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Il Brasile sta facendo pace col calcio?
03 lug 2019
La squadra di Tite ha battuto l'Argentina e sfatato alcuni tabù.
(articolo)
8 min
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Sfatare i tabù

La città di Belo Horizonte è stata fondata agli albori del Ventesimo secolo, e battezzata con un nome evocativo: dalle propaggini delle sue alture si può osservare l’estensione delle sierras dello stato di Minas Gerais, fin dove arriva l’occhio.

Le Nazionali di Argentina e Brasile, che nella notte si sono affrontate per la prima semifinale di Copa América nell’Estádio Governador Magalhães Pinto, nella vulgata semplicemente Mineirão, hanno una storia calcistica recente costellata di relazioni con la città, e con quello stadio, suggestive: l’Albiceleste l’aveva scelta come propria sede nel Mundial 2014, in cui si era spinta fino alla finale poi persa con la Germania: ricordi agrodolci, come tutti quelli della sua storia recente. Per il Brasile, invece, rappresentava una delle tante tappe del processo di smantellamento dei tabù di cui sembra essere costituita l’essenza spirituale di questa edizione della Copa América: non servono molte parole per ricordare cosa sia successo qui cinque anni fa, ne bastano due, e due cifre. Germania, Mineirazo. 7. 1.

La miglior Argentina degli ultimi tempi non basta

Entrambi, insomma, avevano l’imperativo morale di ribaltare la propria percezione del genius loci di Belo Horizonte, e rendere tautologicamente bello il proprio orizzonte. Il che equivaleva a dire, contingentemente, raggiungere la finale sbarazzandosi del rivale storico.

Foto di Clive Brunskill / Getty Images.

Scaloni, per la gara più importante della sua carriera, si è affidato alla coerenza. Per la prima volta dopo quaranta partite l’Albiceleste è scesa in campo con la stessa formazione della partita precedente, quella vinta in maniera abbastanza convincente con il Venezuela, vale a dire con Foyth laterale basso, un centrocampo a tre con Paredes perno centrale e De Paul e Acuña interni, Messi alle spalle di Lautaro e Agüero. Una scelta che da una parte fissava l’equilibrio raggiunto, e dall’altra assumeva i contorni di un lascito morale pacificatore, in quella che sarebbe potuta essere la sua ultima partita alla guida della Selección.

Il Brasile, invece, monolite di sicurezze fin dalla prima partita di questa Copa, ha confermato lo schieramento abituale, il 4-2-3-1, introducendo il rientrante Casemiro per Allan e Alex Sandro per Felipe Luis. Uno degli uomini più in forma della Seleçao, Everton, si presentava sul versante di Foyth, sul lato cioè più debole dell’avversario, mentre a Firmino e Gabriel Jesus veniva lasciata la totale libertà di scambiarsi le posizioni al centro e sul lato destro dell’attacco.

Il piano gara di Tite è stato chiaro fin dall’inizio, e col senno di poi vincente: pressione altissima sui portatori di palla avversari, con l’intento di soffocare ogni tentativo di costruzione di manovra soprattutto quando il pallone era tra i piedi di Paredes, o meglio ancora tra quello dei centrali difensivi, il vero minus dell’Argentina in questa Copa América.

Sono passati solo 10 secondi quando Paredes riceve il suo primo pallone e deve difendersi dall’aggressione a morsa di Coutinho e Arthur oltre che di Firmino e Gabriel Jesus.

La strategia brasiliana ha risvegliato una reattività inedita nell’Argentina degli ultimi anni: dopo il gol del vantaggio di Gabriel Jesus, ispirato da una grande giocata di Dani Alves e concluso sullo sfondo di un arazzo ormai stereotipico con la difesa Albiceleste disorientata e fuori posizione, gli argentini hanno probabilmente messo in campo i migliori sessanta minuti della gestione Scaloni + Sampaoli, fatti di ruvidezza, decisione, convinzione, giocate a un tocco e un Messi finalmente à la Messi.

Oltre ad aver ispirato Agüero per la conclusione di testa finita sulla traversa, e aver colpito un palo al termine di una bella azione collettiva, Messi ha sparso sulla partita - una volta tanto - tutta la leadership che ci si aspetta da lui, e di cui spesso gli viene rimproverata l’assenza. Una presenza in campo ecumenica, quattro passaggi chiave (il migliore della partita), sette dribbling su otto riusciti (anche in questa statistica il migliore per distacco), ma soprattutto uno spirito infervorato - più volte ha approcciato l’arbitro, l’ecuadoriano Zambrano, apparso più nervoso dei giocatori in campo, con una verve insolita - un coinvolgimento emotivo per certi versi inusuale e una fisicità terrena, tridimensionale, che sarebbe potuta bastare da sola per ribaltare gli esiti senza farci storcere il naso, e che invece non è stata sufficiente all’Albiceleste.

Il gol del 2-0, giunto a una ventina di minuti dalla fine, non ha confermato che due postulati: e cioè che non c’è stato niente di più devastante, in questa Copa América, delle transizioni offensive di Gabriel Jesus, davvero capace di spaccare le partite, da una parte; e che non c’è stato niente di più atroce, in questa Copa América, delle transizioni difensive di Otamendi e Pezzella, dall’altra.

La supremazia mentale e tecnica di Dani Alves

Messi e Dani Alves erano gli unici reduci dell’ultimo scontro diretto tra Argentina e Brasile in Copa América, la finale del 2007.

