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Bronny James e la questione del nepotismo
08 nov 2024
Cosa ci hanno detto le prime settimane della sua carriera.
(articolo)
11 min
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IMAGO / UPI Photo
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Secondo la definizione dell’enciclopedia Treccani, il nepotismo è “il favoreggiamento, in genere di parenti e amici, nell’assegnazione di uffici, incarichi e posti di lavoro”. Sin da quando è diventato chiaro a tutti che Bronny James sarebbe stato scelto al Draft dai Los Angeles Lakers, squadra nella quale gioca suo padre LeBron James, in tanti si sono chiesti se la sua selezione alla numero 55 si configurasse come un caso di nepotismo. In un certo senso, lo ha ammesso LeBron James: «I bambini hanno sempre grandi sogni: da genitore cerchi di metterli nelle migliori condizioni per renderli realtà», cosa che lui ha fatto in tutti i modi possibili e immaginabili. Se non fosse stato il figlio di LeBron, i Lakers lo avrebbero scelto in quella posizione? Stanno perdendo delle opportunità con altri giocatori dando un contratto garantito a lui invece che a un altro giocatore?

I dubbi non sono stati fugati neanche dopo le prime partite in gialloviola, sia quelle alla Summer League di Las Vegas che quelle in pre-season, dove nonostante tutti gli occhi fossero puntati su di lui, nessuno può davvero dire con certezza che cosa si sia visto. È un giocatore NBA? Lo sarà in futuro? Quale può essere il suo percorso di carriera? Solo di una cosa abbiamo avuto la riprova, ma lo sapevamo già: Bronny non è come suo padre, cosa che peraltro si può dire del 99.9% del resto del pianeta Terra. Il fatto di condividere con lui il patrimonio genetico non lo rende più vicino a uno dei migliori giocatori di tutti i tempi, purtroppo per lui e un po’ anche per noi.

Un’altra cosa che si può dire, e dalla quale qualsiasi opinione su di lui dovrebbe partire, è che Bronny James ha avuto un notevole coraggio nel decidere di diventare un giocatore di pallacanestro professionista, specialmente dopo quello che gli è capitato nel luglio del 2023. Durante un allenamento all’università di Southern California, infatti, Bronny ha avuto un arresto cardiaco, e se non fosse stato per il tempestivo intervento dello staff medico dell’ateneo forse oggi parleremmo di una storia ben più tragica rispetto a un giocatore scelto alla 55. In quel periodo la pallacanestro è comprensibilmente passata in secondo piano, e tutto sommato nessuno gliene avrebbe fatta una colpa se avesse deciso di mollare e non mettere a repentaglio la sua salute con lo sport professionistico. Non è certamente per soldi o per fama che ha deciso di continuare a inseguire il sogno di giocare in NBA: avrebbe potuto limitarsi a fare il “figlio primogenito di LeBron che ha avuto sfortuna”, godersi i suoi milioni di follower su Instagram (8.1 al momento in cui scrivo, più di Patrick Mahomes per dirne uno) con tutte le opportunità commerciali che ne conseguono e vivere una vita agiata sulle colline di Los Angeles facendo qualsiasi cosa gli passasse per la testa.

Invece è tornato in campo, si è rimboccato le maniche, ha affrontato una stagione tremenda a USC a livello di squadra ed è andato alla Combine del Draft mettendosi in gioco come uno dei tanti. Lo ha fatto dovendo sopportare una pressione mediatica assurda per il solo cognome che porta sulla schiena — cosa che lo ha reso di gran lunga il giocatore più chiacchierato dell’ultimo Draft, complice anche l’assenza di un prospetto di alto livello nelle prime posizioni —, e ciò nonostante non ha sbagliato una singola mossa pubblica. Ha sempre misurato le parole nella giusta maniera, non si è mai lasciato andare a gesti eclatanti o sopra le righe in campo e fuori, ha approcciato tutto con estrema professionalità nonostante i suoi 19 anni e ha eretto un muro attorno a sé, ben aiutato dalla sua famiglia. Bronny James è nelle nostre vite da sempre, lo abbiamo continuamente davanti agli occhi e sui nostri smartphone anche perché papà LeBron lo spinge a ogni occasione – anche a costo di apparire un po’ ridicolo, come quando dice «Bronny ha gestito tutte queste attenzioni molto meglio di quanto avrei fatto io alla sua età», visto che è stata la cosa che ha fatto meglio in carriera. Ma al di là di quanto sia sotto i nostri occhi, quanti possono dire di conoscerlo per davvero? Che cosa pensa realmente lui del circo che gli gira attorno?

