tutte le forze il pareggio, come tutte le persone di buonsenso gli chiedevano. Gli sarebbe bastato quel pareggio per passare in semifinale, dove avrebbero trovato la Polonia. Dopo il 2 a 2 di Falcao pochi minuti prima, il ct Tele Santana aveva sostituito il centravanti Serginho con l’ala dinamica Paulo Isidoro, spostando Socrates punta. Voleva una squadra compatta, ed eccola lì, tutta a difendere questo calcio d’angolo. Peres, il portiere dall'aria impiegatizia del Brasile, perde tempo, Paolo Rossi deve strappargli il pallone dalle mani, per poi recapitarlo a Bruno Conti con una tecnica da lancio del peso.

Tutti ricordiamo la luce di quel giorno, sullo stadio Sarrià traboccante di corpi, il prato che brilla del verde divino e perfetto dei migliori campi da calcio, il muro sonoro stridulo delle trombe come uno sciame di vespe, in sottofondo il suono tropicale dei tamburi della torcida brasiliana. Bruno Conti dalla bandierina ha la solita aria dinoccolata, vanitosa, col casco dei capelli che gli scende fino agli occhi. Dietro di lui il cartellone Iveco, appoggiati sopra dei militari in divisa cachi osservano la scena. Non gli viene concessa nemmeno una vera rincorsa, appena tre passi all’indietro per farsi spazio, poi alza il braccio e calcia un pallone lungo, che si trascina fin quasi fuori dall’area. Lì due giocatori ingaggiano un duello aereo, la palla si alza e scende sul piede di Tardelli; quello calcia di sinistro, un tiro strozzato che non sembra promettente. Eppure, assecondando l’istinto che lo guida quel giorno, Paolo Rossi si è portato sulla traiettoria, e segna di piatto il gol del 3-2, la sua tripletta personale. Esulta con le braccia larghe, mettendo il punto esclamativo con un piccolo saltino che oggi ci pare eufemistico.

Per gli italiani Rossi assume le forme del Dio cinico e baro che venerano durante le partite di calcio. Il mondo è governato dal caos e dall’ingiustizia, e compito degli italiani è mettersi dalla parte di chi ne approfitta e non di chi la subisce. Per i brasiliani Paolo Rossi ha le sembianze di un Dio malvagio e vendicativo. Ha segnato tre gol, approfittando con fiuto predatorio degli errori del Brasile. L’ultimo era stato persino volgare, a suo modo: aveva segnato rovistando nella spazzatura dell’azione.

Cosa ci faceva Paolo Rossi lì, in mezzo all’area di rigore? Ha seguito un suo istinto naturale, la sua astuzia, il potere divinatorio di certi centravanti-volpe creati dal calcio italiano; oppure è soltanto il caso, una forza esterna, ad averlo accompagnato, sonnambulo, su tutti i palloni con cui avrebbe scritto la storia? Esiste una giustizia divina nel calcio e se esiste, perché ha dovuto punire quel Brasile?

Futebol Arte vs Futebol Força

Nonostante tendano a raccontare il proprio gioco come una forma d’arte danzata, nessun popolo quanto i brasiliani tende a ridurre una partita di calcio a una disputa filosofica. In particolare quando devono affrontare scuole calcistiche che considerano rivali per spirito e idee. E così l’ultima volta che si erano affrontate, Italia e Brasile, nella finale dei Mondiali del 1970, non c’era in ballo soltanto la Coppa del Mondo ma un modo di intendere le cose: il calcio dei risultati contro il calcio dell’arte. Il Santo Catenaccio di Nereo Rocco o Gipo Viani, contro la creatività e la tecnica dei maestri brasiliani.

Era un momento storico di grande frattura. Mentre al Brasile toccava affrontare l’Italia, era in Olanda che il gioco aveva cominciato a cambiare. Rinus Michels all’Ajax aveva portato a una diversa profondità la vocazione razionale che contraddistingue il calcio europeo. Per i brasiliani però non c’era nulla da ammirare: era solo l’ennesima manifestazione della futebol força, a cui contrapporre la futebol arte. Se il calcio totale ambiva a creare squadre che dissolvessero le diverse individualità in un corpo unico, il calcio brasiliano era più una specie di stato mentale che doveva permettere all’arte calcistica di esprimersi attraverso il corpo dei giocatori. Non si tratta soltanto di una contrapposizione tra forza e tecnica. La categoria di força è un termine che indica anche la razionalità, per esempio, il senso dell’efficienza, della competizione - tutte cose che i brasiliani sentivano estranee.

Come diceva Socrates, chi nel calcio cerca la vittoria è un conformista. Per arte si intende il genio, lo spettacolo, l’inventiva, una forma d’espressione libera. È una contrapposizione simile a quella tra apollineo (il calcio europeo) e dionisiaco (calcio brasiliano), come immaginato dallo scrittore Gilberto Freyre. È lui, tra gli altri, come l'antropologo Roberto DaMatta, a teorizzare lo stile di gioco brasiliano. Non per speculazione intellettuale ma per dare un impianto teorico al sentimento con cui i brasiliani amano parlare di calcio, distinguendo sé e gli altri. Dietro questo pensiero possiamo vederci una forma di umanesimo: se il calcio europeo, e il calcio olandese in particolare, è il risultato di un metodo scientifico, quello brasiliano pone l’espressione umana al centro, con la sua irregolarità, la sua creatività, la sua imprevedibilità. Tutto il resto è subordinato. Ciò che bisogna abbandonare, prima di tutto, è la logica.

La Seleçao che ha vinto i Mondiali di Messico 70, demolendo l’Italia del calcio all’italiana in finale per 4-1, rappresenta l’apice espressivo di tutto questo, e al contempo il suo canto del cigno.

Il ct Mario Zagallo segue l’unico criterio che guida i puristi del gioco brasiliani: schierare più giocatori forti possibili uno vicino all’altro, aspettando che succeda la magia. Zagallo realizza la visione di schierare insieme Jairzinho, Rivelino, Tostao e Pelè. La squadra del 1970, i 4 gol rifilati all’Italia in finale, sono il punto più alto della futebol arte. Gerson, uno dei suoi interpreti, ne parla come una cometa che per un attimo ha illuminato il pianeta: «La nostra squadra è stata la migliore di tutte. Chi non l’ha vista, ahimè, non avrà più la possibilità di farlo». Il primo Mondiale trasmesso sulla televisione a colori fissa l’iconicità brillante delle divise brasiliane, il giallo canarino delle maglie e il blu oceano dei pantaloncini sono diventati, nella nostra testa, l’immagine eterna del bel gioco. L'icona sacra dei Mondiali. Tutte le Seleçao successive avrebbero sperimentato la frustrazione di provare ad assomigliare a quella squadra maestosa, senza riuscirci.

Secondo Jonathan Wilson, però, quella Nazionale brasiliana è riuscita a realizzarsi grazie a condizioni irripetibili, già fuori dal tempo e dalla storia. Il caldo e l’altura messicane avevano impedito un'efficace applicazione del pressing e di strategie difensive, facilitando l’esibizione di tutto quel talento offensivo, di quella assoluta padronanza del campo.

Poi, nel corso degli anni ‘70 la contrapposizione tra la spinta conservatrice e quella innovatrice nel calcio brasiliano si inasprisce e vengono fuori i primi dubbi. La Seleçao avrebbe dovuto somigliare di più al calcio Europeo, oppure no, oppure c’era un modo per competere con quelle idee d’avanguardia con la solita ricetta? Non c’era forse la purezza delle cose eterne, nell’ingenuità con cui i brasiliani giocavano a calcio?

A dire il vero questo tipo di conflitto esiste dai primi del novecento. È una di quelle storie antiche che continuiamo a raccontarci come nuove. Già ai primi del novecento il Brasile vive la tensione fra il proprio stile di gioco e quello europeo. Mentre gli scozzesi mostravano all’Europa le virtù del “passing game”, i brasiliani vivevano il calcio come pura espressione individualistica. Per qualcuno era persino un problema morale: c’era troppa improvvisazione, troppa malizia, dov’erano i valori cavallereschi dello sport inglese? In Brasile il calcio ha cominciato subito a contaminarsi e nell’opinione pubblica, già un secolo fa, si ricordavano con nostalgia i tempi andati in cui gli attaccanti non passavano mai la palla, nei loro estenuanti assoli individuali tra i difensori.

