Se seguite anche solo distrattamente il basket in generale, e quello NBA in particolare, vi sarà capitato di imbattervi nella parola “Small Ball”. Questo neologismo - che deriva dal baseball - serve per dare una definizione, a grandi linee, di quello che oggi è il modo di giocare più standardizzato e utilizzato nella pallacanestro contemporanea.
"Small Ball" significa schierarsi in un assetto tattico composto da quattro giocatori con caratteristiche da esterni (invece dei canonici tre, Point Guard, Shooting Guard e Small Forward) ed eventualmente un solo giocatore interno (invece dei classici due, Power Forward e Center), ma assume declinazioni molto diverse a seconda del materiale umano e tecnico a disposizione. L’obiettivo è quello di creare maggiori e migliori opportunità per attaccare e difendere meglio: il gioco è talmente evoluto che sacrificare giocatori d'area per avere in cambio più agilità, velocità e soprattutto spazio di manovra è diventata una necessità non solo per vincere, ma per sopravvivere nella Lega.
Negli ultimi due anni i Golden State Warriors hanno seminato il terrore nella lega con il "Death Lineup", il loro miglior quintetto composto da Stephen Curry, Klay Thompson, Andre Iguodala, Harrison Barnes (e da oggi al suo posto Kevin Durant) e Draymond Green, ovvero nominalmente due guardie e tre ali, tutti attorno ai due metri (tranne Steph) e nessun centro statico. L'apoteosi dello Small Ball.
“Giocare piccolo” ha significato rompere gli equilibri di un basket limitato entro i confini dei cinque ruoli classici (usando gli acronimi inglesi: PG, SG, SF, PF e C) e sui precetti canonici del gioco, dando vita ad una vera a propria rivoluzione che senza gli innumerevoli mutamenti accaduti negli ultimi 30 anni non sarebbe potuta accadere: la regola dei 3 secondi difensivi, l'introduzione dell'hand checking, l'evoluzione fisica e atletica dei giocatori, le nuove metodologie di allenamento e di recupero dallo sforzo fisico, la preparazione tattica degli allenatori, la dirompente affermazione delle statistiche avanzate che hanno modificato la percezione dei dati e dei punti nevralgici del campo. Sono tutti piccoli tasselli che hanno spianato la strada allo Small Ball e cambiato per sempre il basket.
Come in natura, l'evoluzione del gioco si è verificata per spirito di adattamento all'ambiente circostante, per trovare una risposta a un quesito esistenziale - in questo caso la necessità di allargare gli spazi per adattarsi alle nuove geometrie che il gioco ha imposto negli ultimi 10/15 anni su entrambi i lati del campo. Prima dell'introduzione del tiro da 3 punti andare piccoli era poco conveniente: il gioco si sviluppava entro i 4/5 metri dal ferro, quindi era necessario controllare i tabelloni e il vantaggio sotto canestro era indispensabile per poter avere più chance di vittoria. In soldoni: chi aveva più centimetri, chili e talento nei tre ruoli della frontline (SF, PF e C) era favorito. Tirare da 7 metri non portava nessun beneficio in più di un tiro da 4 metri e solo pochi specialisti - prevalentemente i giocatori del backcourt (PG e SG) - avevano l'ardire di scagliare un tiro da così lontano.
Ovviamente già allora c'erano delle eccezioni, a partire dalla famigerata "Banda Bassotti" milanese che a fine anni ‘70 arrivò in finale Scudetto sotto la guida di Dan Peterson, plasmando la mente di un giovane Mike D'Antoni, che di quella squadra era il playmaker. Ma erano, appunto, eccezioni.
Don Nelson, il Pioniere
Immaginatevi Don Nelson come uno scienziato pazzo dietro a mille alambicchi che mescola gli elementi alla ricerca della formula perfetta. I suoi primi esperimenti con lo Small Ball si intravidero già quando era alla guida dei Milwaukee Bucks, e sul finire degli anni ‘80 amava azionare la catapulta di Manute Bol da oltre la riga da tre punti, nonostante i suoi 230 centimetri suggerissero un utilizzo nei pressi del canestro.