Padre e figlio per la prima volta insieme

Nel giorno del suo attesissimo debutto, Bronny James è diventato l’attrazione numero uno dell’intera Opening Night della stagione NBA, ben più degli anelli di campioni consegnati ai Boston Celtics o alla prima partita da capo-allenatore di JJ Redick sulla panchina dei Lakers. Quando è entrato a 4 minuti dalla fine del secondo quarto, sul cubo dei cambi insieme al padre pronto a rientrare a sua volta, sfido chiunque a non essersi emozionato o a non aver provato un po’ di empatia immedesimandosi in quello che la famiglia James stava provando. Non era mai successo che padre e figlio giocassero insieme in una partita NBA e, per quello che ne sappiamo, potrebbe anche non accadere mai più, trasformando quell’ingresso in campo in un momento storico indipendentemente dal fatto che la consideriate una storia meravigliosa o una pagliacciata.

Come sono stati i 2:31 passati in campo da Bronny? Come quelli di un giocatore scelto al secondo giro che fa il suo debutto in NBA: un canestro subito in cui viene brutalizzato da Julius Randle, una deviazione sbagliata a rimbalzo offensivo, un errore al tiro su assist di suo padre, una buona difesa su Anthony Edwards prima di uscire. Emozioni tradite dal figlio? Zero. Il papà invece? «Sembrava di essere nel matrix, non sembrava neanche vero».

Quei 2:31 sono stati gli unici minuti disputati da Bronny in un contesto competitivo, scendendo poi in campo per gli ultimi 5:16 della pesante sconfitta subita a Cleveland chiamato a gran voce dal pubblico di casa, che lo ha visto crescere al seguito di suo padre sin dalla sua nascita. Lì è riuscito a segnare il suo primo canestro in carriera, un tiro dalla media distanza a gara ormai abbondantemente conclusa, dopo che nelle tre gare precedenti non aveva messo piede in campo.

Al di là del fatto che il canestro sia arrivato proprio a Cleveland, in molti non hanno potuto fare altro che notare come anche il primo canestro di LeBron fosse un tiro in sospensione dal mezzo angolo, e che Bronny abbia imitato il modo in cui papà raccoglie il palleggio prima di tirare. È successo davvero? O sono nostre allucinazioni perché vogliamo a tutti i costi vedere un rapporto causa-effetto anche dove non c’è, riconducendo ciò che accade a eventi del passato per rivivere attraverso Bronny almeno qualcosa di quello che abbiamo vissuto nella carriera di LeBron?

Pur con un campione di minuti così estremamente ridotto, di Bronny si è parlato tantissimo in questo inizio di stagione, anche perché è un argomento che riesce a trascendere la cerchia degli appassionatissimi e a coinvolgere un pubblico più ampio, perché chiunque può interessarsi alla storia di uno dei più grandi giocatori di sempre che scende in campo insieme a suo figlio. Con quel cognome sulla schiena, e con il fatto che il suo non sia un talento auto-evidente, è anche facile pensare che sia tutta una trovata di marketing e che Bronny non meriti davvero di essere lì. Ma chiunque abbia espresso con certezza che Bronny James non possa diventare un giocatore NBA sulla base di quei minuti, sta semplicemente mentendo.

Che giocatore è Bronny James

Chi ha seguito la sua evoluzione sin dai tempi del liceo a Sierra Canyon e poi in NCAA vi dirà che Bronny James ora come ora non è pronto per giocare minuti da rotazione in NBA. In un mondo normale, oggi sarebbe ancora al college — magari non a USC, dove tra allenatori saltati e uno spogliatoio non di primo livello lo scorso anno è stato un gigantesco casino per l’ateneo, ben al di là di Bronny — a lavorare sul suo gioco e sulla sua sicurezza nei movimenti con il pallone in mano, l’aspetto che più di ogni altro in questo momento gli preclude di giocare. Detto in altri termini, Bronny in questo momento non ha né il talento né soprattutto il palleggio di una guardia da rotazione NBA per creare separazione. E se non sai palleggiare non puoi muoverti per il campo, specialmente per un giocatore che non arriva all’1.90.

Anche in un contesto come la Summer League i suoi limiti, in questo momento del suo sviluppo, sono stati evidenti.