Ma il Brasile che affronta il Mondiale del 1974, sempre con Zagallo in panchina, è decisamente più timido e conservativo rispetto a quello di quattro anni prima. Il suo scontro con l’Olanda di Michels e Cruyff, in semifinale, è traumatico. Come altre nazionali che affrontarono quell’Olanda, il Brasile sembrò senza strumenti. Incapace di fare scintille come quattro anni prima, finì per provare ad andar dietro alla fisicità olandese. Ne venne fuori una delle partite più violente della storia dei campionati del mondo, segnata da un intervento di Marinho Peres che fece svenire Neeskens. Il Brasile perse 2-0.

Come sappiamo, la squadra olandese segna una frattura nella concezione generale del calcio. Smonta le convinzioni sulla rigidità dei ruoli e delle funzioni in campo; forgia l’idea, copernicana, che ogni fase d’attacco contiene una difesa e che ogni fase di difesa contiene un attacco. È stato come scindere l’atomo. Nasce il calcio moderno e anche il Brasile, nella versione del ct Coutinho ai Mondiali del ’78, prova a non rimanere indietro. È una versione confusa e minore, eppure, in mezzo a mille incomprensioni tra giocatori e ct, il Brasile arriva terzo e va comunque molto vicino alla finale.

Eliminato solo per la differenza reti dall’Argentina della "Marmelada Peruviana". Un risultato che racconta comunque la vastità di talento presente nel Brasile; per il pubblico, un motivo in più per essere insoddisfatti della direzione filosofica presa dalla Seleçao. La squadra del ’78 era così corrotta dal compromesso da lasciare in panchina giocatori come Zico e Rivelino. Non hanno trovato posto dentro quel 4-4-2 rigido e impacciato. Il talento era represso dentro sistemi che provavano a scimmiottare il calcio europeo - o almeno così credeva l’opinione pubblica brasiliana più intransigente.

L’Olanda e Cruyff avevano introdotto una nuova idea di “bello” nel calcio. Un’idea in cui il gusto tecnico diventa completamente funzionale. L’individuo è sempre al servizio di un sistema collettivo che lo contiene e lo limita, e finisce per standardizzarsi. È un punto di vista forzato sul Calcio Totale, ma coincide con l’ala più conservatrice dell’opinione pubblica brasiliana, secondo cui Michels e Cruyff sono il demonio. Non è solo una questione calcistica ma identitaria e politica: il Brasile ha sempre usato il calcio come strumento per cementare la propria identità nazionale, un’identità post-coloniale, descritta dal libro di Gilberto Freyre intitolato, programmaticamente, Futebol Mulato.

Il calcio è il territorio in cui si fondono virtuosamente vari tratti dell’identità brasiliana, trasversali fra razze e classi: la sensualità della samba, l’elusività della capoeira e la genialità maliziosa del malandro - la figura folklorica che indica il delinquente di strada che vive di inganni e fascino. I calciatori in campo non corrono, gingano. È difficile descrivere che cos’è davvero la ginga. È un termine che deriva dal movimento oscillatorio della voga del marinaio; per iconismo allora i calciatori brasiliani che gingano oscillano, seguono un flusso, un ritmo che scioglie il calcio allo stato liquido.

Già ora che provo a descriverlo ne reprimo la natura. Quando si dice che un calciatore ha ginga, o che una squadra ha ginga, è una sensazione epidermica, che chiunque abbia mai visto i migliori calciatori brasiliani associarsi tra loro - Pelè e Rivelino, Neymar e Ganso - può però riconoscere. Quando sarebbe tornata una Seleçao che ginga?

Voa Canarinho voa

In Spagna, nell’estate nel 1982, dove gioca il Brasile passa la banda. I tifosi attraversano le strade con trombe e tamburi, danzano sul tema che accompagna la Seleçao: «Vola canarino vola, dimostra di essere un re, fai vedere in Spagna quello che io già so».

Quello che i brasiliani sapevano, e che volevano svelare in Spagna come una rivelazione, è che il Brasile è la squadra migliore al mondo. Finalmente una Nazionale nobile erede di quella del 1970.

Il mitico terzino brasiliano Junior canta il tema, sotto il commento più votato è "Quando la Seleçao era l'orgoglio della Nazione".

Nel 1979 su un quotidiano di San Paolo viene pubblicato un sondaggio fatto ai lettori su quale ct avrebbero preferito alla guida del Brasile. È un plebiscito per Tele Santana, che viene da un decennio di successi con Atletico Mineiro e Gremio, noto per far giocare le sue squadre con allegria e leggerezza. Nel 1980 Tele Santana viene incaricato commissario tecnico del Brasile e in due anni forgia una Nazionale dal gioco offensivo e spettacolare, ostinata nel non voler rinunciare a nessun talento tecnico prodotto dalla scuola brasiliana.

Gioca il Mundialito del 1980 e arriva terza, perdendo in semifinale contro i padroni di casa dell’Uruguay. In una tournée europea batte, una dopo l'altra, Inghilterra, Francia e Germania. Nel biennio alla guida di Tele il Brasile, in pratica, perde solo due partite, contro Uruguay e Unione Sovietica.

È curioso che per l’esordio Mondiale, nel contesto quindi tradizionalmente più teso, si ritrovi davanti proprio l’URSS, la sera del 14 giugno del 1982. Non c’è la luce abbacinante che ricordiamo di quei mondiali, e nell’aria del Sanchez Pizjuan non suona la samba ma le severe note dell’inno sovietico che sembrano poter risucchiare tutta la leggerezza brasiliana. La Nazionale russa torna ai campionati del mondo dopo dodici anni, e ha tutta l’intenzione di far sentire al Brasile la pesantezza di una partita Mondiale. È una Nazionale forte e tatticamente disciplinata in ottica collettivista. Si basa su un gruppo di giocatori talentuosi che rappresentano l’apice dell’espressione calcistica sovietica, che in quegli anni sta vivendo un suo rinascimento grazie all’innovazione del tecnico-profeta della Dinamo Kiev Valerij Lobanovskij. Punta su tre grandi blocchi: quello dello Spartak Mosca (Dasaev e Gavrilov), della Dinamo Kiev (Burjak, Blochin, Demianenko) e Dinamo Tbilisi (Chivadze, Sulakvelidze e Shengelja).

Il Brasile ha Tonino Cerezo fuori per squalifica. Tele Santana fa giocare a centrocampo Socrates e Falcao, Dirceu e Zico come trequartisti. Ai lati Junior e Leandro sono due terzini ultra-offensivi, che attaccano come se fossero ali. La quantità di talento in campo è spaventosa.

L’URSS non vuole ridursi a grigio sparring partner dell’esibizione del Brasile. La squadra di Tele Santana ha due punti deboli riconosciuti. Il primo è il suo centravanti, Serginho. Un uomo di quasi due metri che giocava coi calzettoni abbassati e che era appena stato capocannoniere del campionato brasiliano. Era celebre per la malizia con cui provocava i difensori avversari, ma quel genere di gioco sporco era mal visto da Tele, e allora cosa rimaneva a Serginho? Se il ct avesse potuto avrebbe convocato Reinaldo, o Careca, ma entrambi avevano problemi fisici. (Si dice che il polpaccio di Careca si sia infortunato a causa di uno spillone messo sopra alla sua bambola di pezza da una fattucchiera ingaggiata da Roberto Dinamite, attaccante di riserva di quel Brasile). Serginho sembrava un alieno rispetto ai suoi compagni. Aveva idee grossolane, a cui facevano seguito esecuzioni tecniche altrettanto rozze. Un’impressione forse esagerata dalla qualità tecnica che lo circondava.

