Corre l’estate del 1997. Alla radio impazzano Barbie girl degli Aqua e I'll be missing youdi Puff Daddy. Il mercato estivo della Serie A è caratterizzato da una serie di movimenti clamorosi: la Roma decide di affidare la panchina a Zdeněk Zeman, che attraversa il Tevere dopo aver allenato la Lazio fino alla stagione precedente; Massimo Moratti acquista il Ronaldo "il fenomeno" per 48 miliardi di lire; Vittorio Cecchi Gori lancia nel grande calcio l’ex allenatore del Chievo, Alberto Malesani; il Bologna di Giuseppe Gazzoni Frascara mette sotto contratto un certo Roberto Baggio.
A Genova, mentre il Genoa langue in Serie B, si è appena chiuso il proficuo quinquennio blucerchiato che ha visto in panchina lo svedese Sven-Göran Eriksson, appena passato alla Lazio. Il presidente della Sampdoria, Enrico Mantovani (figlio del compianto Paolo), per sostituirlo vuole mettere a segno un colpo a sorpresa. La prima idea è quella di affidare la squadra a Paulo Roberto Falcão. "L’ottavo re di Roma" da allenatore ha avuto meno fortuna che da calciatore. Ha provato a guidare la Seleçao, ma nella Copa América del 1991 ha perso in finale contro l’Argentina. Poi un breve passaggio in Messico con il Club América, qualche mese alla guida della squadra che lo aveva lanciato nel grande calcio, cioè l’Internacional di Porto Alegre (con cui comunque vince il campionato statale del Rio Grande do Sul, un breve regno da commissario tecnico di un Giappone che si sta da poco aprendo al professionismo. Insomma, non molto, eppure Mantovani è convinto che Falcão è quello che serve alla Samp in quel momento. Le trattative tra la società blucerchiata e l’ex fuoriclasse brasiliano, però, si arenano. A quanto pare, come ricorderà anni dopo Enrico Mantovani, Falcão era tentato da altre offerte (per la verità tornerà ad allenare solo nel 2011, quando tornerà ad allenare l'Internacional).
La Sampdoria decide quindi di virare su un altro nome a sorpresa, un altro tecnico sudamericano, ideale per lavorare con una società particolarmente attenta al mercato latinoamericano. Il nome in questione è quello di César Luis Menotti, reduce dall’avventura sulla panchina dell’Independiente, preso in mano due anni dopo l’ultima panchina con il Boca Juniors.
Per l’ex commissario tecnico dell’Argentina campione del mondo nel 1978 quella con la Samp sarà la terza avventura europea dopo quella ben nota alla guida del Barcellona di Diego Maradona (tra il 1983 e il 1984) e quella meno conosciuta con l’Atlético Madrid tra il 1987 e il 1988. Quelle due esperienze avevano dato segnali contrastanti sulla reale capacità di Menotti di confrontarsi con il calcio europeo. A Barcellona il tecnico argentino aveva concluso la stagione con alcuni buoni successi, arrivando terzo nella Liga e vincendo una Supercoppa di Spagna. Con i colchoneros, invece, era stato sollevato dall’incarico dopo 29 giornate di campionato, nonostante non stesse facendo malissimo. L'Atletico Madrid aveva ingaggiato un testa a testa con il Real in testa alla classifica fino a poche giornate prima, ma una striscia di sei partite senza vittoria culminata nella sconfitta contro la "Casa Blanca" era stata decisiva per il suo esonero.
La Samp rappresenta per Menotti un’opportunità per tornare a far vedere il suo gioco in Europa, per di più in quello che allora era considerato il campionato più importante del mondo. L’Italia rappresenta anche una sorta di sfida intellettuale per il Flaco. «Voglio misurare la mia cultura e la mia esperienza in un calcio competitivo e iper professionistico come quello italiano», disse in una delle sue prime interviste da allenatore della Samp. Menotti introduce subito delle novità nei suoi metodi di allenamento. L'allenatore argentino fa usare il pallone fin dai primi giorni del ritiro, in un’epoca in cui l’allenamento della forza fisica è ancora preponderante, e abbandona le tradizionali corse nei boschi: «Quando il calcio si giocherà in montagna porterò la squadra in montagna», dice. «Per caso gli alpinisti si allenano sui campi di calcio?» aggiunge. La parola d’ordine è qualità, «e nel calcio la qualità è offrire qualcosa di bello al tifoso, alla gente, al popolo».
Certo, la Samp che attende Menotti è una squadra in transizione. Non solo ha cambiato guida tecnica ma ha anche perso il suo giocatore più talentuoso e rappresentativo, quel Roberto Mancini che da qualche settimana ha deciso di seguire Eriksson alla Lazio. Sulla carta la rosa a disposizione di Menotti sembra comunque di tutto rispetto, con la conferma di giocatori come Vincenzo Montella, Christian Karembeu, Alain Boghossian, Pierre Laigle e anche Siniša Mihajlović, trasformato da Eriksson da laterale sinistro in eccellente difensore centrale. A questi nomi va aggiunto quello di Juan Sebastián Verón, trattenuto a Genova nonostante le molte richieste pervenute.
