Di figli che si allontanano dalle orme dei padri se ne trovano in ogni angolo del mondo, ma c’è anche chi prova a solcarle, per un afflato misterioso, dovuto al pacchetto genetico o forse soltanto alla voglia di dimostrare qualcosa.
Chissà cosa deve aver pensato, provato, sentito nel profondo del proprio cuore e nei polpastrelli il buon Ricardo Alfieri la prima volta che ha messo le mani su una macchina fotografica. Dal padre, oltre allo stesso nome e allo stesso cognome, stava ereditando la stessa passione. Probabilmente, in quel primo momento di rapimento da parte dell’oggetto che aveva segnato la vita del genitore, non aveva la minima idea di poter entrare nella storia della fotografia sportiva proprio come era riuscito a Ricardo senior.
Nelle tante storie di Argentina 1978, ce ne è una che sarebbe improprio definire nascosta, ma che certamente non è la prima che viene in mente quando si deve parlare di un torneo così sfaccettato e controverso. È una notte di giugno, è “quella” notte di giugno. L’Argentina ha appena vinto il Mondiale a 500 metri dall’Escuela Superiore de Mecánica de la Armada, il centro di detenzione usato dalla dittatura argentina, eppure al Monumental si festeggia.
Stremati per lo sforzo della partita, Ubaldo Fillol e Alberto Tarantini si abbracciano a terra. Alle loro spalle spunta un invasore di campo: si chiama Victor Dell’Aquila, e vuole soltanto festeggiare con i calciatori. Si sta avvicinando a Fillol e Tarantini quando Ricardo Alfieri senior scatta una foto pronta per la leggenda. El Gráfico dà un titolo a quello scatto:El abrazo del alma, l’abbraccio dell’anima, perché Victor Dell’Aquila è un ragazzo privo di entrambe le braccia a causa di un terribile incidente che gli è costato l’amputazione dei due arti all’età di dodici anni. Eppure, nell’attimo fatidico, Alfieri l’ha colto con le maniche del maglioncino protese verso i due giocatori, come se stesse davvero per abbracciarli.
Undici anni dopo quello scatto, quell’abbraccio dell’anima, quel momento di immortalità, Ricardo Alfieri junior, figlio di cotanto padre, è a bordo campo per la partita che rischia di negare la qualificazione a Italia ’90 al Brasile. Il Maracanà è in fermento, davanti ai verdeoro di Sebastião Lazaroni c’è il Cile, è la gara decisiva del Gruppo C. Le due squadre si sono già affrontate il 13 agosto 1989 a Santiago (1-1) in una partita che si è trasformata in una zuffa memorabile, ma nella mente dei brasiliani c’è anche un’altra partita, giocata a Cordoba il 3 luglio 1987, in Coppa America. Cile quattro, Brasile niente.
Ai padroni di casa basta un pari per strappare il pass per i Mondiali italiani, ma in una gara secca non si può star tranquilli. A bordo campo, dicevamo, c’è Ricardo Alfieri junior. I brasiliani non lo sanno, ma è soltanto grazie a lui che, bomba o non bomba, arriveranno in Italia. È la notte del Cóndorazo.
La guerra di Santiago
C’è un posto in meno per le sudamericane a Italia ’90, è quello occupato dall’Argentina campione in carica e qualificata di diritto alla rassegna. Ne restano due e mezzo, laddove il posto frazionato è da intendersi come qualificazione a uno spareggio interzona con la vincitrice del settore oceanico: a quei tempi, quel mezzo vale sostanzialmente uno.
La Conmebol spacchetta le nove nazionali sudamericane in tre gironi: le due migliori prime possono passare l’estate del 1990 ad ascoltare Bennato e Nannini, l’altra dovrà passare dal playoff per avere suddetto privilegio. Il sorteggio dei gironi ha luogo nel 1988 all’hotel Plaza di Buenos Aires ed è presente, con ruolo particolarmente attivo, il presidente della Federcalcio cilena, Miguel Nasur. Uruguay, Bolivia e Perù vanno a comporre il Gruppo A, Colombia, Paraguay ed Ecuador il Gruppo B, infine Brasile, Cile e Venezuela. Per motivi che ci sfuggono, questo girone parte molto prima degli altri due: Venezuela-Brasile aprirà le danze il 30 luglio 1989, gli altri due raggruppamenti non prenderanno il via prima del 20 agosto.