L’altro punto debole del Brasile era il portiere, Valdir Peres. Nei primi venti minuti di partita i due già portano il conto alla Seleçao. Serginho disfa un paio di trame fiorite dei centrocampisti del Brasile come un bambino capriccioso, poi sbaglia un gol facile. Serginho non ha solo il problema di non segnare, ma spesso anche di sbagliare in modo appariscente, spettacolare.

A furia di non segnare, il Brasile prende gol. È quel tipo di Nazionale che sembra fare una grande fatica per costruire il proprio mosaico di gioco bizantino, per poi vederlo crollare sotto il peso di un piccolo dettaglio fuori posto. Il dettaglio in questione, stavolta, è proprio il portiere Valdir Peres, oppure una zolla maledetta del Sanchez Pizjuan. Sul tiro del mediano Bal da trenta metri la palla prende uno strano rimbalzo, o un rimbalzo che comunque Peres non riesce a leggere, tocca il pallone senza fermarlo e poi la guarda in porta con l’aria scema che per forza assumono i poveri portieri dopo un grave errore.

Il Brasile pare accumulare occasioni giusto per il gusto di sprecarle e a un quarto d’ora dalla fine è ancora sotto di un gol. Le cose cambiano quando Socrates decide di cambiarle.

È difficile descrivere la presenza di Socrates nel Brasile dell’82. È difficile contenere nelle parole la sua eleganza, la sua forza, la sua maestà. Quando aveva la palla tra i piedi non aveva bisogno di guardarla nemmeno per un istante, poteva scrutare il gioco a testa alta, come un comandante a cavallo. Quando Gioacchino Murat scendeva in battaglia con la sua divisa da ussaro, l’aria si faceva più densa attorno, e così succedeva quando Socrates portava palla.

Superava il metro e novanta, alzandosi su delle lunghe gambe da stambecco che spuntano dai pantaloncini striminziti della Seleçao. Così stretti che sembrano shorts di jeans. Ai Mondiali dell’82 Socrates arriva al massimo del suo splendore: viene da una grande stagione col Corinthians, si è persino fatto convincere a tagliare dalla sua dieta da intellettuale birra e sigarette. Giocare quel Mondiale era la sua ambizione massima. Guardarlo correre, semplicemente correre, è una delle migliori esperienze estetiche del calcio.

A un quarto d’ora dalla fine, sterza a destra su un primo difensore, poi un’altra finta di tiro, e poi un tiro formidabile, glorioso, «ho messo tutto quello che avevo in quel tiro. L’urlo è arrivato “Goooaaaal”, ma era più di un urlo, era un orgasmo». È il gol che stappa definitivamente quel Brasile. Il gol successivo non contiene la forza volitiva del primo, ma già la leggerezza artistica con cui giocava la squadra di Tele Santana.

Paulo Isidoro porta palla sulla destra. Il suo ingresso in campo al posto di Dirceu ha dato più dinamismo e ampiezza al Brasile. Isidoro finta, poi passa in mezzo verso Falcao che in quel momento era onnipotente, giocava con la calma tipica dei centrocampisti che custodiscono i codici segreti del gioco. Eder diceva che Falcao giocava con la calma di chi passeggia al centro commerciale. Quando gli arriva quel passaggio si ferma, sembra quasi guardare da un’altra parte. Lascia passare il pallone sotto alle gambe perché sente che alle sue spalle sta arrivando Eder. È l’unico autentico esterno della formazione del Brasile, ma Tele Santana lo utilizza come seconda punta, come finalizzatore. Ha un tiro potentissimo e una certa frenesia che lo porta a provarlo da tutte le posizioni. Quel giorno ha già calciato già diverse volte senza successo, ma stavolta, quando vede scorrere il pallone sotto le gambe di Falcao, fa un cosa diversa.

Col primo tocco non tira, se la alza con uno scavetto, e tira solo in un secondo momento col collo esterno. Il portiere dell’URSS rimane fermo impalato. Forse ha perso il tempo dell’intervento dopo il primo controllo di Eder, per quel suo tiro da beach-soccer.

Una samba risuona perpetua sullo sfondo della voce di Luciano do Valle, leggendario telecronista brasiliano, che grida “GOOOOOOOOOL DU BRASIL”. Irrompe un suono futuristico, una specie di radio che cerca la frequenza danzando tra le onde, e una voce distante, da autotune, dice soltanto “Brasil”. L’esibizione del Brasile di Tele Santana era cominciata.

Nella seconda partita la Scozia passa subito in vantaggio, ma il Brasile gioca ormai un calcio rarefatto, estraneo alle contingenze. In quella partita rientra Cerezo e Tele Santana insegue l’utopia di inserirlo senza togliere nessun centrocampista tecnico, rinunciando a giocatori più d’equilibrio come Batista o Isidoro. Il quadrato di centrocampo Socrates-Falcao-Cerezo-Zico è una coincidenza storica irripetibile. Giocano a uno o due tocchi, ciascuno con carisma e qualità tecnica sublimi. Cerezo, coi baffi e i calzettoni così bassi che sembravano impellicciare la scarpa; Socrates, che nelle sue corse a testa alta emana una natura monumentale; Falcao, giovane e vecchio al tempo stesso, senza tempo; Zico, il più elettrico, forse anche il più dotato, il "Pelè Bianco".

Sotto 1-0 Eder dice ai compagni “toca a bola, toca a bola”, come se il pallone, strofinato come un oggetto magico, contenesse in sé le risposte a tutti i problemi. In effetti Zico segna su punizione il gol del pareggio. Dentro quella squadra di stelle, Zico è la più luminosa. Socrates, il capitano, lo elegge leader tecnico anche davanti ai microfoni.

Nel secondo tempo il quadrato magico di centrocampo inizia a ruotare sul lato destro. I giocatori si associano in modo fluido, creano relazioni attraverso la loro tecnica in grado di manipolare campo e corpi avversari. Come un organismo intelligente, il Brasile si è mosso dal lato che sembrava più fruttuoso per far proliferare la propria tecnica. «Era raro vedere i giocatori toccare molto il pallone», si giocava sempre a uno o a due tocchi» dice Cerezo. Lanci d’esterno, sponde di petto, sombreri, rovesciate. Certe idee del Brasile sono veramente troppo articolate: il calcio sembra un’arte dalla complessità inarrivabile. Il modo in cui il quadrato di centrocampisti si passa la palla a volte somiglia ai cerchi che si formano sulle spiagge in cui non si deve mai far cadere il pallone. Zico dà una definizione suggestiva di cos’è la futebole arte: «Fare ciò che i tifosi e gli avversari non si aspettano», diventare quindi “maestri dell’inatteso”, che è come Borg definìva McEnroe.

È una squadra ultra-offensiva, in cui i terzini si alzano come ali e si finisce ad attaccare in otto, con solo i due centrali a baluardo della porta. È un gioco impossibile che trova la sua realizzazione solo attraverso la mostruosa qualità di tocco e alla sensibilità dei suoi interpreti. Il controllo sulle partite è puramente tecnico e assume la forma ipnotica del palleggio con cui le formazioni avversarie vengono costantemente disordinate mentre il Brasile trova un ordine sempre fluido e miracoloso. Socrates descrive il gioco di quella squadra come “un caos organizzato”. Secondo Tele Santana: «L’individualità può splendere solo se il collettivo funziona. Se il collettivo non funziona allora l’individualità non potrà risolvere nulla». Vi suona familiare? Quella squadra durante il torneo viene paragonata all’Olanda del ’74, Santana scansa il paragone con sdegno: «I miei giocatori sono molto più dotati tecnicamente» precisa il ct.

Il terzo gol lo segna Eder, figlio di un clown, faccia da belloccio, e lo fa con un sontuoso pallonetto sopra la testa del portiere scozzese. Il quarto Falcao lo segna con un diagonale di destro da fuori, dopo un’azione piena di volte e ricami.

