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Ci sono trade deadline scoppiettanti, piene di sorprese, che spostano giocatori importanti e innescano effetti-domino ai piani alti, magari ridefinendo i rapporti di forza tra le contender. Di recente, per esempio, si ricordano i traslochi di Kevin Durant e James Harden (chi se no) nelle ultimissime ore del mercato NBA, oppure franchigie che hanno messo a segno colpi decisivi per vincere il titolo, come i Raptors con Marc Gasol nel 2019.
La maggior parte delle volte, però, è una serata più tranquilla almeno se non siete Adrian Wojnarowski (almeno fino allo scorso anno) o Shams Charania. La trade deadline 2025, fissata per il prossimo 6 febbraio (ore 21 italiane), dovrebbe essere una di queste. Le principali contendenti al titolo infatti non sembrano granché attive sul mercato, un po’ per circostanze finanziarie, un po’ per questioni di campo e un po’ per gli scambi fatti in estate. È quindi difficile immaginarsi blockbuster trade, ma le previsioni sono fatte per essere smentite - e se esiste una galassia dominata dall’imprevedibile, quella è la trade deadline.
In ogni caso, tanto per cominciare, c’è Jimmy Butler con le valigie in mano, e c’è la solita pletora di general manager che stanno pensando di premere il grilletto. Chi per aggiudicarsi la stella degli Heat (spoiler: potremmo vederne davvero delle belle), e chi uno degli altri All-Star sul mercato (Brandon Ingram e Zach LaVine, ad esempio). Oppure, chi è a caccia dell’ultimo tassello per completare il roster in ottica Playoffs; o ancora chi cerca, all’estremo opposto, la stretta di mani giusta per premere il tasto “reset”.
Qualcosa a gennaio si è già mosso, comunque. I Lakers hanno acquisito Dorian Finney-Smith e Shake Milton, cedendo D’Angelo Russell e tre seconde scelte ai Nets; e in modo simile gli Warriors hanno portato a casa Dennis Schroder, sempre da Brooklyn, in cambio di De’Anthony Melton e tre second-rounder. I Suns invece hanno convertito la propria prima pick del 2031 (dall’alto potenziale e non protetta) in tre scelte di proprietà dei Jazz (sempre al primo round, ma di valore ben inferiore).
Chi saranno i prossimi? Cosa ci possiamo aspettare dalle due settimane conclusive, e in particolare dalle ultimissime ore di mercato? Prima di addentrarci nei casi specifici e nei possibili scenari, è interessante allargare un po’ la prospettiva.
NUOVE DINAMICHE DI MERCATO
Da qualche anno il volume degli scambi chiusi nelle ultime 24 ore del mercato si è stabilizzato intorno ai 15, un dato in crescita rispetto al passato. Ancora più nettamente è aumentato il numero degli attori coinvolti: dal 2023 in media 23 squadre e 50 giocatori circa.
Una crescita dovuta ai cambiamenti avvenuti in NBA. Il primo è stato l’avvento del Play-In. La presenza degli “spareggi-playoff” ha aumentato il numero di squadre che a questo punto della stagione ancora si giocano qualcosa, sbiadendo quel confine - solitamente piuttosto chiaro a febbraio - tra chi “compratori”, e cioè contender o comunque squadre che vogliono fare i playoff, e “venditori”, e cioè solitamente chi sta già pensando alla prossima stagione. Dando uno sguardo alla classifica si capisce subito quante franchigie siano direttamente interessate dal discorso.
Con il nuovo CBA, inoltre, l'NBA ha apportato parecchie modifiche in ambito commerciale. Le severe penalità introdotte per le squadre che superano (con un certo margine) il salary cap, fissato al momento intorno ai 140 milioni di dollari, hanno stravolto le logiche, i punti di riferimento e il perimetro dentro cui si muovono i front office. E soprattutto hanno limitato il raggio d’azione per chi ha un monte ingaggi particolarmente elevato. Quando una franchigia “eccede” di 37.5 milioni di dollari, ora incappa infatti nelle limitazioni previste dal primo "apron": non può acquisire salari più ingombranti di quelli in uscita, firmare giocatori provenienti dal buyout market (se pagati precedentemente più della mid-level exception), nè utilizzare liberamente strumenti come sign-and-trade e trade exceptions. Allo stato attuale, sono circa una decina le squadre che orbitano in questo contesto.