Ma c’è tanto altro da dire su quel discusso sorteggio, che vede Nasur allo stesso modo accusato dai brasiliani e dai cileni: l’ultima partita del gruppo sarà proprio Brasile-Cile, e il dirigente sarà accusato di aver intascato 100 mila dollari per permettere ai verdeoro di avere il match-point in casa, nell’inferno del Maracanà. Ben diversa la versione fornita da Nasur, che ci permette di conoscere anche una delle figure principali di questa storia: Orlando Aravena, il commissario tecnico del Cile. «Prima del sorteggio – racconta Nasur – mi aveva chiesto soltanto una cosa: voleva affrontare il Venezuela dopo il Brasile. In questo modo, avrebbe saputo il numero esatto di gol da fare al Venezuela per avere la differenza reti a favore nei confronti del Brasile: non era preoccupato all’idea di chiudere il girone a Rio, era convinto di battere il Brasile a Santiago e trovarsi già qualificato all’ultima partita.
Dovetti convincere il presidente della Federcalcio venezuelana, che avrebbe preferito iniziare le eliminatorie affrontando noi: temeva di trovarsi con uno stadio deserto nella partita contro di noi qualora si fosse giocata dopo la sfida con il Brasile, che invece gli avrebbe garantito comunque un tutto esaurito, a prescindere dalla situazione». Tutto si incastra come da desiderio del c.t. cileno: si comincia con Venezuela-Brasile, quindi Venezuela-Cile, poi Cile-Brasile a Santiago, e poi di nuovo Brasile-Venezuela e Cile-Venezuela.
La Nazionale cilena è dunque nelle salde mani di Orlando Aravena, capace di portare il Cile al secondo posto nella Coppa America 1987, quella del 4-0 al Brasile, pur essendo stato catapultato sulla panchina della “Roja” come allenatore part time: era infatti lo stimato tecnico del Palestino, scelto in emergenza per guidare l’Under 23 nel preolimpico in vista di Seul 1988 e la Nazionale maggiore in Argentina. Un exploit che aveva fatto diventare Aravena una sorta di eroe nazionale, fino a conquistare l’incarico in via definitiva, nonostante – o forse proprio grazie a – un carattere arcigno.
“El Cabezòn”, già durante il torneo argentino, aveva litigato con buona parte della stampa nazionale e parte del suo stesso gruppo: la semifinale con la Colombia, protrattasi ai supplementari dopo lo 0-0 dei 90’ regolamentari, era stata ribaltata dai cileni dopo il vantaggio di Redin su rigore. Prima il pari di Astengo, poi il gol-vittoria di Jaime Pillo Vera, entrato in campo a gara in corso. Nella foga dell’esultanza per il 2-1, Vera disse qualcosa di troppo ad Aravena per l’esclusione. «Mi sta bene», gli rispose in faccia “el Cabezòn”, «ma tanto la finale non la giochi». Una promessa mantenuta.
Per assistere alla finale, la redazione della rivista Triunfo aveva chiesto la presenza di un uruguaiano e di un cileno. Detto, fatto: per la “Céleste” il mitico Uruguay (ebbene sì) Graffigna Banhoffer, ex attaccante reduce da una carriera romanzesca, con escursioni negli Stati Uniti (Los Angeles Aztecs) sotto il nome di Uri Banhoffer e Olanda (quattro anni allo Zwolle come Yuri Banhoffer). Per il Cile, il difensore ancora in attività Oscar “el Tallarin” Rojas. Era stato lui, nel prepartita, a rivelare le alchimie di Aravena in vista della finale: «Ho parlato con qualche vecchio compagno del Colo Colo, mi hanno detto che Aravena ha chiesto ai calciatori di picchiare gli uruguaiani, di stenderli con la prepotenza. E che Eduardo Gomez sarà espulso». “El Mocho” Gomez era entrato in campo con un solo obiettivo: abbattere Enzo Francescoli, “el Principe”, un 10 dal talento sublime, toccato dalle mani di Dio. Dopo quattordici minuti era già sotto la doccia.