Dopo quella partita il capitano Socrates è in estasi. Non che il Mondiale lo stia divertendo. Per lui rappresentava il sogno di una vita, ma non solo perché poteva rappresentare il Brasile, la immaginava come un’occasione per entrare in contatto con persone da tutto il mondo, visitare la Spagna, conoscere artisti, guardare mostre. Alla fine invece se ne è stato in ritiro ai margini della città insieme al resto della squadra, tutto mogio e imbevuto di saudade. Sul suo diario scrive, laconico, «Voglio tornare a casa». Finita la sfida con la Scozia è sorteggiato per il test anti-doping e trova un intero frigo di bevande alcoliche a sua disposizione per facilitargli il compito. Beve tutto quello che trova ed esce dallo stadio in piena notte, molto felice.

La Nuova Zelanda alla terza partita ha tutta l’aria della vittima sacrificale, e così è. Più o meno alla mezz’ora Zico segna in rovesciata. Quel Brasile non sa segnare gol banali. Ancora oggi gli appassionati del tempo possono ricordarli più o meno tutti, opere di una grande mostra collettiva che ha cambiato la sensibilità comune sul bello. Il terzo gol di Falcao nasce da una combinazione con Socrates e Zico che ribalta l’azione dalla difesa all’attacco con facilità ridicola. «C’erano dei momenti in cui mi fermavo in campo per ammirare quanto era bello quello che stava succedendo» ricorda Eder.

Finisce 4-0 e segna persino Serginho. Non sembrano esserci limiti per quel Brasile, che arriva favorito al secondo gironcino con Argentina e Italia. La sfida iniziale contro l’Argentina è decisiva e sembra uno spareggio. È quella la partita partita in cui il Brasile raggiunge l’apice della propria forza, l’equilibrio ideale tra le velleità artistiche ed efficacia. La Seleçao aveva guardato la sfida tra Argentina e Italia, finita 2-1 per la squadra di Bearzot. È preparata a un match fisico, sa che gli argentini l’avrebbero messa anche sul piano dell’intimidazione. L’Argentina, a dire il vero, prende il comando del gioco nei primi venti minuti, guidata da Maradona. A vent’anni era appena passato al Barcellona, era al culmine delle proprie possibilità fisiche ma non ancora carismatiche. Così si lascia innervosire da qualche contrasto duro. E alla prima occasione il Brasile segna.

Eder calcia da trentacinque metri con la tecnica poi resa celebre da Roberto Carlos in un'epoca più televisiva. È un tiro violentissimo e dall'effetto fumettistico, che colpisce la parte inferiore della traversa e torna in campo, dove Zico ribadisce in rete. L’Argentina a quel punto perde il controllo: ha bisogno di segnare due gol e il Brasile comincia a giocare al ritmo del suo centrocampo aristocratico. Vedere quella squadra all’opera con gli occhi di oggi fa impressione perché la tecnica è l’archè di tutto. Non esiste nessuna sovrastruttura, nessuna griglia dentro cui deve muoversi: è la tecnica stessa, l’associazione spontanea fra i giocatori e le loro relazioni, a creare una struttura inedita di volta in volta, assente di punti fissi. Lo spazio in campo si addensa e si apre a seconda di come l’organismo collettivo del Brasile si gonfia o si sgonfia, a seconda di dove va la palla, di dove si muovono i corpi.

Gilles Deleuze e Felix Guattari parlano di rizoma per descrivere un modello che non segue linee di subordinazione o di base, ma dove ogni elemento di una catena può influenzare l’altro. Il suo funzionamento è miope e tattile, la direzione può essere caotica e disordinata perché generata dalle connessioni fra gli elementi che, di volta in volta, si condizionano reciprocamente. Una certa musica jazz è una buona definizione di rizoma, e anche il Brasile dell’82 è una buona definizione di rizoma.

Nel primo tempo c’è un’azione non particolarmente celebre perché non porta a nulla, ma è un’azione che solo quel Brasile poteva fare: una triangolazione di testa al limite dell’area tra Falcao e Socrates. Quando Falcao riceve la sponda di ritorno avrebbe teoricamente il tempo di controllare a tirare con calma, ma quel Brasile segue un flow non sempre efficace, così prova una complicata conclusione al volo di sinistro che finisce alta. Il 2-1 è un altro gol magnifico con Falcao che serve un cross delicatissimo per Serginho. «In quel Mondiale provava a essere al posto giusto al momento giusto, ma poi i suoi tiri non andavano bene, per un motivo per un altro» ricorda Zico. In quella partita, invece, persino i suoi tiri centrano il bersaglio.

Dopo aver segnato il 3-1 con un leggero tocco fra le gambe del portiere, il terzino (per modo di dire) Junior balla la samba sotto al settore della torcida brasiliana, sente suonare la samba e si mette a ballare. Per qualcuno si è preso poco sportivamente gioco della disgrazia argentina. L'albiceleste, una volta capito che tutto è perduto, inizia la caccia all’uomo. Zico viene quasi gambizzato da un intervento assassino e deve uscire portato a spalle. Se forse non è vero che il calcio dell’epoca era più fisico, visto che i contatti erano più sporadici di oggi, è vero che il grado di violenza di certi interventi poteva raggiungere vette di follia. Maradona poco dopo viene espulso per una pedata rifilata allo stomaco di Batista, subentrato a Zico. Il trionfo del Brasile, insomma, è estetico e morale.

La tragedia del Sarriá

A Tele Santana viene chiesto se teme l’Italia. Il ct è disincantato, dice che il campionato italiano ha un gioco antiquato, incapace di aggiornarsi. Solo la Roma, dice, gioca bene, è una squadra moderna, ma solo perché ci gioca Falcao. Prima della partita Falcao va da Bruno Conti, suo compagno alla Roma, e quello gli dice che gli italiani non pensano di poter vincere. Hanno visto il Brasile giocare e insomma, quale persona sana di mente pensa di poter battere quella squadra?

Si aveva la sensazione di trovarsi di fronte una formazione leggendaria. In Italia, sui giornali, vengono chiamati “i marziani”. A posteriori quella di Conti sembra la suprema esibizione della strategia retorica della lacrima all’italiana, in cui ci si mostra più deboli di quanto non si sia per abbassare le difese dell’avversario, ma anche per girare il karma dalla propria parte. Di fronte al Dio maligno del calcio mai mostrarsi presuntuosi, sii umile e verrai ripagato. Falcao torna in gruppo e dice quello che gli altri già sanno, e cioè che il Brasile è superiore all’Italia. Certo, gli sarebbe bastato il pareggio, ma come poteva quella Seleçao, con tutto quel talento, ridursi a giocare per il pareggio?

L’epica italiana di quel Mondiale la conosciamo. La squadra arriva in Spagna nella sfiducia generale, e soprattutto con grandi polemiche attorno alla convocazione di Paolo Rossi, rientrato dopo la squalifica per il calcioscommesse e apparso appannato nelle prime partite. «Non ero in forma, anzi ero un fantasma», dirà Rossi. L’opinione pubblica chiede la convocazione del capocannoniere Pruzzo. Gli Azzurri giocano un primo girone impacciato, con tre pareggi. La squadra sui giornali è massacrata, e qualcuno sobilla di una presunta relazione tra Rossi e Cabrini, che poi provoca il silenzio stampa. In mezzo alle polemiche, contro tutto e tutti, come sempre l’Italia trova la propria identità inscalfibile. La vittoria contro l’Argentina carica di una fiducia nuova il gruppo, che può affrontare la partita col Brasile sfavorita e spensierata.

Il Sarriá contiene 44 mila persone ma quel giorno scoppia di gente. L’incrocio cromatico di Italia e Brasile, in mezzo alla luce mediterranea di Barcellona, assume una sua particolare rarefazione. Riguardandola con gli occhi di oggi, con tutti i ricordi e le storie ascoltate, le immagini sono circondate dall’epica e dall’estetica della partita perfetta, definitiva.