Nelson fu uno dei primi a intuire che si poteva togliere uno dei due lunghi per inserire un esterno in più. Abbassare il quintetto a quei tempi era vista come una mossa suicida, visto il rischio di essere annientati nel pitturato e a rimbalzo offensivo (due problematiche che, seppur in modo minore, esistono anche oggi), per cui il coach - affascinato dalla logica della "Run & Gun" di Doug Moe a Denver - disse ai suoi di correre, aumentare il numero di possessi per sopperire all'assenza di centimetri e preparare il terreno alla potenza di fuoco del trio Tim Hardaway, Mitch Richmond e Chris Mullin, comunemente ribattezzati "Run TMC" dalle iniziali dei loro nomi.
Canestro subìto? No problem, si corre lo stesso
Nel 1991 il trio delle meraviglie collezionò oltre 60 punti a partita, con un unico vero centro a roster (Alton Lister) e i lunghi che giocavano di più, Rod Higgins e Tom Tolbert, che superavano a fatica i 20 minuti di media. Fu in questi anni che il termine Small Ball iniziò a prendere piede, anche se legato a doppio filo alla concezione run & gun, corri e tira. Ed infatti era così: il loro gioco era un incessante isolamento in uno contro uno delle tre stelle e gli altri avevano l'obbligo di togliersi di torno e lasciare un quarto di campo libero. Niente di particolarmente strutturato.
Il loro più grande risultato fu di eliminare al primo turno la testa di serie numero 2 ad Ovest, i San Antonio Spurs: troppo poco per una squadra che voleva rivoluzionare il gioco. I Warriors erano divertenti da vedere, ma per nulla concreti. Nonostante tutto però Nelson aprì la strada verso un modo nuovo di vedere il basket.
Giocare small diventò una variante tattica che molti coach iniziarono ad utilizzare: ad esempio i Phoenix Suns di Paul Westphal per sfruttare la poliedricità di Charles Barkley in tre ruoli, o anche i Chicago Bulls del secondo MJ con Tony Kukoc nel ruolo tattico di ala piccola/ala grande/point forward nella Triple Post Offense, con Dennis Rodman (due metri scarsi di altezza) a prendersi cura di tutto ciò che avveniva nell'area dei 3 secondi e i tre esterni Harper, Pippen e Jordan a imporre la loro superiorità fisica sui diretti avversari, di fatto equilibrando il deficit di stazza nei pressi del canestro.
Lo stratagemma di Rudy Tomjanovich
Nel 1994 a Houston le nottate di Rudy Tomjanovich erano infestate dagli incubi su come marcare Charles Barkley: Otis Thorpe, la PF titolare, era troppo lento per marcare Sir Charles e i continui raddoppi aprivano opportunità a tiratori come Dan Majerle o Danny Ainge. Preso dalla disperazione, provò a spostare i 208 centimetri di Robert Horry, un'ala piccola purissima che portava palla, nel ruolo di ala grande: Horry era lungo, ben piazzato, ma anche agile e dotato di un buon tiro da tre punti (qualità che nel corso della sua carriera, nei momenti topici della stagione, gli avrebbe procurato il soprannome di “Mr. Big Shot” e più anelli di quanti ne servano per riempire una mano). Ben presto Tomjanovich si accorse che oltre ai benefici difensivi, anche l'attacco iniziò a trarne giovamento dallo spostamento di Horry, permettendo a Hakeem Olajuwon di essere circondato da quattro tiratori ed avere molto spazio per vivisezionare gli avversari in post basso.
A Tomjanovich si deve la nascita dello "Stretch Four", un ruolo inizialmente pensato per un’esigenza difensiva poi divenuto determinante in attacco, che avrebbe cambiato il modo di giocare a basket e spinto sempre di più i coach ad abbracciare un tipo di gioco più perimetrale, spianando la strada all’ascesa dello Small Ball.