La “patada” di Gomez a Francescoli è rimasta nella storia del calcio cileno. “El Principe” sarebbe poi stato a sua volta espulso per un lievissimo contatto con un avversario in una delle tante mischie di una partita resa una vera e propria battaglia dai cileni.
Piano partita tutt’altro che efficace, visto che l’Uruguay aveva comunque vinto 1-0 con gol di Bengoechea e Aravena aveva preferito inserire in campo Hugo Rubio, reduce da un fastidioso infortunio, pur di lasciare in panchina Vera. Un episodio che aveva indotto il giornalista Juan Cristobal Guarello, nell’euforia del ritorno in patria con la carica di vicecampioni continentali, a chiedere conto ad Aravena della sua decisione. «Iniziai la domanda dicendo “Orlando, il cambio…” e lui partì: “Non parlo di dettagli, chiedimi cose importanti. Siamo vicecampioni d’America, smettetela di domandarmi cazzate”. Percepii l’odore del whisky dal suo alito e gli dissi che probabilmente era la stessa risposta che aveva dato a un collega dopo la partita con il Brasile. “Anche lui mi aveva fatto una domanda del cazzo: se mi dite delle cazzate, rispondo con delle cazzate”. Ribattei che non poteva avere idea di quello che avrei chiesto e si infuriò: “Se te ne esci subito con questa cosa del cambio… Perché non mi hai chiesto del fatto che siamo vicecampioni d’America?”. Risposi che non lo avevo chiesto perché era la quarta volta che il Cile otteneva quel risultato, e che non mi aveva ancora fatto finire la domanda».
Sullo slancio del 1987, Aravena è convinto di poter disporre a piacimento del Brasile, sottovalutando anche la vittoria verdeoro nella Coppa America del 1989 e, anzi, ritenendola un possibile fattore di distrazione da sfruttare. Pensa di trovare una squadra scarica dopo il successo giunto in volata sull’Uruguay in un girone finale risolto all’ultimo respiro da Romario nello scontro diretto con la “Céleste”, e invece deve fare i conti con una squadra che rifila subito 4 gol al Venezuela. A Caracas passa anche il Cile (1-3), un piccolo gap da colmare in chiave differenza reti.
Il primo crocevia è a Santiago il 13 agosto, Cile-Brasile. Aravena inizia a insultare i brasiliani con diversi giorni di anticipo: «Cadranno a terra come Maguila».
All’anagrafe, “Maguila” è Adilson Rodrigues, peso massimo brasiliano appena messo ko da Evander Holyfield. Impedisce ai giornalisti brasiliani di partecipare alle conferenze stampa prepartita, ammettendo soltanto la stampa cilena. Ma anche dall’altra parte c’è qualcuno svelto di lingua: non Lazaroni, ma Romario. «Chiuderemo la bocca in campo ad Aravena», minaccia “O Baixinho”. «Non vedo l’ora di vederlo davanti ad Astengo», ribatte “el Cabezòn”.
La Fifa è preoccupata e chiede alle due nazionali di entrare in campo insieme prima del calcio d’inizio. L’arbitro Diaz riferisce il tutto ai capitani e Roberto Rojas, portiere e leader del Cile, raccoglie il suggerimento convincendo i suoi a entrare molto prima del Brasile, costretto così a vedersela da subito con i fischi del pubblico di Santiago, ininterrotti durante l’inno nazionale rivale.
