
Socrates siede nel salone di casa sua. È stato un calciatore, un filosofo, un comunista. In quel momento è intervistato in qualità di tutte e tre le cose, ma soprattutto come uno degli ultimi custodi dello spirito del calcio brasiliano, di quello a cui il mondo si riferisce come Futebol Arte. Con la voce irrochita dal fumo, accompagnato da mani grandi e benedicenti, spiega: «Vedo il calcio come una forma d’arte, mentre altre persone lo vedono come una competizione. È come avere vari pittori nello stesso studio che provano a fare le loro cose. Il lato artistico è ciò che attrae i tifosi. Non è la vittoria che conta, ciò che conta è l’arte. Chi cerca la vittoria cerca il conformismo».
Anche quando parla di calcio Socrates lo fa con la sicurezza del politico, del militante, di chi pensa di essere dalla parte giusta della storia. Sono passati cinquant’anni, oggi, ma nessuno dei brasiliani che erano in campo quel giorno ha il minimo dubbio: erano la migliore squadra del mondo, interpretavano il calcio come nessun altro e avrebbero dovuto vincere. Nessuno, insomma, ritiene che quella sconfitta, il 5 luglio del 1982, non sia stata un torto, un’altra manifestazione dell’ingiustizia del mondo.
Il momento in cui tutto è precipitato è arrivato al minuto numero 74 della terza partita del secondo girone del Mondiale, Brasile-Italia.

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