L’Italia non solo non ha nulla da perdere, ma il Brasile le concede il contesto tattico ideale. Quella di Bearzot è una squadra a proprio agio a stare seduta comoda nel suo blocco basso per ripartire in contropiede. Il voto è quello, eterno, al Santo Catenaccio. Riguardandola, in realtà, l'Italia ha giocato una partita reattiva, sì, ma non così disperata, come l'abbiamo sempre raccontata forse per comodità narrativa. Per i brasiliani è chiaro che sia una guerra ideologica, ma lo è anche per molti italiani, e per Gianni Brera in particolare, che da anni professa la necessità antropologica, per il popolo italiano, di giocare con uno stile difensivo. L’unico adatto a un popolo esile e denutrito. Brera fa voto di partecipare alla processione dei Battenti al suo paese, San Zenone Po, in caso di vittoria.

L’Italia sarebbe andata in difficoltà, forse, contro un Brasile più accorto e prudente. Nello spogliatoio la Seleçao aveva vissuto una breve discussione: bisognava adattare il proprio gioco alle esigenze della partita? La squadra aveva tagliato corto: se si mira all’utopia non ci si può mica abbassare alle contingenze.

Spesso si dice che l’anima del calcio all’Italiana risieda nella difesa e contropiede, ma questo è solo la manifestazione più visibile del vero spirito italiano al gioco, come lo sono i valori della praticità e del cinismo. È un disincanto inevitabile, per l’idea nichilista che gli italiani hanno di questo sport. Per gli italiani il calcio è dominato dal caos, e l’ossessione al controllo è riservata alle variabili che effettivamente si possono controllare. La palla, di certo, non si può controllare, è l’elemento imprevedibile per eccellenza. Lo spazio, però, sì: quello vicino alla propria porta si può restringere all’estremo, fino a rendere molto complicato per gli avversari avvicinarsi e al pallone infilarsi in rete. Il calcio, insomma, è semplice: «primo, non prenderle», dice Bearzot ai microfoni prima di quella sfida. Dopodiché ci penseranno i giocatori più tecnici e forti a trovare il modo per segnare un gol.

Avesse segnato subito il Brasile, l’Italia forse non avrebbe avuto molte armi per pareggiare. Probabilmente si sarebbe sbilanciata, aprendo gli spazi ideali per la tecnica brasiliana. Invece è l’Italia a segnare per prima. Quello che si dice poco è che segna un grande gol, al termine di una grande azione. A dire il vero è una fase di partita in cui è l’Italia a controllare di più il possesso del pallone. Del resto è una squadra che schiera alcuni formidabili portatori di palla, come Bruno Conti e Antognoni. L’azione del gol parte proprio da Conti, che a destra semina il panico. Non è un’ala così esplosiva, gioca quasi passeggiando, ma è impossibile togliergli palla. Dribbla Eder con una sterzata improvvisa all’indietro, poi apre lezioso con l’esterno verso Cabrini. Quello fa un cross perfetto, verso Rossi che si è smarcato leggermente ai lati di Luizinho. Rossi segna con un appoggio delicato di testa. Valdir Peres, il portiere, ha poi dichiarato che temeva che Paolo Rossi potesse sbloccarsi proprio in quella partita. Rossi ricorda: «Quel gol al Brasile è stato fondamentale, forse il più importante di tutta la mia carriera. Eppure, nonostante io sentissi che segnare mi mancava, ero tranquillo. Dopo quel gol, però, sono diventato un altro calciatore».

Il Brasile ha l’occasione per pareggiare pochi minuti dopo. È quasi dolorosa da guardare, la sicurezza con cui Serginho, appena dentro l’area di rigore, strappa il pallone dai piedi di Zico per tirare lui. E poi tirare così male, con tutta quella sicurezza. È probabile che Serginho non fosse in realtà così scarso, ma aveva veramente un modo tragico di cadere nell’errore. In un articolo del Guardian è descritto così: «Un vandalo culturale: l’uomo che ha pisciato sulla Mona Lisa; l’uomo che ha aggiunto un beat ciccione sopra la quinta di Beethoven; l’uomo che ha reso Romeo e Giulietta una coppia di zotici di Sittingbourne».

Poco dopo però il Brasile pareggia davvero, con una giocata eccezionale di Zico. Socrates gli dà il pallone nel mezzo spazio di destra. Come sempre ha Gentile a molestarlo da dietro, come in tutta la partita. Lo avrebbe seguito anche al bagno. Zico ricorda la frustrazione di quella partita: non per Gentile, ma perché i compagni, vedendolo sempre marcato, non gli passavano la palla. «Mi muovevo mi muovevo ma non ricevevo mai il pallone. Non importa se ero marcato, avrei trovato il modo di liberarmene». In quell’occasione in effetti Zico sfrutta l’aggressività di Gentile e con una "Cruyff turn" se ne libera, nel frattempo Socrates si è inserito nello spazio lasciato libero dalla difesa italiana, Zico gli dà il pallone con l’esterno e il capitano segna, pur con un angolo stretto, con un tiro furbo sul primo palo. La palla tocca la riga di porta e alza una nuvoletta di gesso. Il vantaggio dell’Italia era durato appena 7 minuti.

Poco dopo arriva una notizia persino peggiore, perché Gentile viene ammonito. L’intervento fa quasi ridere per la sua brutalità. Zico si rialza con aria più che altro stupita, si può pensare di giocare così a calcio? Per Gentile quello è un fatto di sopravvivenza: se avesse lasciato girare Zico, sarebbe morto. Però adesso con quel giallo sulle spalle deve stare attento.

Mentre la torcida continua a rullare la samba, il Brasile comanda il pallone, e quindi la partita. I suoi centrocampisti giocano a uno o a due tocchi. È una squadra fatta di grandi individualità, che però giocano insieme con amore e vogliono trasmetterlo a chi li guarda. C’è un gusto per il bel gesto. Il filosofo Algirdas Greimas definiva il bel gesto un’affermazione dell’individuo di fronte alla collettività. Una teatralizzazione che ha una funzione di auto-rappresentazione. Imbevuti della morale e della narrazione della cultura del calcio brasiliano, i giocatori del Brasile la rimettono in scena un pallone alla volta.

Com’è stare dall’altra parte di questo spettacolo? Com’è giocare con la sensazione che la bellezza del gioco sia dominio esclusivo della squadra avversaria. Sentire i boati di meraviglia ai colpi di tacco di Falcao e Socrates, le mani che si spellano dagli applausi all’ennesimo dipinto barocco dei brasiliani? È più semplice riconoscere la violenza di una scivolata di Gentile, lo è meno riconoscerla nell’esibizione tecnica dei giocatori brasiliani. Com’è, in definitiva, sentirsi dalla parte dei cattivi?

L’Italia, quella Italia e tutte quelle che sono state e che saranno, si trova incredibilmente a proprio agio nell’attesa paziente e sofferta, nel calcolo, nella concentrazione militaresca della difesa. L’Italia aspetta, cerca di sbagliare il meno possibile, non perde la testa, e nel frattempo continua nella propria sottile divinazione dell’errore altrui. Questo arriva al 25’. Cerezo è sciatto in un appoggio orizzontale. Rossi lo capisce, ruba palla e batte Peres con un tiro forte dritto per dritto.

Sul 2-1 la sfida si esaspera, le due squadre finiscono per contrapporsi in modo sempre più esagerato. Il Brasile che continua il suo frustrante dominio; l’Italia che si difende, cerca di sporcare la partita, di spezzare i ritmi, di cambiare il contesto. Fulvio Collovati esce zoppicante, quasi buttato nella buchetta della panchina italiana, tormentato dal dolore. Al suo posto entra Giuseppe Bergomi che ha 18 anni ma ne dimostra 38. Gentile continua la sua martirizzazione di Zico, anche se in modo più clandestino e meno sfacciato dell’inizio. A fine primo tempo il brasiliano richiede un rigore, mentre mostra la sua maglia strappata da povero cristo. Per i brasiliani, una vergogna; per noi, un'altra foto per l'album dei ricordi, dove teniamo anche la testata a Materazzi e il fallo di Chiellini su Saka.