La rivoluzione D'Antoniana
Nel frattempo in Europa Mike D'Antoni, dopo aver appeso le scarpe al chiodo ed essere diventato allenatore di Milano prima e Treviso dopo, sperimentava un gioco basato su quintetti piccoli e uso massiccio del pick & roll come arma principale per innescare l'attacco, e non più solo come valvola di sfogo a giochi rotti.
In un'intervista del 2015 sul sito dell’Olimpia Milano ha affermato: «La mia idea di Small Ball nacque a Milano non perché fossi particolarmente intelligente, ma perché non avevo altra chance e mi ha salvato. Perdemmo sei gare di fila di un punto, tutti mi criticavano, sentivo la pressione e allora spostai Riccardo Pittis da ala forte, Fabrizio Ambrassa in quintetto, dando più spazio per Flavio Portaluppi. Avevamo tiratori, avevamo spazio in campo, Pittis faceva tutto e Djordjevic era un giocatore fantastico in regia. Dopo abbiamo vinto tipo 21 partite su 22. È stata una mossa fortunata».
A fine 2003 D'Antoni, assistente ai Suns, venne promosso capo allenatore e l'anno successivo in Arizona arrivò Steve Nash. Fu la svolta: D'Antoni dette le chiavi dell'attacco al playmaker canadese e varò un quintetto in cui Shawn Marion (nominalmente un’ala piccola) venne spostato in ala forte facendo slittare Amar’e Stoudemire da centro. Non era la prima volta che lo Small Ball veniva usato per aprire il campo a un esterno - Larry Brown ai Sixers giocava spesso con quattro piccoli per favorire le incursioni di Allen Iverson - ma fu la prima volta che giocare small divenne una prerogativa per rendere pericoloso ogni giocatore in campo, non soltanto la stella.
L'ex playmaker di Milano e della Nazionale nel suo quadriennio a Phoenix trascinò i Suns a un record complessivo superiore al 60% di vittorie e stravolse tutti i dogmi della lega usando in pianta stabile un quintetto senza centri convenzionali (e Boris Diaw come antesignano del “Playmaking Four”, su cui torneremo dopo), ma infarcito di tiratori per fare spazio al devastante pick & roll Nash-Stoudemire con il chiaro intento di stanare i lunghi avversari dall'area, aprire il campo e cercare il primo buon tiro disponibile.
Quei Phoenix Suns uscirono dall'anonimato in cui si erano cacciati nel dopo Barkley e divennero la squadra più divertente della lega, con Nash capace di vincere il titolo di MVP per due anni consecutivi e D'Antoni elevato nell'olimpo dei coach NBA. Il loro marchio di fabbrica era la velocità di esecuzione e l'alto ritmo a cui viaggiavano in attacco: non perdevano tempo a passare la metà campo, non perdevano tempo a chiamare schemi, utilizzavano un flusso di gioco continuo che in una manciata di secondi - seven or less - da quando prendevano possesso del pallone li proiettava già in attacco, permettendo di avere continuità di rendimento anche contro una difesa schierata.
Da allora ogni squadra NBA, coscientemente o no, ha iniziato a usare i concetti del contropiede e della transizione d'antoniana: a differenza dell'anarchia del "run & gun", il suo attacco "up-tempo" era un sistema di gioco estremamente strutturato, coinvolgeva tutti e 5 i giocatori in campo e permetteva di competere ad armi pari contro tutti. Ma gli scettici continuavano a sostenere che senza un “lungo dominante” ed un sistema di gioco “più tradizionale”, vale a dire meno dipendente dal tiro da tre punti, non si potesse vincere.