Si gioca in una bolgia, Romario è su di giri e prima del fischio d’inizio, dopo essere stato continuamente provocato durante il riscaldamento nella pancia dell’Estadio Nacional, è già fuori di testa: fa un cenno di minaccia ad Alejandro Hisis, i due si affrontano muso a muso e il brasiliano viene ammonito quando la partita deve ancora iniziare. Passa un minuto e Raúl Ormeño compie un intervento folle su Claudio Branco, un’entrata spacca gambe e spacca carriera. Si scatena un parapiglia con Romario protagonista: viene espulso lui, mentre Ormeño guadagna gli spogliatoi dieci minuti più tardi.
Brevissimo recap della notte di follia di Santiago: dal nervosismo prepartita di Romario al tentato omicidio di Ormeño ai danni di Branco. Quando “O Baixinho” sta lasciando il campo, intorno al 39esimo secondo del video, è un giovanissimo Ivan Zamorano a cercare di tranquillizzarlo. Rocambolesco l’autogol del vantaggio brasiliano, direttamente dai campi del dopolavoro l’esecuzione della punizione a due in area che porta al pari cileno.
Nel corso della gara viene espulso anche Aravena, che si infila una giacca di un calciatore della panchina, finge di uscire e si va a nascondere dall’altra parte del campo, fingendo di essere impegnato nel riscaldamento: per farlo uscire serviranno i carabinieri. In un clima del genere, la situazione sugli spalti non può che degenerare. Santiago è una polveriera e gli incidenti che ne derivano inducono la Fifa a sanzionare il Cile, costretto a giocare la partita successiva, con il Venezuela, sul campo neutro di Mendoza, in Argentina.
Il 20 agosto, il Brasile fa il suo dovere contro il Venezuela: è un 6-0 che complica notevolmente i calcoli di differenza reti auspicati da Aravena al momento del sorteggio, visto che il Cile non riesce ad andare oltre il 5-0 a Mendoza. Si arriva al Maracanà, il 3 settembre 1989, con un solo risultato a disposizione per la “Roja”: vincere.
La notte del Cóndorazo
Iniziamo da qualche nota di cronaca: il Brasile scende in campo con la difesa a 3 tanto cara a Lazaroni: Aldair, Galvao e Gomes davanti a Claudio Taffarel, con Jorginho e Branco a tutta fascia. Dunga, Valdo e Silas in mezzo, Bebeto e Careca davanti. Il Cile risponde con un 4-2-2-2 di stampo brasiliano: Rojas tra i pali, Reyes e Puebla larghi, Gonzalez-Astengo nel cuore della difesa. Hisis e Pizarro primo tandem di mediana, Vera e Jorge Aravena sulla trequarti, Letelier e Pato Yáñez davanti.
A dirigere l’incontro, l’argentino Loustau. In avvio di ripresa, una di quelle danze tipiche di Careca palla al piede manda in confusione la difesa cilena. Il diagonale mancino del centravanti del Napoli è debole ma Rojas combina un mezzo disastro e il Brasile passa in vantaggio. È un gol che, di fatto, vale più di mezza qualificazione: il Cile avrebbe bisogno di ribaltare il punteggio per strappare il pass mondiale. Al 69’, il Maracanà va in subbuglio. Il portiere cileno è a terra, si nasconde il viso, a pochi metri da lui c’è il residuo di un bengala lanciato dagli spalti. Sono attimi di smarrimento, si crea un capannello intorno a Rojas, le immagini lo mostrano al mondo mentre viene sorretto dai suoi compagni con il viso ricoperto di sangue. Nel delirio generale si staglia Pato Yáñez, che inizia a urlare e a sbraitare verso il pubblico brasiliano.
Rapida guida per eseguire nel migliore dei modi un gesto che, in Cile, è ormai conosciuto con il nome del suo autore. Solo dopo aver masticato ogni frame di questi 5” sarete all’altezza di “hacer un Pato Yáñez” come Dio comanda.
I giocatori del Cile si lamentano con l’arbitro, chiedono di lasciare il campo, poi lo fanno di loro iniziativa, senza permessi. Basay e Gonzalez portano fuori Rojas, immortalato in una posa che ricorda la morte di Marat dipinta da Jacques-Louis David. Per ricostruire quelle ore di puro kitsch calcistico, ci viene nuovamente in soccorso Juan Cristobal Guarello, presente sugli spalti e autore del libro Historias Secretas del Futbol Chileno, lettura imprescindibile per gli amanti del genere.