Come tutte le migliori versioni dell’Italia, anche quella ha un grande portiere. È stata una prestazione fenomenale del quarantenne Zoff, che all’ora di gioco esce sui piedi di Toninho Cerezo e poi urla contro tutta la squadra in una delle più poderose interpretazioni del topos portieri incazzati.

Comunque sarebbe disonesto raccontare la partita dell’Italia come puramente difensiva. Il Brasile controlla il pallone, è vero ma quale altra Nazionale avrebbe potuto contenderlo a quel centrocampo? Eppure il numero di occasioni per parte è piuttosto equilibrato. A metà secondo tempo Serginho ha un’altra occasione, ma Rossi ha una palla ancora più semplice sul suo destro per il 3-1 dopo una grande azione di Graziani. Rossi si concede il lusso di sbagliare.

Poi arriva il momento in cui segna Falcao, la partita va sul 2-2 e sulla carta il Brasile è passato. Ha gli stessi punti dell'Italia ma la differenza reti lo premia. Il pareggio è giusto in quella partita, e forse è giusto che il Brasile passi il turno. Segna Falcao, che dai venti metri finta di servire la sovrapposizione di Leandro. Oriali cade nella sua finta con tutte le scarpe, e col sinistro Falcao segna un altro gol da fuori area. Il mondo sembra assecondare un’idea di giustizia, premiare la bellezza e il coraggio di quel Brasile, ed è proprio quello il momento in cui l’Italia affina le armi.

È quello il momento in cui il Brasile cade nel dilemma morale. Il Brasile è esaltato, continua a gingare, a giocare con brio, spregiudicatezza, senza pensare al futuro. Insomma, non difende il pareggio come qualsiasi squadra europea avrebbe fatto. Del resto l’Italia barcolla, pare poter prendere gol a ogni azione, il Brasile ha in campo una quantità di talento fenomenale, non sarebbe stato stupido non provare a fare il terzo gol?

Questa è l’interpretazione che, a posteriori, abbiamo dato di quel momento della partita. In realtà Tele Santana fa anche un cambio per equilibrare la squadra, che sembra più che altro incerta sul da farsi. Sei minuti dopo il pareggio di Falcao Paolo Rossi segna il 3-2, con quel gol che è la manifestazione più sfacciata della sua astuzia, del suo istinto, o del patto che quel giorno ha stretto con Dio, col diavolo, o con chiunque governi il calcio. Paolo Rossi con le spalle strette, le gambe fini, gli occhi incendiati da qualcosa. Lo abbiamo intervistato prima della sua morte, e ci ha parlato dell’istinto in area di rigore come di un dono mistico: «Gli attaccanti fanno gol perché ce l’hanno dentro: chi fa gol, ad ogni categoria, ha delle caratteristiche speciali».

Dopo il 3-2 di Rossi c’è spazio per altra epica. Un gol annullato ad Antognoni per fuorigioco, un’elegante progressione di Scirea sulla fascia, Bruno Conti in area di rigore che blocca un tiro di Socrates, la parata di Zoff sul colpo di testa di Oscar, “la più importante parata della mia carriera”. Zoff che si rialza col pallone in una mano e con l’altra dice “no, non è entrata”, comandante capo dell’area di rigore. Dopo un rinvio liberatorio verso il cielo di Zoff l’arbitro fischia la fine, sventolano i tricolori, lo staff italiano entra in campo con le braccia alzate dentro i completi grigi. I brasiliani spariscono dalle telecamere.

Secondo Zico il Brasile non ha subito il gol, quel maledetto terzo gol, perché attaccava troppo. Del resto su quel calcio d’angolo c’erano undici brasiliani nell’area di rigore a difendere. Quindi? Quindi semplicemente è stata una forza trascendente. Zico dà un’interpretazione fatalista: «Non era il nostro giorno, non era il destino». Per Luizinho, invece, è stata la hybris. Uno dei peccati che il Dio del calcio sembra perdonare meno: «Abbiamo avuto due possibilità di mantenere il pareggio, e di passare il turno, e non le abbiamo sfruttate. Non c’è stata abbastanza umiltà».

L’Italia in quella partita recita un ruolo in cui, storicamente, sta molto comoda: quella della guastafeste. Come in casa degli olandesi nel 2000, come in casa dei tedeschi nel 2006, come nel tentato finale capolavoro di Zidane in finale, come a Wembley nel 2021 contro gli inglesi: se gli avversari si sentono troppo sicuri di vincere, se vogliono persino dare significati di grandezza eccessivi a quella vittoria, allora l’Italia è lì a riportare tutti a terra. La migliore a scarabocchiare la tela, se ce n’è bisogno, per ricordare a tutti la natura nichilista del calcio. Restare umili, sempre, e si verrà ricompensati.

L’autore siciliano Davide Enia ha dedicato un notevole spettacolo teatrale alla partita. La descrive come la massima espressione dell’italianità: «L’Italia ha ottimi contropiedisti, segno dell’italica saggezza nell’ottimizzare sempre le energie: con una sola manovra d’attacco, e stando sempre in difesa, si possono addirittura vincere le partite correndo praticamente niente». Secondo Brera l’Italia ha trovato la vittoria senza nemmeno cercarla. Nelle sue parole eterna il mito dell’Italia formica contro il Brasile cicala «Bastava ai brasiliani il pareggio per accedere alle semifinali: hanno dimenticato la difesa mandando anche i terzini a cercare la vittoria. Noi abbiamo fatto esattamente il contrario. Per giunta rifiorito Rossi sulla contorta e bassa siepe del nostro orto improvvisamente dilatato, e aperto ai miracoli. I pavoni brasiliani non si sono accorti di Rossi, non l'hanno degnato d'un guardo».

Insomma, gli italiani proiettano su quella partita valori e significati che vanno ben oltre il calcio, che hanno a che fare col modo con cui guardano a sé stessi, alla propria identità. Lo stesso fanno i brasiliani. La loro interpretazione diventa quella comune, e Italia-Brasile 3-2 passa alla storia come “La tragedia del Sarriá”. La squadra di Tele Santana atterra a Rio e in aeroporto c’è una folla ad aspettarla con trombe e tamburi. Nel paese del carnevale la tragedia può sempre ribaltarsi in festa. Il Brasile aveva perso, ma aveva mantenuto la supremazia estetica nel calcio. Anzi, non era forse la sconfitta un’ulteriore dimostrazione di purezza del proprio gioco?

Sappiamo come funzionano le storie: l’incompiutezza di quel Brasile ne ha rafforzato il mito romantico. Del resto era nella natura delle cose, forse, che la futebol arte soccombesse al futebol de resultados, ma il Brasile aveva ribadito la propria identità culturale. Aveva creato una Nazionale in cui rispecchiarsi, una Nazionale che ginga. «Chi cerca la vittoria è conformista» dice Socrates.

Eppure sarebbe assurdo essere felici di una sconfitta, che infatti viene definita come tragedia. Come poteva essere definito “Il miglior Brasile di sempre” (e sono in molti a sostenerlo) quello dell'82, se ha perso ai quarti di finale? C’è questo nucleo contraddittorio nel calcio brasiliano. La natura competitiva del calcio costringe di volta in volta il Brasile a negoziare fra l’arte e i risultati. Se sul calcio viene proiettata la propria identità nazionale, non si vuole certo che quella sia un’identità perdente. E infatti, nell’inaccettabilità di quella sconfitta, Zico definisce la sconfitta contro l’Italia «Il giorno in cui il calcio morì».

Da qui il perenne conflitto che attraversa la storia del calcio brasiliano, tra l’inevitabile influenza europea - con la sua razionalità, col suo metodo scientifico - e la necessità di preservare la propria specificità. Il giornalista Marcos Uchoa ricorda l’aspetto traumatico, forse inesprimibile, di quella sconfitta contro l’Italia: «Stavamo cominciando a uscire dalla dittatura militare, ma quel risultato, in una partita in cui la maglia di Zico fu strappata dai difensori, portava il messaggio che la cultura non è importante. Era un messaggio che la creatività può essere distrutta dalla forza».