Sotto l'intelaiatura della squadra, però, non mancavano i problemi. Karembeu aveva già la testa al Real Madrid, squadra a cui si era promesso da tempo e a cui alla fine riuscì ad approdare nella sessione invernale del 1997. In avanti, poi, accanto a Montella c’era uno Jürgen Klinsmann non più all'apice della carriera e che a sua volta lascerà il club nel mercato di riparazione (ritrovando poi una seconda giovinezza al Tottenham). Le alternative ai due attaccanti titolari erano il semi-sconosciuto inglese Daniele Dichio e "il Cobra" Sandro Tovalieri, vecchio bucaniere delle aree di rigore. Anche più indietro c'erano alcune falle, col trentaduenne portiere ex Atalanta Fabrizio Ferron che finirà spesso ad essere chiamato in causa per rimediare agli errori dei compagni di reparto. Menotti, poi, non era l'unica grossa scommessa fatta quella stagione. Oltre a lui, infatti, la Sampdoria aveva anche versato 8 miliardi nelle casse dell’Independiente per assicurarsi l’argentino Ángel "Matute" Morales, voluto fortemente proprio da Menotti, e rimasto a Genova solo per sei mesi dopo un unico gol alla Juventus.
Nonostante tutte queste incognite, la partenza di quella Samp è buona, con 8 punti conquistati nelle prime quattro uscite in campionato contro il Vicenza di Francesco Guidolin, il Brescia, l’Atalanta e la Juventus di Marcello Lippi.
La vittoria ottenuta in trasferta a Bergamo per 0-2 proietta addirittura la squadra di Menotti al secondo posto in classifica. È il momento di massima illusione intorno a Morales, che serve l’assist per la rete di Montella. La Sampdoria, come viene descritta da Bruno Perruca de La Stampa, in quel momento è "piacevole, di certo meno bella della precedente orchestrata da Mancini, ma totalmente pratica, capace di chiudersi senza perdere la testa, mantenendo la lucidità necessaria per rispondere in verticale sfruttando le due punte".
La buona partenza blucerchiata, però, si rivela essere un fuoco di paglia. Il 30 settembre la Samp esce dalla coppa UEFA, eliminata dall’Athletic Bilbao dopo un doppio confronto che vede la Samp perdere sia all’andata (1-2 a Marassi) che al ritorno (2-0 per i baschi). La squadra di Menotti paga soprattutto gli errori della gara in casa, in particolare quelli sotto porta di Montella. A sotterrare le esperienze europee della squadra genovese sono il gol realizzato su azione da calcio d’angolo da Roberto Ríos e il raddoppio in contropiede messo a segno nel secondo tempo da Iñigo Larrainzar.
Dopo l'eliminazione dalla coppa UEFA, la Samp entra in crisi, conquistando appena tre punti in quattro uscite, per un totale di 11 punti conquistati in 8 giornate. A far precipitare le cose, da un punto di vista emotivo ancora prima che di classifica, è la sconfitta rimediata il 9 novembre 1997 a Roma, proprio contro la Lazio di Eriksson e Mancini. È un netto 3-0, firmato da Dario Marcolin, Pavel Nedvěd e Alen Bokšić.
Per Menotti è troppo. Dopo un incontro di sei ore con la dirigenza blucerchiata, l'allenatore argentino (accompagnato dal vice Rogelio Poncini e dal preparatore atletico Fernando Signorini, ovvero l’uomo che mise a lucido Diego Maradona in vista dei Mondiali del 1986) decide di lasciare Genova. Decisivo il rifiuto da parte della dirigenza blucerchiata di venire incontro alle richieste di Menotti sul mercato, che la società non riteneva necessari. «Non avrei avuto più stimoli per continuare il mio lavoro: meglio chiudere qui», dice il Flaco poco prima di andarsene. Al suo posto Enrico Mantovani, forse scottato da questa scommessa finita male, richiamerà quel Vujadin Boškov che aveva portato alla Samp il suo unico scudetto (1990-91) e la finale di Coppa dei Campioni a Wembley contro il Barcellona nel 1992.
Cos'è che non ha funzionato nella breve esperienza di Menotti a Genova? «Menotti era una persona straordinaria, ci siamo trovati benissimo», mi ha detto Sandro Tovalieri, che ho sentito per questo pezzo «Non ha mai avuto contrasti con lo spogliatoio, era sempre disponibile. Odiava i lavori lunghi e fisici in ritiro. Forse la preparazione fisica estiva non era adeguata e, a un certo punto, è finita la benzina. La squadra, però, era sempre messa bene in campo da un punto di vista tattico».
Forse ha pesato anche una certa storica diffidenza verso i tecnici stranieri, che ha portato le cose a precipitare prima del previsto, e un'avversione al rischio, che è un'altra caratteristica storica della nostra cultura. Lo disse lo stesso Menotti, a incipit di una stagione che alla fine lo vide sostituito da un usato sicuro che poi così sicuro non sarà (la Samp chiuse la stagione nona in campionato, qualificandosi per l’Intertoto). «So che gli allenatori stranieri non hanno vita facile qui da voi», disse in quell'occasione Menotti «L'esempio di Tabárez è significativo. Óscar è un grande tecnico eppure è stato esonerato dal Milan dopo pochi mesi [nella stagione precedente, nda]. Devo anche aggiungere che chi lo ha sostituito [Arrigo Sacchi, anche lui di ritorno al Milan, nda] non è riuscito a fare di meglio. Questo per dire che nel calcio il passaporto conta poco, contano tantissime altre cose».
Menotti se n'è andato lasciando una carriera in cui viene ricordato più per la sua esperienza con l'Argentina che come allenatore di club. Eppure, come ha ricordato Fabrizio Gabrielli, l'allenatore argentino aveva ragione su una cosa, e cioè che «ci sono solo due cose che sono più importanti dei titoli, il riconoscimento e il rispetto». E se ancora oggi ricordiamo la sua breve esperienza in Italia, le sue parole, i suoi metodi, be', vuol dire che Menotti è riuscito ottenerli, nonostante tutto.