Sfondato anche il secondo "apron" (48.5 milioni di dollari di eccedenza), poi, le maglie diventano ancora più strette. Si aggiunge l'impossibilità di aggregare salari (a meno che lo scambio non permetta di scendere al di sotto della soglia) e di disporre pienamente delle prime scelte al Draft (rendendo intoccabili quelle più vicine); e in caso di recidiva, una first-round pick può essere declassata automaticamente in trentesima (cioè ultima) posizione. È quello che Sam Quinn di CBS chiama spesso, con buone ragioni, l’inferno del secondo “apron”. E a oggi è il caso di Suns, Timberwolves, Bucks e Celtics (che a parte il regime di austerità cui sono soggette, hanno poco o niente in comune tra loro).
Le due date vincolanti per l’eleggibilità dei giocatori scambiati, firmati o estesi di recente sono passate (15 dicembre e 15 gennaio), e le indiscrezioni hanno già iniziato a moltiplicarsi. Come abbiamo visto è arrivata anche qualche ufficialità, ma siamo solo all’inizio. Per districarci con un po’ più di consapevolezza tra i rumors e i possibili scenari all’orizzonte, seguiamo la solita stella polare della trade deadline: l’approccio che dovrebbe adottare, salvo sorprese, ciascuna franchigia. E quindi, le buone e vecchie liste di buyers and sellers.
CHI COMPRA (E PERCHÉ)
Le squadre da cui ci si aspettano movimenti importanti in entrata - cioè il sacrificio di asset futuri per un upgrade istantaneo - sono tipicamente le cosiddette “pretender”. Quelle organizzazioni con obiettivi ambiziosi per il prosieguo della stagione, e allo stesso tempo con una combinazione di carenze nel roster, emergenze (infortuni), necessità di dimostrare qualcosa alla propria stella e opportunità varie (leggere: richieste di trade) in giro per la lega. Certo, serve anche la materia prima: scelte, giovani e contratti appetibili.
Un paio di esempi da cui partire: Houston Rockets e Memphis Grizzlies, che sono rispettivamente secondi e terzi nella Western Conference. I texani hanno un roster giovane, una buona quantità di scelte (in controllo delle proprie soprattutto) e una situazione finanziaria flessibile, grazie anche a diversi rookie deal. Hanno le potenzialità per fare strada in post-season, o comunque esperienza; e forse, hanno anche il desiderio di portare a Houston la superstar che manca per competere ai massimi livelli. La soluzione suggerita da diversi rumors, e gradita anche al diretto interessato, potrebbe chiamarsi Jimmy Butler. Al di là della complicatezza dell’affare (ci torniamo), però, è ancora da dimostrare, e tutt’altro che scontato, che in Texas si senta già l’urgenza di andare all-in. Il tempo è ampiamente dalla parte dei Rockets, che potrebbero optare per un approccio più conservativo - non per forza passivo - almeno fino alla prossima offseason.
La situazione dei Grizzlies è per certi versi simile, nonostante si tratti di un team competitivo ormai da diverse stagioni e che si muove su una timeline più orientata al presente. Anche per loro si è parlato di Butler. A Memphis non mancano la profondità e le scelte al draft, due condizioni necessarie per imbastire un affare del genere, ma neanche le controindicazioni: il rischio che si riveli un noleggio a breve termine (Butler potrebbe diventare free agent a luglio, e ha già fatto capire che a Memphis non ci vuole stare) e il fit con Morant.
Chi sente ancora meno urgenza sono gli Oklahoma City Thunder. Primi ad ovest, sostanzialmente in una situazione in cui qualsiasi general manager vorrebbe trovarsi. OKC ha talmente tante scelte nei prossimi Draft che potrà (dovrà) scegliere quando premere il pulsante ed andare ufficialmente a caccia di qualche stella da aggiungere al roster. Quel momento, però, deve ancora arrivare (anche perché, qualcuna c’e l’hanno già in casa). Forse non è nemmeno vicino, per quanto sembri assurdo, parlando della favoritissima (via Las Vegas) nei Playoffs della Western Conference.
Per Rockets, Grizzlies e Thunder - e un po’ per chiunque abbia qualcosa da mettere sul tavolo, in realtà - un profilo molto interessante è quello di Cameron Johnson. L’ex Suns farebbe comodo un po’ a tutti: atletico, versatile (nelle lineup e in entrambe le metà campo), ottimo tiratore (molto più di uno spot-up shooter), solido difensore. Alle caratteristiche tecniche si aggiungono l’integrità fisica, una discreta esperienza playoff e un buonissimo contratto (fino al 2027 a 21.5 milioni di dollari l’anno). Chi non vorrebbe Cam Johnson? I Nets hanno già dato prova delle loro intenzioni in questa sessione di mercato, e con buone probabilità anche lui finirà la stagione con un’altra maglia.