I semi del Brasile dell'82

Allo stadio di Pasadena Dunga, con mascella e taglio da marines, si appresta ad alzare la quarta Coppa del Mondo. È il capitano del Brasile meno amato della storia, eppure un Brasile vincente. La squadra guidata da Parreira ha appena battuto l’Italia in una partita sfiancante, giocata a ritmi lentissimi, in cui non è successo praticamente nulla. Le due squadre si sono guardate, in attesa che una delle due si tradisse. In questo l’Italia, pur col profeta Sacchi in panchina, ha assecondato la propria seconda natura; per il Brasile, invece, era un fatto nuovo. Aveva giocato con due mediani a centrocampo: due veri mediani, Dunga e Mario Silva, mentre i gol erano dovere della coppia Romario-Bebeto. Per tornare a vincere, 24 anni dopo la futebol arte di Messico 70, c’era voluto un grande compromesso col pragmatismo.

Durante i Mondiali dell’82 Socrates aveva dichiarato che se il Brasile avesse alzato la Coppa del Mondo, l’avrebbe dovuto fare da squadra. Non l’avrebbe sollevata soltanto lui, da capitano, ma avrebbe lasciato che tutti la alzassero assieme all’unisono.

Dunga, mediano dalle origini italiane e tedesche, prende la Coppa del Mondo tra le mani e grida «Quattro volte campioni del Mondo, fanculo!». In Brasile si festeggia, ma non tutti sono felici. Paulo Cesar, campione del mondo nel ’70, dice: «La Seleçao che ha giocato nell’82 ha perso, ma chi se ne frega. Era una squadra fantastica. Nessuno parla della squadra che nel ’94 vinse i Mondiali. Non celebriamo quella vittoria. Era invece il segno dell'alto prezzo pagato fino a oggi per quello che è successo nell’82, almeno nei termini di qualità del calcio giochiamo. Dall’82 la bellezza del calcio è andata, finita».

Foto di Timothy A. Clary / AFP via Getty Images.

C’è il pensiero diffuso che dopo la sconfitta dell’82 il Brasile abbia perso la sua innocenza. Smette di vedere nel calcio un’affermazione della propria identità complessa: mulatta, sincretica, creativa, artistica, per inseguire invece i risultati. Sempre secondo Uchoa: «È stato quello il giorno [quello della sconfitta contro l’Italia] in cui abbiamo perso il ruolo di custodi della bellezza del calcio. Avevamo quattro grandi centrocampisti in campo, e non abbiamo mai più avuto grandi centrocampisti. Abbiamo cominciato ad aver paura della creatività. È stata la fine dell’epoca d’oro del Brasile».

Questa è una storia come un’altra. Un’altra auto-narrazione che una parte del Brasile ama fare su sé stesso, quello di una nazione reduce, che vive di ricordi, nostalgia, e luce riflessa. Una luce abbastanza nobile da portare altre due coppe del mondo, nel ’94 e nel 2002. Il Brasile ha prodotto altri grandi giocatori, alcuni autentici fenomeni generazionali, con uno stile di gioco profondamente brasiliano: Romario, Roberto Carlos, Ronaldo, Ronaldinho, Luis Fabiano, Neymar. Eppure per una parte della narrazione brasiliana la Nazionale dell’82 rimane un’altra cosa. Tutti questi campioni hanno dovuto giocare dentro squadre fondate sul compromesso pragmatico, a volte persino numerico: 6 giocatori che pensano a difendere e 4 (quando va bene) che pensano ad attaccare.

Il mito del Brasile dell’82 è invece quello di una squadra che domina il possesso come una squadra contemporanea, ma non lo fa attraverso la tattica bensì attraverso la tecnica. Una squadra non guidata dalla logica geometrica ma da una rizomatica, dall’improvvisazione jazz, dalle associazioni spontanee, dalla creatività. Un mito è tale anche perché emana dei significati che vanno al di là delle contingenze.

La storia della Nazionale dell’82 ci fa interrogare su quel territorio di confine esistente tra calcio giocato e calcio raccontato. Tra le idee e le pratiche. Se riconosciamo il potere generativo, modellizzante, delle storie, allora è facile riconoscere nella Nazionale dell’82 come il frutto di tutte le storie che la cultura brasiliana ha raccontato su sé stessa. A sua volta la storia di quella Nazionale, la sua bellezza tragica, continua a condizionare le squadre brasiliane successive. Proprio per la precisione con cui ha cristallizzato i discorsi e i sistemi di valori che il Brasile ha proiettato sul calcio.

Nel 2014 il Brasile ospita il suo secondo Mondiale, con l’idea di ricucire un altro immane trauma nazionale, il Maracanazo del 1950. È una Nazionale a cui i brasiliani sono particolarmente legati, perché brilla attorno alla stella di Neymar, che fino a un anno prima giocava in Brasile e che non era contaminato ancora dalla sobrietà del calcio europeo. Certo, il sogno sarebbe stato averlo in campo insieme a Ganso, per ripristinare l’associazione che per un breve momento di magia - nel 2010 - aveva fatto immaginare il Santos come una nuova grande squadra brasiliana. Il sogno di Ganso era già tramontato e il collasso che il Santos aveva vissuto in finale del Mondiale per Club contro il Barcellona di Guardiola era, però, un pessimo presagio. La fluidità associativa del calcio brasiliano non sembrava avere nessuna arma tattica per fronteggiare il gioco di posizione catalano-olandese - che in quel periodo aveva cominciato a contagiare l’Europa.

Il Brasile del 2014, guidato da Felipe Scolari, è una squadra tremendamente aggressiva, con e senza palla, e che ruota attorno alla mistica e ai deliri creativi di Neymar. L’infortunio subito contro la Colombia, per quella ginocchiata di Zuniga, priva il Brasile della sua anima. La squalifica di Thiago Silva toglie il pilastro difensivo su cui si regge la spregiudicatezza del Brasile. Tuttavia la Seleçao scende in campo piuttosto convinta di vincere, prima di venire maciullata dall’esattezza della costruzione dal basso della Germania, dalla fluidità delle rotazioni del centrocampo, e dal pressing sempre preciso organizzato da Low.

Jonathan Wilson sul suo La piramide rovesciata scrive che il giorno della sconfitta contro l’Italia dell’82 fu quello in cui finì l’ingenuità tattica del Brasile «Quello fu il giorno in cui il sistema vinse». Il giorno in cui si abbandonò l'idea di mettere solo i giocatori più talentuosi in campo, fiduciosi che saranno poi loro a trovare una soluzione. In un certo senso è vero, ma forse è stato il giorno del Mineirazo quello in cui il Brasile ha preso una nuova coscienza della propria inferiorità rispetto alla sofisticazione tattica europea. L’Italia aveva battuto il Brasile per furbizia, forse anche per favore divino, ma la Germania - una Nazionale tradizionale esempio di pragmatismo - gli ha palleggiato in faccia. Cioè ha trovato il modo di giocare meglio dei brasiliani col pallone tra i piedi.

TSimbolo del trionfo tedesco Thomas Muller, che visto attraverso un filtro brasiliano può essere tranquillamente considerato l’anticristo. Un numero 10 che ha spogliato la creatività di ogni orpello estetico: brutto, sgraziato, apparentemente inabile, eppure efficacissimo, capace di un genio quasi del tutto intangibile. Artefice seriale di gol, assist e gioco offensivo, che sono però solo la conseguenza ovvia (ottusa) dell’esattezza delle sue letture.

Il Mineirazo è il collasso del calcio brasiliano. Il popolo non sa come reagire; se molti si spezzano in un pianto disperato, altri, come si racconta in questo resoconto, trasformano la sconfitta in un altro carnevale: accompagnano i passaggi tedeschi con degli olè, esultano al 7-1, sparano addirittura i fuochi d’artificio. Del resto che cos’è, se non il carnevale, il ribaltamento dell’ordinario, la Germania che palleggia in faccia al Brasile?