C'è qualcosa che non torna, i giornalisti cileni conoscono Aravena. In un match di qualche anno prima, un torrido Palestino-Universidad de Chile, i padroni di casa si erano aggiudicati il successo a tavolino a causa di un colpo in testa ricevuto da Marco Cornez, che in Nazionale ora è il vice di Rojas. Un sasso lo aveva effettivamente colpito, ma il portiere era rimasto a terra per una durata spropositata in relazione alle dimensioni della pietra.
Il tecnico di quel Palestino era, ovviamente, Aravena. Dovendo chiudere il pezzo di cronaca della partita, Guarello segna immediatamente sul taccuino i numeri di maglia dei primi giocatori arrivati a soccorrere Rojas nel pandemono del Maracanà. Il più vicino, Astengo, è un difensore centrale, e fin qui ci siamo. Gli altri sono due centrocampisti (Aravena e Vera) e tre attaccanti (Letelier, Basay e Yáñez). No, qualcosa non torna. Lo stesso Rojas non è uno stinco di santo. Era stato coinvolto nello scandalo del Sudamericano de Paysandù nel 1979, quando insieme a buona parte della squadra cilena aveva preso parte al torneo con i passaporti contraffatti. Dei 20 giocatori convocati, 18 erano in realtà ineleggibili per la competizione. Per Rojas e gli altri c’erano stati anche 12 giorni di carcere. Sempre Rojas, nel 1984, era stato costretto a saltare le Olimpiadi a causa di una positività al Deca Durabolin (nandrolone) in occasione di un’amichevole tra Cile e Inghilterra.
In pieno marasma e dopo svariate ore, il Cile lascia lo stadio con la qualificazione in tasca: si aspetta lo 0-2 a tavolino, i conseguenti due punti e l’accesso alla fase a gironi di Italia ’90. Dall’altra parte, i giocatori del Brasile non sospettano nulla. «Ero in campo, terrorizzato, inebetito. Ero convinto che avessimo perso la possibilità di andare al Mondiale», ha raccontato Ricardo Gomes, che quel giorno era capitano della Seleçao. Così come i calciatori, anche i fotografi brasiliani sono disperati. Non ce ne è uno che sia stato in grado di cogliere il momento dell’impatto tra il bengala e Rojas. Senza immagini televisive affidabili e senza scatti che colgano l’attimo, il Brasile non ha chance.
Qualcuno, però, ha visto dove è atterrato il bengala, a circa un metro da Rojas. Come si spiega tutto quel sangue? Gomes Teixeira, uno dei tanti fotografi a bordo campo, incrocia lo sguardo con Ricardo Alfieri junior. L’unica persona che può salvare il Brasile è un argentino. Alfieri è lì per conto di un magazine giapponese e non può sviluppare in prima persona gli scatti appena fatti: deve spedire il materiale grezzo a Tokyo, è la prassi. Teixeira non la prende benissimo: «Gli dissi: “Ricardo, ascoltami. Sei l’unico ad avere le prove che Rojas sta mentendo e barando. Non ti lascerò uscire dal paese con quei negativi”. Andai a cercare un giornalista radiofonico dicendogli che avevamo le prove della truffa di Rojas, Ricardo accettò di parlare in radio e a quel punto tutto cambiò».
Nella sala giornalisti del Maracanà arriva un altro Teixeira, Ricardo, il presidente della Federcalcio brasiliana, chiedendo il materiale fotografico a disposizione. I negativi passano nelle mani del laboratorio di Gomes Teixeira, che tira giù dal letto la prima operatrice disponibile in piena notte. Alfieri diceva la verità: quattro foto, nitide, del bengala che atterra a distanza di sicurezza da Rojas. “Una farsa que ensucia al fútbol”, titola El Gráfico.