Il brasiliano, dodici anni fa, era subentrato a Elano poco dopo la metà del primo tempo e aveva anche trovato il tempo di sigillare la vittoria della Seleçao segnando il gol del 3-0 con un affondo in pieno stile Dani Alves: la lievitazione della sua influenza nella stagione successiva al Siviglia l’avrebbe poi portato, un anno più tardi, a vestire la maglia blaugrana e a ritrovarsi Messi come compagno.

L’impatto che hanno avuto la sua esperienza, e la sua supremazia tecnica, sulla partita di ieri è stato prodigioso, ma non nel senso di eccezionale. Se sulla caratura tecnica di Dani Alves si possono riporre pochi dubbi, e in qualche modo ci possiamo dire abituati, non allo stesso modo ci si poteva aspettare, a trentasei anni, una prestazione così lucida, e al tempo stesso scintillante; razionale, e a un tempo ricca, in una partita così campale.

Se c’è stato un Momento Dani Alves è stato questo.

Siamo quasi al ventesimo minuto, e l’Argentina barcolla. Quella che sta andando in scena è una delle migliori versioni del futebol bailado brasiliano, che il fatto di svolgersi all’interno di una milonga in disarmo come la difesa dell’Argentina non sminuisce.

Coutinho dribbla con un tunnel Paredes ma viene respinto da Otamendi. Il pallone arriva nella zona di Dani Alves che vince un contrasto fisico con Lautaro. Ora tenetevi forte: Dani Alves controlla il pallone vacante con un movimento armonioso del suo corpo nello spazio, prima di farlo sfilare con un sombrero sulla testa di Acuña; poi lo addomestica col petto e lo controlla con una peinada appena sfiorata, una carezza leggiadra. Evita Paredes che torna su di lui in scivolata come se quella scena appartenesse a un passato che conosce a memoria, e dopo due tocchi rapidi, sinistro destro, apre con un no look per Firmino che accorre sulla fascia. L’assist e il tap-in successivo di Gabriel Jesus, fin troppo semplici, non sono che l’ultima rifinitura dei piatti ormai sul pass, pronti a uscire in sala.

Dani Alves, ieri notte, però, è andato oltre la fascinazione delle singole giocate, mai fini a se stessi, sempre funzionali (nel secondo tempo la serpentina con cui se ne va in mezzo al centrocampo argentino è altrettanto significativa del blocco a Messi, e i continui controlli orientati, delicati come se indossasse un guanto da pelota basca al posto del piede, sono sempre stati il preludio all’inizio di un azione ragionata): ha realizzato circa settanta passaggi con un’ottima percentuale di precisione (89%), recuperato 12 palloni, effettuato in maniera perfetta tutti i suoi tackle (3) e dribbling (5). Ma soprattutto ha asfaltato l’intera fascia destra, portando Tagliafico indietro nel tempo (il suo esordio, avvenuto nella gestione Sampaoli proprio contro il Brasile, in Australia, ne aveva messo in luce tutte le debolezze difensive) e magnificandolo, ancora oggi, alla sua età, come uno dei migliori carrilleros in circolazione.

E adesso?

In una sua famosa canzone, il cantautore uruguayano Jorge Drexler dice «No me malinterpreten, no estoy quejándome / Soy jardinero de mis dilemas», che significa «Non fraintendetemi, non mi sto lamentando; sono il giardiniere dei miei dilemmi», che sembra una frase che potrebbe tranquillamente aver pronunciato Lionel Scaloni alla conferenza stampa post-partita.

Foto di Gustavo Ortiz / Getty Images.

Nel complicarsi la vita l’Argentina ha pochi rivali in Sudamerica, tanto da un punto di vista tecnico quanto organizzativo: cosa dovrebbero fare, ora, i vertici federali? Sollevare l’allenatore per essersi dimostrato non proprio all’altezza del compito? Ma qual era, il compito? Vincere? Come dovremmo valutare, in realtà, la rispondenza dell’Albiceleste alle aspettative? Dopotutto, al di là di un gioco non proprio entusiasmante, la sconfitta è arrivata soltanto in semifinale, contro la favorita assoluta - nonché padrone di casa - e giocando una partita per certi versi entusiasmante, nuova soprattutto nel modo in cui è stata affrontata. Ma soprattutto Scaloni sembra aver dato il via al processo di creazione di quello che sembra a tutti gli effetti un gruppo. L’anno prossimo ci sarà ancora una Copa, stavolta da giocare in casa. È davvero il caso di cambiare ora?

L’Amarelha, invece, arriva alla finale del Maracanã più che mai con i favori del pronostico. La sfidante uscirà dalla sfida di stanotte, il derby del Pacifico tra Perù e Cile, e nel caso in cui fosse la Roja metterebbe sul cammino della Seleçao l’ennesimo appuntamento per difendersi da una rivincita del passato, un tabù da sfatare, una macchia da togliersi, dopo il Condorazo (cioè la partita al Maracanã in cui il portiere cileno Rojas simulò l’infortunio a causa di un razzo nel tentativo di far squalificare il Brasile dalle qualificazioni per Italia ‘90) e gli Ottavi di Brasile 2014, in cui i sogni di gloria cileni finirono contro la traversa di Pinilla, e i guanti di Julio César ai rigori.

Per Tite, dopotutto, non sembra esistere destino diverso, in questa Copa América brasiliana: riallineare gli astri, pacificando in qualche modo il rapporto, troppo incrinato e tentennante nel passato recente, tra un calcio, il suo popolo e la fortuna.

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