Dicevano inoltre che i Suns non difendevano, sebbene fossero quantomeno in media con il resto della lega negli indici statistici più importanti. Il problema era che in quegli anni l'ovest era proprietà dei San Antonio Spurs di Gregg Popovich (assistente di Nelson ai Warriors al tempo del "Run TMC", tra l’altro), di Tim Duncan e i loro pretoriani, che furono la bestia nera dei Suns in quelle incandescenti sfide ai playoff di metà dello scorso decennio, tra partite epiche, risse e sospensioni. I Suns purtroppo implosero nel momento in cui D'Antoni divenne troppo estremo verso la sua creatura, soprattutto per le rotazioni strettissime che logoravano il quintetto base, che lo portò a perdere la fiducia dei suoi giocatori e infine ai ferri corti con la proprietà.
Il suo successo però ispirò gli altri allenatori. Uno che trovò molto interessanti le teorie di D'Antoni fu Stan Van Gundy, alla ricerca di un sistema da strutturare attorno al talento del giovane Dwight Howard per far valere la sua esplosività nell'area dei tre secondi. Negli anni ‘80, il segreto dello "Showtime" dei Lakers era Magic Johnson e la sua capacità di prendere rimbalzi e aprire direttamente il contropiede partendo da solo in palleggio. Poi arrivarono i Bulls di Phil Jackson che, usando la Triple Post Offense, eliminarono la figura del “playmaker classico”, dato che nel quintetto Harper-Jordan-Pippen-Kukoc-Rodman chiunque, anche Rodman, poteva portare palla e spingere la transizione da rimbalzo.
Van Gundy diede il suo personale contributo alla Small Ball affiancando a una point guard pura un altro trattatore di palla che potesse innescare velocemente la transizione da rimbalzo: i Magic andavano in attacco utilizzando i concetti dantoniani con due tiratori che riempivano gli angoli, ed erano quindi Hedo Turkoglu e Jameer Nelson a giocare i pick & roll con un Dwight Howard inarrestabile se azionato in movimento.
Con il suo sistema 4 fuori-1 dentro i Magic diventarono una delle forze emergenti della Eastern Conference al pari dei Detroit Pistons e dei Cleveland Cavaliers, in grado di raggiungere una Finale NBA giocando un basket armonico fino a che i rapporti tra il coach e Howard, oltre il calo fisico di Turkoglu e Rashard Lewis (lo stretch four dei Magic), non li dissolse nell’anonimato in cui si ritrovano ancora oggi, visto che non sono più tornati ai playoff da allora.
Pace & Space
Nell'estate del 2011 Erik Spoelstra, reduce dalla finale persa contro i Mavericks e alla ricerca di un modo per far convivere James, Wade e Bosh nella metà campo offensiva, andò a ripetizioni da Chip Kelly, coach degli Oregon Ducks di football, per studiare i concetti alla base del suo sistema di gioco, che prediligeva la velocità di esecuzione e il timing. Erano gli albori del "Pace & Space", ovvero la filosofia di porre maggiore enfasi sulle spaziature e il movimento di palla per liberare l'estro dei giocatori, senza vincolarli a schemi e posizioni. Spostando Chris Bosh in pianta stabile nel ruolo di centro e incentivandolo a tirare da tre punti - la genesi dello "Stretch Five" - Erik Spoelstra pose le basi per la scuola di pensiero "positionless", teorizzata da alcuni pionieri del gioco osservando l’evoluzione di Magic Johnson negli anni ‘80 e l'ascesa di Penny Hardaway e Grant Hill negli anni ‘90.
La suddivisione dei ruoli canonica venne azzerata: potevano scendere in campo quintetti senza centri e senza playmaker, con 3 guardie o 3 ali, dovevano solo essere rispettate alcune regole di spaziature (come l’occupazione degli angoli sul lato debole, ribattezzabile anche come “Casa Battier”). Con tutta questa libertà d'azione un giocatore unico come LeBron James generava mismatch continui, palla in mano o lontano dalla stessa, mentre Chris Bosh si aggirava sul perimetro tenendo in scacco i lunghi avversari, indecisi se restare in area con il rischio di subire una tripla o aprirsi su Bosh lasciando il centro area alla mercé delle penetrazioni di James e dei tagli di Wade che al ferro, nel quadriennio Heat, hanno tirato con circa il 70%.