Ai microfoni dei media cileni, Rojas nega la farsa: «In quel momento non ho nemmeno capito da cosa ero stato colpito, ricordo soltanto la luce e la nuvola di fumo. Mi hanno tenuto per quattro ore negli spogliatoi, i medici brasiliani mi hanno trattato come se fossi un topo da laboratorio, mi hanno fatto di tutto. Mi hanno sparato dell’acqua ossigenata in testa, mi hanno aperto la ferita. Io sono la vittima, il Brasile mi sta trasformando in colpevole, come se avessi lanciato io stesso il bengala per colpirmi. Immaginate cosa sarebbe successo se mi avesse colpito sul corpo, considerando i materiali della maglia avrei rischiato di prendere fuoco. È stata l’opera di un esaltato, non credo che sia stata la donna che accusano».
Sì perché bisogna parlare anche di chi ha lanciato quel bengala che ha cambiato la storia del calcio sudamericano: lo ha scagliato una donna, Rosenery Mello do Nascimento, destinata all’immortalità con il soprannome de “A fogueteira do Maracana”. Ha ventitre anni, un figlio piccolo, viene fermata immediatamente e rilasciata nel giro di 24 ore. Vivrà un attimo di incredibile popolarità, finendo addirittura sulla copertina dell’edizione brasiliana di Playboy nel novembre del 1989.
L’inchiesta
La Fifa non crede a Rojas, le foto lo smentiscono, e si pronuncia in fretta: 2-0 per il Brasile, che va a Italia ’90. Per i media cileni non c’è dubbio: è un complotto ordito da Joao Havelange, potentissimo presidente della Fifa, brasiliano di Rio de Janeiro. Le prime sanzioni per Rojas, che non si presenta all’interrogatorio della Federazione Internazionale fissato il 10 settembre a causa di un perdurante stato di shock, sono morbide: tre mesi di stop dall’attività calcistica e una squalifica a vita per quanto riguarda gli impegni internazionali, in attesa di ulteriori indagini.
Non quadra tutto quel sangue, non quadra la ferita in testa, incongruente con il lancio del bengala a terra. Vuole vederci chiaro anche la Federcalcio cilena. Il presidente, Sergio Stoppel, istituisce una commissione, convinto che ci sia qualcosa da scoprire: «Ritengo Rojas capace di qualsiasi cosa. Una persona cattiva, su cui è impossibile fare affidamento, che cerca sempre il profitto per la sua persona. Deve essere allontanato dalla Nazionale». C’è il sospetto che Rojas possa essersi ferito da solo: un ex arbitro brasiliano, Wanderley Boschilia, afferma di averlo visto, durante un match del San Paolo, procurarsi un taglio con il tappo di una birra. E inoltre, nel delirio del post Brasile-Cile, sono spariti i guanti di Rojas.
Le indagini di Federcalcio cilena e Fifa proseguono. Nel novembre del 1989, El Gráfico pubblica un reportage in cui intervista direttamente il portiere. «Ricordo di aver sentito un botto e per istinto mi sono girato. Ho visto una luce, non mi aspettavo nulla del genere. Ho sentito il colpo e quindi il dolore. Per fortuna non mi ha preso in pieno, ma una parte sì, ed è quello che la Fifa si rifiuta di ammettere. Le foto che girano sono state scattate dopo l’impatto, ero stato già colpito». Jorge Barraza, il reporter del Gráfico, non crede a una sola parola di Rojas, ma lo lascia proseguire. «Se mi avesse preso in pieno, sarei morto». Barraza, glaciale, ribatte: «Questo è indubbio. Ma non ti ha preso nemmeno di striscio». Il giornalista continua ad attaccare, descrivendo il particolare comportamento dei compagni di Rojas: «I tuoi compagni, come prima reazione, hanno ignorato quello che ti stava succedendo, iniziando a dire all’arbitro che la partita sarebbe finita in quel momento, come se fosse tutto prestabilito. Hanno reso impossibile il controllo della ferita, rifiutato la barella e ti hanno portato direttamente nello spogliatoio, tutto molto in fretta». Rojas prende tempo: «Non so, può darsi, non posso dire esattamente cosa sia successo perché ero in stato di shock».