Sappiamo dai rumors che la volata è iniziata da settimane, e che la lista delle concorrenti è vasta. Tra le possibili destinazioni si parla di Sacramento Kings e Milwaukee Bucks, oltre - figurarsi - a Los Angeles Lakers e Golden State Warriors. Sui gialloviola l’assioma da cui partire è sempre lo stesso: con LeBron James sotto contratto, l’approccio da “buyers” alla trade deadline è burocrazia. L’affare con Brooklyn lo ha confermato, ciò nonostante si è parlato negli ultimi giorni delle “preoccupazioni” di James e Davis riguardo alla posizione dei gialloviola sul mercato. I soliti scenari (difficile immaginare trade con grossi contratti) e le abituali pressioni su Rob Pelinka. Diverso lo scenario per gli Warriors: nonostante l'età, Steph Curry ha ribadito di non “esigere” che la dirigenza sacrifichi asset futuri per migliorare il roster attuale, e ci sono buoni motivi per pensare che il front office mantenga l’approccio conservativo visto di recente. La riluttanza a privarsi di Jonathan Kuminga (nonostante la non-estensione) rende altamente improbabili quasi tutti i grandi nomi accostati nell’ultimo mese, più o meno realistici - oltre a Butler, anche LaVine, Markkanen e Vucevic.
Tra chi in teoria dovrebbe “comprare” ci sono poi i Phoenix Suns, anche se più per inerzia e mancanza di alternative, che per altro. La stagione di Durant, Booker e compagni è stata molto deludente fin qui, e serve fantasia per immaginare che la svolta possa arrivare dal trade market. Il margine d’azione è quasi nullo, tra l’inferno del second apron e il contratto di Bradley Beal, che è altrettanto indesiderabile (110 milioni di dollari in due stagioni). Dopo essere scivolato fuori dal quintetto dei Suns, Beal è al minimo storico per valore di mercato - e come se tutto ciò non lo rendesse abbastanza difficile da spostare, gode pure di una (rarissima) no-trade clause, dunque va accontentato. Il possibile swap con Butler si è arenato in partenza proprio perché gli Heat non vogliono saperne del suo contratto, e trovare una terza squadra disposta ad assorbirlo, che sia apprezzata anche da Beal, è complicato (soprattutto per i Suns, che hanno poco da offrire come scelte al Draft).
Forse una o due di tutte le squadre di cui si è parlato, alla fine, faranno effettivamente una manovra importante di mercato. Le altre potrebbero muoversi su obiettivi “minori”, cercando il veterano giusto o la proverbiale occasione low-cost, e magari aspettando la prossima estate per movimenti più impattanti. Se per una manciata di general manager si tratta di una scelta - Thunder, Grizzlies, Rockets, e se vogliamo Kings e Warriors - per altri invece un approccio simile è una necessità. Cioè per tutte quelle franchigie costruite - alcune soltanto pensate - per competere, che hanno già investito gli asset a disposizione o che hanno poco margine (finanziario o di contratti da cedere) per operazioni simili. Rientrano in questa categoria i già citati Celtics e Bucks, ma con ogni probabilità anche Cavs, Nuggets, Knicks, Mavs, Sixers, Clippers e Wolves.
Non scontate invece le posizioni di Pacers e Spurs, e ancora meno quelle di Magic e Pistons, tutte organizzazioni che hanno i mezzi per legittimare una certa aggressività sul mercato, ma di cui restano da dimostrare le intenzioni immediate e l’urgenza che avvertono. È per questo - orizzonti temporali, più che carenza di asset - che appaiono defilate nella lista dei grandi “buyers”, ma lasciamo la porta aperta a possibili sorprese. Dall’altra parte della barricata, invece, chi troviamo?
CHI VENDE (CHE COSA)
La domanda crea l’offerta, e tendenzialmente la classifica compone la lista dei possibili “venditori” di ogni trade deadline. Ovvero, quelle franchigie che hanno qualcosa da offrire (All-Star o role player funzionali) e poco-niente da chiedere al resto della stagione. Vale a dire: Wizards, Pelicans, Nets, Raptors, Jazz, Hornets e Blazers. Cui si aggiungono, per motivi diversi, Bulls e Heat. Tutte realtà i cui front office dovranno limitarsi, per così dire, a rispondere al telefono nelle prossime due settimane, sapendo per certo che le chiamate arriveranno.