LeBron James è l'apoteosi del giocatore universale.
«Per tanto tempo abbiamo provato a pensare pallacanestro convenzionalmente, in termini di giocatori che giocano in ruoli determinati, ed è tutto molto limitante» - disse una volta Spoesltra, che al suo primo anno con gli Heatles schierava ancora centroni lentissimi come Zydrunas Ilgauskas o Erick Dampier - «con questo nuovo modo di giocare costringiamo gli avversari ad adattarsi a noi». Quello che il coach degli Heat intende dire è che per contrastare quella squadra bisognava conformarsi al suo assetto: se li affrontavi con due giocatori interni a protezione dei tabelloni ti massacravano con il tiro da tre punti e il gioco in velocità; se giocavi piccolo ti esponevano alla loro maggiore fisicità, su entrambi i lati del campo.
Il pace and space ha sovvertito la natura dei playbook, che prima erano molti rigidi mentre oggi sono estremamente flessibili, in cui la ricerca del mismatch e del più piccolo vantaggio è la chiave per scardinare anche la miglior difesa al mondo. Da non sottovalutare il fatto che quell'assetto tattico forniva agli Heat alcuni vantaggi difensivi rivoluzionari per lo Small Ball: i centimetri di Chris Bosh e la sua mobilità laterale permettevano a una squadra senza un vero e proprio protettore del ferro di aggredire difensivamente ogni portatore di palla, intrappolarlo in raddoppi e permettere a James e Wade di giocare sulle linee di passaggio; oppure dava tempo ai vari Mario Chalmers, Shane Battier, Mike Miller, Udonis Haslem di chiudere un tiro, generare una palla persa - di quelle che non entravano in nessun voce statistica riassumibili nel cosidetto lavoro sporco - o prendere uno sfondamento.
Uno dei segreti dello Small Ball sta nell’accettare uno svantaggio di centimetri e chili nel settore dei lunghi per imporne uno in quello degli esterni, come potevano permettersi queli Heat grazie a James e Wade, che all’occorrenza potevano anche andare a stoppare ad altezze vertiginose pattugliando la linea di fondo.
Prima della chase-down su Iguodala, la stoppata più spettacolare di LeBron alle Finals NBA.
La chiusura del cerchio: i Golden State Warriors
Di pari passo all'evoluzione degli attacchi, ovviamente, si sono evolute le difese. Pareggiare i giocatori in grado di stare sul perimetro in difesa ha portato a uno stallo quasi scacchistico, per colpa del quale il ruolo di Stretch Four è diventato un concetto antiquato. Con l'affermarsi del cambio sistematico, i difensori - sempre più strutturati fisicamente e atleticamente - possono seguire gli avversari lontano da canestro o limitarli qualora volessero avvicinarsi allo stesso, di fatto annullando il vantaggio di avere un lungo capace di tirare da fuori ma non di punire le difese in post basso.
Ecco quindi l'esigenza di spingere avanti la catena evolutiva con l'introduzione del "Playmaking Four", un giocatore che ha le caratteristiche balistiche dello Stretch Four a cui aggiunge il trattamento di palla e l'intelligenza cestistica di un playmaker. Ovvero colui che non solo deve finalizzare l'attacco con un tiro da fuori, ma deve far in modo che la squadra mantenga, ampli e concretizzi un vantaggio generato dal giocare piccolo con un penetra e scarica, con una sponda, leggendo un raddoppio o una rotazione difensiva una frazione di secondo in anticipo.
Se uno dei primi giocatori di questo tipo è stato Boris Diaw, oggi l’epitome del "Playmaking Four" è Draymond Green, che ha fatto raggiungere al concetto di Small Ball il suo apice. La sua presenza e il suo impatto su entrambi i lati del campo hanno permesso a Steve Kerr di "sbloccare" la miriade di quintetti piccoli che flagellano sistematicamente gli avversari, senza preoccuparsi di chi ha di fronte grazie alla sua capacità di cambiare su chiunque e allo stesso tempo di proteggere il ferro.