È una battaglia senza esclusione di colpi, Rojas si difende come può: «Aravena non ha il minimo ruolo in tutto questo, è stato un incidente. Adesso anche Lazaroni fa il santarellino, ma non è certo una colomba bianca. La verità è che il Brasile ha maneggiato molto bene questo incidente. Se quello che è capitato al Maracanà fosse successo a Santiago, non credo che avrebbero punito il Brasile». Rojas inizia a scaldarsi, sventola i certificati medici in faccia al giornalista, accusa El Gráfico di avere un patto con la Fifa, di guadagnare molto di più da un Mondiale con il Brasile che da un Mondiale con il Cile, attacca la Federazione Internazionale per la squalifica del campo che ha impedito alla “Roja” di giocare con il Venezuela in casa: «Ci hanno spedito in campo neutro perché sapevano che a Santiago avremmo rifilato 10 gol al Venezuela. E voi argentini non potete parlare di regolarità: vogliamo pensare al Mondiale del 1978, o al gol di Maradona di mano contro gli inglesi?».
La Fifa si riunisce dopo aver nuovamente interrogato Rojas al Jolly Hotel di Roma. Venerdì 8 dicembre emette una nuova sentenza: conferma il 2-0 a tavolino per il Brasile ma aggiunge una mazzata ai danni del Cile, escluso dalle qualificazioni a Usa 1994. La motivazione è quella della premeditazione: il Cile ha cercato di ottenere la vittoria in maniera fraudolenta, esponendo anche gli spettatori a possibili incidenti in seguito a questa decisione.
Roberto Rojas, a causa della pantomima della ferita (ancora non chiarita del tutto), viene squalificato a vita così come Sergio Stoppel, presidente federale al momento della partita. Orlando Aravena, l’allenatore della nazionale, viene squalificato per cinque anni in patria e a vita per quanto riguarda le gare internazionali. Il medico Daniel Rodriguez, accusato di aver inserito informazioni false nei referti, è squalificato a vita per le attività sportive. Cinque anni di squalifica anche a Fernando Astengo, vicecapitano del Cile, per aver deciso di ritirare la squadra in vece del capitano (Rojas), e un anno al fisioterapista Alejandro Kock, una figura più centrale di quanto si possa pensare.
Tutto tace per nove mesi. A 263 giorni di distanza dalla notte del Cóndorazo – uno dei tanti nomi usati per indicare quella serata di follia, preso dal soprannome di Rojas, “el Cóndor” – succede qualcosa di inatteso. Orlando Aravena, Fernando Astengo e Nelson Maldonado, rispettivamente c.t., vicecapitano e magazziniere nella notte del Maracanà, escono allo scoperto e chiedono a Rojas di dire tutta la verità: è stato lui, e lui soltanto, a organizzare quella farsa, all’insaputa di tutti gli altri. È un boomerang.