Di sicuro ci sarà traffico, ce n’è già adesso, sulle linee di Andy Elisburg e Pat Riley, cui tocca il compito più infame di questa trade deadline: trovare una soluzione al caso Jimmy Butler, facendone uscire i Miami Heat meglio possibile. Il braccio di ferro tra la franchigia e il giocatore, che ha manifestato pubblicamente il desiderio di essere ceduto, è ormai ben documentato. Fin troppo, sulla scia di altri drama consumati di questi tempi negli anni passati (forse potrebbe venirvi in mente qualche vittima degli Heat nelle ultime post-season).
Dopo due viaggi alle Finals, il leader della Heat Culture è ora un separato in casa, letteralmente. La prima sospensione è avvenuta lo scorso 3 gennaio, per i commenti in una conferenza stampa post-partita. «Volete sapere cosa spero che accada?», diceva in quell’occasione, «vorrei tornare a sentire il piacere di giocare a basket. Qui sono felice fuori dal campo, ma voglio tornare ad essere dominante, ad aiutare la mia squadra a vincere, e adesso non lo sto facendo». Pochi giorni prima Shams Charania aveva anticipato la possibile “preferenza” di Butler per una trade - l’aveva definita così, ma di lì a poco si sarebbe trasformata nel classico ricatto della superstar scontenta. Qualcosa a cui ormai siamo abituati.
Charania ha descritto lo scontro Butler-Riley come una «battaglia tra due alpha», e ha raccontato le difficoltà nelle trattative. «Potrebbe essere una trade a tre, quattro o addirittura cinque squadre», ha detto l’insider di ESPN. Archiviata pure una seconda sospensione, stavolta per un ritardo in aeroporto, e dopo altri colpi di reni di Jimmy (tra wishlist di destinazioni ideali e la brillante trovata di scendere in campo con i colori dei Suns ai piedi), al 26 gennaio si attende ancora la soluzione del giallo. Butler non è soltanto la storia in copertina di questa trade deadline, ma anche la prima, pesante tessera del domino: sciolto il suo nodo, se ne risolveranno (tanti) altri, magari anche contemporaneamente. Di chi si potrebbe trattare?
Si è detto di Bradley Beal e dei Suns, ma si potrebbero fare diversi nomi. Ad esempio Brandon Ingram e i suoi Pelicans, che con questo nucleo sembrano arrivati a un punto di non ritorno (attenzione anche a Murray, McCollum e Theis); oppure Zach LaVine e i suoi Bulls, che nonostante una classifica ancora incerta potrebbero separarsi dalla loro stella (il cui contratto sembra finalmente meno drammatico), e magari anche da Nikola Vucevic, Lonzo Ball e Torrey Craig, avviando la tanto agognata rifondazione. Chicago, tra l’altro, ha una scelta nel prossimo Draft di cui potrà disporre solo se compresa tra la prima e la decima (top-10 protected): possiamo dire che smantellare adesso avrebbe tutto il senso del mondo?
Utah è un’altra candidata a demolire l’attuale core e abbracciare una ricostruzione dalle fondamenta, accumulando tutti gli asset possibili dalle possibili partenze di Markkanen, Collins, Clarkson e/o Sexton. È di ieri la notizia che i Lakers avrebbero fatto “multiple offerte” ai Jazz per Walker Kessler, tutte rispedite al mittente, vediamo però quanto sapranno resistere. Non c’è dubbio invece, come detto, che i Nets saranno tra i “venditori”. Lo sono da settimane, anzi mesi: hanno iniziato con Mikal Bridges nella scorsa offseason, proseguito con Schroder e Finney-Smith, e del prossimo si è già detto (Cam Johnson). Ci sarebbero ancora D’Angelo Russell, il maxi-contratto in scadenza di Ben Simmons e l'infortunato Bojan Bogdanovic. Stiamo a vedere. Botteghe aperte, veterani in bella mostra e venghino signori, infine, anche in casa Washington Wizards (in vetrina Kuzma, Brogdon, Valanciunas e Kispert), Portland Trail Blazers (uno dei troppi centri a roster, oltre alla valigia eternamente pronta di Jerami Grant) e Toronto Raptors (Bruce Brown, Poeltl, Olynyk).
È fine gennaio, e per i tifosi NBA stanno arrivando quei giorni dell’anno in cui un tweet può cambiare la propria squadra, o magari l’intera lega, da un momento all’altro. Basta solo aspettare che cada la prima tessera del domino - Jimmy Butler o chi per lui - e tra qualche giorno inizierà il solito frenetico via vai. Il resto, come si dice in questi casi, sarà storia.