I Golden State Warriors hanno chiuso il cerchio: sono l'ultima fermata di un percorso iniziato sulla baia quasi 30 anni fa, hanno raccolto le esperienze, i fallimenti e i successi di chi prima di loro ha provato a avventurarsi nel sentiero dello Small Ball, mescolando idee e concetti per ottenere la miscela esplosiva che li ha resi campioni NBA e recordman ogni epoca di vittorie in regular season.
Steve Kerr ha modellato i Warriors sulla base delle idee dei maestri del gioco che ha seguito da vicino da giocatore o dirigente come Phil Jackson, Gregg Popovich e Mike D'Antoni, e durante il suo periodo da analista sportivo è entrato in contatto con altri luminari da cui ha assorbito nozioni e insegnamenti che opportunamente rielaborati ripropone in campo con la sua squadra. Gli Warriors iniziano le gare con un quintetto classico con Green da "4" - in un'altra epoca sarebbe stato un "3" sottodimensionato - ma appena possono tolgono il centro (ieri Bogut, oggi Pachulia) - e schierano i 198 cm mal contati dell'ex stella di Michigan State da "5".
Il "Death Lineup" rappresenta quindi la somma di tutte le sue evoluzione descritte sopra: tutti i giocatori in campo sono ottimi trattatori della palla, sublimi tiratori (il peggiore è Iguodala con il 35% che ha dato prova di mettere tiri pesanti nei momenti caldi), passatori eccezionali e bloccanti di alto livello, che si muovono in campo in modo armonico e spaziandosi con grande efficacia.
Avete realizzato che a ricevere quel pallone non ci sarà più Harrison Barnes ma Kevin Durant, vero?
Ma il Death Lineup, come lo Small Ball moderna in genere, non è solo attacco, è anche e soprattutto difesa: tutti - a parte Steph Curry, ritenuto l'anello debole della catena e per questo sistematicamente puntato dagli attacchi avversari negli scorsi playoff - possono cambiare su chiunque, piccoli o lunghi, e pur non avendo centimetri, la struttura fisica di Thompson, Iguodala, Green e da oggi anche di Durant permette di non avere svantaggi nei pressi del ferro, utilizzando la velocità per anticipare qualsiasi tentativo di ricezione in post basso.
Quando Draymond Green, l'anima della squadra, è stato intervistato circa l'arrivo di Kevin Durant, ha parlato pochissimo del suo ruolo in attacco, ma ha focalizzato l'attenzione del cronista sui vantaggi di cui la squadra avrebbe beneficiato in difesa. Prima del tracollo in finale di conference, Kevin Durant era stato la kryptonite dei Warriors con la sua capacità di cambiare sui pick & roll e le sue lunghe leve che sporcavano dozzine di palloni. Il Death Lineup irretisce gli avversari in difesa e poi li distrugge con la potenza di fuoco abbinata al vorticoso movimento con e senza palla di Curry & soci.
Se i Miami Heat hanno dimostrato che si può vincere con una versione supercharged dello Small Ball, gli Warriors hanno rotto un dogma che perdurava dalla memoria dei tempi dimostrando che nella NBA si può vincere pur essendo un “jump shooting team” e giocando senza centri, con 5 esterni puri che non vanno sotto contro nessuno in difesa e tanto tiro da tre.
Il Futuro
Il futuro dello Small Ball paradossalmente è nelle mani di tre giocatori che si apprestano ad affrontare solo il loro secondo anno di NBA. Stiamo parlando di Karl-Anthony Towns, Kristaps Porzingis e potenzialmente Myles Turner, ovvero centri moderni dotati di capacità fisiche e abilità uniche in grado creare un nuovo ruolo, il “Playmaking 5”, con tutto ciò che ne consegue in termini di benefici per l'attacco e per la difesa.