“El Cóndor” risponde immediatamente, convocando i giornalisti e scoperchiando il vaso di Pandora. Il piano nasce dalle menti di Astengo e Rojas, che due giorni prima del match, convinti che mai e poi mai il Brasile potesse perdere al Maracanà, decidono di utilizzare la minima scusa per ritirare la squadra. A quel punto entra in gioco Kock, avvisato dei propositi bellicosi già a Santiago e divenuto uomo decisivo nell’hotel Atlantico Sur di Rio de Janeiro, due ore prima della partita. «Maestro, è tutto pronto», dice Kock a Rojas passandogli un minuscolo bisturi ricoperto dal nastro adesivo. Rimane fuori un solo centimetro della punta. Il portiere gioca tutto il primo tempo con il bisturi infilato in un calzettone. Rientra negli spogliatoi per l’intervallo convinto di non avere la chance per usarlo, visto lo stuolo di poliziotti a bordo campo. Per un attimo pensa di gettarlo, poi lo sposta: dal calzettone sinistro al guanto destro. Si arriva al 69’. «Ho visto la luce verde, poi ho sentito qualcosa di simile a un’esplosione e sono andato giù. Il bengala non mi aveva nemmeno sfiorato. In quell’istante mi sono ricordato del bisturi e mi sono ferito volontariamente. Un solo taglio, profondo a sufficienza: vedevo molto sangue. So che i brasiliani sono convinti che Kock sia intervenuto con del mercurio cromo, ma non glielo avrei permesso: mi fece un ulteriore taglio per far uscire altro sangue. Nessun altro sapeva di questo piano: soltanto io, Astengo e Kock. Arrivai cosciente negli spogliatoi, Astengo chiamò Maldonado, che fino a quel momento non sapeva nulla, per far sparire il bisturi. Tenne i guanti per quindici giorni in casa sia, ha sempre saputo la verità dal momento in cui entrò in gioco. Aravena era in tribuna, non aveva idea dell’accordo, né della storia del bisturi. Lui ha creato il clima, ma sono stato io a commettere l’errore più grande della mia vita. Ho sentito il bisogno di confessare, non potevo vivere in pace con la mia coscienza». Resteranno a lungo i dubbi sul coinvolgimento del commissario tecnico e di altri calciatori, ma non ci è dato sapere altro.
Tra gli altri nomi con cui viene ribattezzata la notte del 3 settembre 1989, lo stesso giorno in cui, dall’altra parte del mondo, veniva a mancare un signore come Gaetano Scirea, c’è un rimando a una gara storica del Brasile: per molti è el Maracanazo, ovviamente della nazionale cilena. La squalifica a vita di Rojas sarebbe stata cancellata da lì a una decina di anni, nel nuovo millennio: “el Cóndor” ha anche dovuto superare un’epatite C ma si è rifatto una vita come preparatore. Fernando Astengo avrebbe ricevuto l’amnistia con qualche anno di anticipo: soltanto tre anni di stop invece dei cinque iniziali, sufficienti per fargli perdere lo sbarco in Europa.
Era nel mirino di alcuni club italiani (Lazio e Cesena), fu costretto a ricominciare, ormai trentatreenne, dal calcio cileno, per poi diventare allenatore, tra le altre, di Colo Colo e Deportes Temuco. È tornato alle cronache qualche ora prima di Ferragosto, andandosi a schiantare con la sua automobile in Avenida Tobalaba, a Santiago, completamente ubriaco. Orlando Aravena ha smesso di allenare nel 1996, diventando proprietario di diverse palestre. La fogueteira do Maracanà, Rosenery Mello do Nascimento, è morta il 4 giugno del 2011 in seguito a un aneurisma, a soli 45 anni, lontanissima dalla fama che l’aveva travolta.
C’è un altro Alfieri che nella vita fa il fotografo. Si chiama Mauro, è il figlio di Ricardo junior, orgoglioso di poter vedere proseguire la dinastia. «Gli ho insegnato io il mestiere, proibendogli ogni tipo di autofocus, spiegandogli come mettere a fuoco manualmente, come avevo imparato io ai miei tempi. Il suo idolo era il nonno. Gli ho fatto capire che una foto è ben riuscita quando la guardi e ti viene spontaneo dire: “Wow, questa è buona!”. Per diventare un fotografo sportivo devi conoscere profondamente il gioco di cui ti stai occupando. Devi vedere la foto ancora prima dello scatto, immaginarla già pubblicata. Sono sempre stato esigente con me stesso, ho vissuto una vita fantastica, mi sono successe tante cose, purtroppo anche brutte. Ero a Usa 1994 quando venni a sapere che papà non stava bene. Maria Amelia, mia moglie, che si è sempre occupata di Mauro e Paola, mi aggiornava continuamente, preparandomi al peggio. Arrivai a Barracas che era quasi in coma. Mi prese la mano, la strinse e mi chiese come stessi. Morì da lì a quattro ore. Mi aveva aspettato».