In quel momento la distanza fra il calcio europeo e quello brasiliano sembra incolmabile. Mentre il Brasile soccombeva alla Germania, Tite stava vivendo il suo anno sabbatico, in Europa, dove studiava le migliori squadre del continente. Nel 2016 viene chiamato ad allenare la Seleçao e col tempo diventa chiaro il progetto di integrare i concetti del gioco di posizione in Nazionale. Nel calcio europeo sono concetti ormai egemonici: alta intensità, occupazione razionale degli spazi, la massima di Juanma Lillo: «le posizioni dipendono da dove si trova il pallone e non sono le posizioni che vanno al pallone, è il pallone che va alle posizioni». Il progetto è di dotare il Brasile di una struttura, mettersi tatticamente alla pari con le squadre europee, dopodiché toccherà alla superiorità dei talenti fare la differenza.

Secondo la frangia più intransigente del pubblico brasiliano, è l’ennesima colonizzazione europea attraverso il calcio - come sempre terreno di negoziazione dell’identità nazionale per il Brasile. Esistono oggi, soprattutto su twitter, critici della Nazionale di Tite che ne contestano l’uso degli strumenti del gioco di posizione. Ne ha parlato indirettamente il ct nella sua prima conferenza in Qatar. La polemica è quella di sempre: la logica, la razionalità, il metodo scientifico europeo castrerebbero la naturale creatività dei giocatori brasiliani.

Se volete familiarizzare con questa setta esoterica forse questo articolo è il compendio estremo del loro pensiero (curiosamente scritto da un’analista scozzese). L’idea è che il gioco di posizione sia espressione della Macchina - cioè del capitalismo, della tecnocrazia, della deriva illuministica più cupa. Nell’articolo viene pubblicata l’immagine dall’alto di un campo usato da Guardiola per l’allenamento, con le zone divise da righe tracciate sull’erba. Il campo, quindi, ridotto a una griglia, a una gabbia, dentro cui il talento viene represso da un meccanismo fordista. La struttura diventa una specie di divinità intangibile a cui giocatori spersonalizzati fanno riferimento per sapere come comportarsi. Nemmeno l'allenatore sa davvero cosa dire, parla del sistema come di un Dio lontano.

Si può invece giocare un calcio senza struttura, fondato sulle relazioni fra i giocatori in campo. Il modello di riferimento, naturalmente, è il Brasile dell’82, a dimostrazione dell’eco infinita di quella Seleçao. Una squadra che nessuno ha saputo imitare in campo; nel 2005 Vanderlei Luxemburgo - comunista, amico di Lula - provò a replicare il quadrato di centrocampo al Real Madrid, con esiti disastrosi. Eppure di questi tempi c’è un altro esempio ed è quello di Fernando Diniz, un allenatore dalla carriera fin qui tormentata ma che sembra aver trovato una ricetta magica alla Fluminense. La sua squadra è oggi di culto fra chi segue il calcio sudamericano, e viene indicata come pura espressione dell’identità calcistica brasiliana.

Il progetto di Diniz è di creare un’identità collettiva che prescinde dalla struttura ma che nasce dall’associazione spontanea fra i giocatori, aggiustandosi, per usare un termine che descrivere molto della cultura del calcio brasiliana. Senza predeterminazione si lascerà ai giocatori la libertà necessaria a trovare, per approssimazione, in modo tattile e locale, il modo per associarsi. È un sistema incredibilmente fluido, in cui si creano spesso delle nuvole disordinate di giocatori attorno al pallone che tentano di creare superiorità numerica. L’improvvisazione, la tecnica e l’intelligenza dei calciatori è libera di esprimersi. Non sorprende che in questa Fluminense sia rifiorito il talento di un artista come Paulo Henrique Ganso, 10 a tutto campo della squadra. È chiaro il perché un sistema simile sia stato associato a quello di Tele Santana.

La Fluminense di Diniz, considerato erede di Tele Santana, cerca di disinnescare il pressing del Red Bull Bragantino. What a time to be alive.

Diniz ha scansato fermamente qualsiasi paragone con Guardiola: «Il modo di fare possesso è praticamente opposto» dice. Juca Kfouri, leggendario giornalista brasiliano, grande amico di Socrates, dice che Diniz «ha l’arroganza per morire con le proprie idee» e descrive lo stile spregiudicato della Fluminense: «Si gioca tutti in attacco. I difensori avanzano come fossero centrocampisti, formano nugoli di giocatori che insistono in reti di passaggi che soffocano gli avversari e mettono in apprensione i tifosi. Basta un errore per concedere gol. Questa è la squadra di Diniz, prendere o lasciare». La Fluminense ha chiuso il Brasilerao al terzo posto, miglior attacco e decima migliore difesa.

Tite lascerà la Seleçao alla fine di questo Mondiale e il nome di Diniz comincia a circolare tra i suoi possibili sostituti. Un altro nome evocato nelle scorse settimane è stato, guarda caso, quello di Pep Guardiola. Qualche brasiliano su twitter starà mettendo mano alla pistola. La lotta per la successione a Tite sarà dunque, per l’ennesima volta, una questione ideologica sull’identità del calcio brasiliano.

Nel frattempo il Brasile gioca in Qatar, costruisce col 2-3-5 come il gioco di posizione insegna, ma i suoi talenti non sembrano faticare a scrollarsi di dosso le catene del gioco di posizione. Ci sono almeno due caselle impazzite del sistema: Neymar che gioca da 10 libero di seguire i propri istinti come preferisce. Tite ha definito “asini” gli allenatori che lo fanno giocare sull’esterno, «ne viene repressa la creatività». Poi c’è Paquetà, che nominalmente è mediano ma si muove a tutto campo per associarsi con i compagni esaltando in ogni tocco il suo gusto del bello. Un centrocampista che porta alto lo spirito dell’82. Dopo i gol esultano ballando, attirando l'antipatia del mondo.

La discussione degli ultimi mesi sul gioco del Brasile ha il beneficio di mettere in questione il rapporto tra libertà individuale e regole di sistema nel gioco di posizione. O anche sull'equilibrio più generale tra allenatore e giocatori (un tema sollevato anche da Juanma Lillo in questi giorni) D’altra parte sembra una forzatura ideologica descrivere - sempre - il gioco di posizione come una gabbia che reprime la creatività del singolo; come appare forzato sostenere che il Brasile di Tite limiti la libertà dei singoli. Sembra l’ennesima discussione in cui la narrazione del calcio brasiliano, e quindi del Brasile dell’82, tornano a infestare il presente come fantasmi del tempo passato.

Con tono malinconico Zico dice di essere del tutto pacificato con l’idea di non aver vinto la Coppa del Mondo. In fondo - dice - nemmeno l’Ungheria del ’54 e l’Olanda del ’74 hanno vinto il Mondiale, ma hanno rivoluzionato per sempre il gioco. L’impressione, però, è che a differenza di quelle squadre, il Brasile dell’82 non abbia lasciato nessuna lezione in grado di influenzare il calcio di oggi. Il suo mito nasce e muore in sé, gli artisti si sono portati nella tomba la loro arte. L’infruttuosità di quella Nazionale è, anzi, forse ciò che la rende ancora più iconica. Chissà se invece qualcuno - Diniz, o altri - non raccoglierà finalmente la sfida di riportare in vita una delle idee di gioco più ambiziose e irripetibili della storia del calcio.

In ogni caso, anche nello scenario spoglio del Qatar, nelle finte di Neymar e Vinicius Jr, nei tacchi di Paquetà, nei palleggi di testa di Richarlison, lo spirito eterno del calcio brasiliano sembra tutt’altro che morto.

Bibliografia parziale:

Per scrivere questo articolo mi sono appoggiato ad alcuni testi più che ad altri.

Per l'idea di negoziazione identitaria del Brasile attraverso il calcio rimando a Paolo Demuru, Essere in gioco.

Per la storia tattica del Brasile dell'82 Jonathan Wilson, La piramide rovesciata.

Per gli aneddoti su Socrates la biografia di Andrew Downey, Doctor Socrates: footballer, philopher, legend.

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