Per alcuni - Phil Jackson incluso, che ha accarezzato l’idea di uno sviluppo di Porzingis da ala piccola - parlare di centri che giocano a 8 metri dal canestro è considerato un sacrilegio. Ma un "5" che si trova a suo agio oltre l'arco, capace di tirare, passare e mettere palla a terra per tenere sotto pressione la difesa, costringe il baluardo difensivo tanto in voga al giorno d'oggi, il "rim protector", a snaturarsi e a uscire dalla sua zona di pattugliamento nei pressi dell’area, ponendo quesiti complicati agli avversari, che devono ripensare a tattiche e strategie alternative per aggirare l'ostacolo. Inoltre questi giocatori così atipici mantengono intatte le doti tecniche, fisiche e tattiche di competenza di un lungo che si rispetti anche nella propria metà campo - protezione del ferro, controllo dei tabelloni e mobilità laterale per cambiare sui pick and roll.
Infine ci sarebbe quello scherzo della natura greco che gioca a Milwaukee, un atleta eccezionale distribuito su 213 centimetri affusolati che porta a spasso con una coordinazione sorprendente. Fino ad oggi non si era mai visto un giocatore come Giannis Antetokounmpo.
È giovane e in quanto tale ancora immaturo e ingenuo, ma ha il potenziale per diventare il giocatore totale, in grado di marcare effettivamente (e non più solo teoricamente) tutti e 5 i ruoli e le loro varie sfumature. Può prendersi in carico i lunghi e oscurargli il canestro, può mettere pressione sulla palla scivolando insieme ai playmaker o correre sui blocchi con le guardie, difendere sui pick & roll nella duplice veste di lungo e di esterno, con due falcate può coprire la distanza che lo separa da un tiratore appostato sul perimetro, e con le sue interminabili braccia arriva su ogni pallone vagante che gli gravita attorno. La via verso l’immarcabilità è a distanza di un tiro da fuori credibile, che con il tempo (si spera) arriverà. Nel frattempo coach Jason Kidd lo impiega in ogni ruolo anche nella metà campo offensiva, cucendogli addosso un ruolo da jolly che lo porta ad essere il playmaker designato dei suoi in possesso, e quello dopo rollare a canestro per ricevere un alley-oop lanciato mezzo metro sopra al ferro.
Tutto ciò rende l’assetto tattico dei Milwaukee Bucks estremamente variabile, con la possibilità di sperimentare una sorta di Small Ball estremo che in quanto tale può prendere le direzioni più disparate, non necessariamente quelle auspicate in fase di progettazione. È una squadra molto acerba, ancora troppo grezza, ma è composta da giocatori con caratteristiche fisiche peculiari: uno dei possibili quintetti che vedremo in campo nella prossima stagione potrebbe essere composto da Antetokounmpo e Michael Carter-Williams a spartirsi i compiti di regia, Khris Middleton e Jabari Parker a martellare il canestro e l'oggetto misterioso Thon Maker a sparigliare le carte. Nessuno di questi giocatori ha un ruolo definito, ma tutti superano i 200 cm di altezza (con i picchi del greco e del sudanese oltre i 210 centimetri) e nessuno ha un'apertura alare inferiore ai 200 centimetri dell'ex Syracuse. Per intendersi: se tutti e 5 aprissero le braccia allo stesso tempo, riuscirebbero a mangiare lo spazio vitale di un attacco medio NBA, e non appena - e se - troveranno un modo di fare canestro dall'altra parte del campo, potremmo assistere a qualcosa di mai visto finora.
Tradurre il potenziale di questa nuova ondata di giocatori in uno nuovo standard è un sentiero appena esplorato, il primo passo di un processo più lungo, ma il talento, la fluidità con cui il Gioco scorre nelle loro vene fa ben sperare in loro come prescelti dell'ennesima rivoluzione cestistica. Il Gioco non si ferma mai, ed è questo che lo rende continuamente intrigante.