L’altezza è il singolo fattore che più di ogni altro determinerà le sorti di James Jr. C’è la concreta possibilità che si riveli un limite troppo grosso da superare nella metà campo difensiva, dove in tanti possono “tirargli sulla testa”, nonostante un fisico già ben definito e strutturato a dispetto della giovane età. Non è un portento atletico, ma Bronny è ben piazzato e può reggere i contatti di un pari ruolo, ma soprattutto sa di non potersi permettere un atteggiamento rilassato nella metà campo difensiva, motivo per cui è sempre mentalmente connesso alla gara. Bronny si sbatte da morire quando è in campo, cosa che potrebbe farlo finire nelle grazie dei suoi allenatori rispetto a giocatori molto più talentuosi di lui.

L’altro aspetto tecnico sul quale deve necessariamente lavorare è il tiro. Non avendo grandi capacità con la palla tra le mani, deve per forza costruirsi un tiro affidabile dalla lunga distanza per poter giocare sugli scarichi dei compagni più forti, punendo le difese che inevitabilmente lo sfideranno a prendersi conclusioni dall’arco o a mettere palla per terra contro i closeout. Nessuno gli chiede di essere un tiratore d’élite, ma quantomeno uno che non si può battezzare, andandosi poi a guadagnare minuti con l’intensità difensiva e con la capacità di lettura dell’azione, dato che il feel per il gioco sembra l’aspetto in cui i geni di papà hanno lasciato maggiormente il segno.

Perché Bronny è arrivato in NBA adesso

Se LeBron avesse avuto anche solo tre anni di meno, forse Bronny avrebbe potuto lavorare su tutto questo al college, prendendosi un ulteriore anno in NCAA per recuperare il tempo perduto per l’arresto cardiaco (cruciale nello sviluppo di un giocatore di appena 18 anni) e presentandosi un po’ più pronto per il basket dei grandi. Con papà ormai a pochi mesi dai 40 anni e il rischio concreto che un infortunio grave metta fine ai suoi giorni sul parquet da un momento all’altro, lo sviluppo di Bronny è stato accelerato per permettere loro di fare la storia giocando insieme, per quanto LeBron potrebbe anche essersi messo in testa di giocare anche con il secondogenito Bryce eventualmente a partire dal 2026-27.

Essere figlio di LeBron ha forse procurato a Bronny un posto in un roster NBA a cui non era pronto, ma di sicuro non gli assicurerà un posto in campo — come peraltro abbiamo visto in questo inizio di stagione, dove giustamente è l’ultima guardia della rotazione. Quello se lo deve guadagnare e potrebbe volerci moltissimo tempo, tanto che bisogna entrare nell’ottica di idee che potrebbe anche non accadere mai: si contano sulle dita di una mano i giocatori scelti alla numero 55 che si sono costruiti una solida carriera in NBA, e se escludiamo Luis Scola (che fa storia a sé, visto che uno come lui sicuramente sarebbe arrivato prima nella NBA di oggi), stiamo parlando di Patty Mills, Aaron Wiggins, E’Twaun Moore e Jeremy Evans come “best case scenario”. Ci sono molte più possibilità che Bronny James non diventi un giocatore NBA rispetto a quelle che esistono che lo diventi, almeno considerando lo storico della scelta 55 al Draft o più in generale degli undrafted.

D’altronde una carriera NBA non è garantita neanche per chi viene scelto al primo giro — ne è testimonianza per esempio Jalen Hood-Schifino, scelto dai Lakers alla 17 solo un anno fa, la cui opzione per il prossimo anno sul contratto non è stata esercitata — e non è assicurata solo perché si ha un padre famoso. Per ogni Steph Curry o Klay Thompson che ce l’hanno fatta, esistono invece le carriere dei Gary Payton II o degli Scotty Pippen Jr. che hanno dovuto combattere con le unghie e con i denti per procurarsi un’occasione in NBA. È molto più probabile che Bronny, nel caso in cui diventi materiale da NBA, segua la strada dei secondi rispetto agli Splash Brothers, e questo implica un bel po’ di G League nel suo prossimo futuro (dove è stato assegnato proprio in questi giorni), anche perché non è stando sul fondo della panchina che può lavorare sui suoi limiti.

Essere figlio di LeBron gli ha procurato un’opportunità di gran lunga migliore rispetto a quella di altri giocatori che non sono nati con il suo stesso privilegio, ma lo stesso si può dire per tutti quei giocatori che sono nati in famiglie benestanti, o che nascendo per esempio in California hanno avuto accesso a strumenti e strutture superiori rispetto a chi è cresciuto nel Wyoming. Togliendo per un attimo il focus dal campo per spostarlo sulle panchine, sulle dirigenze e ancor di più nelle proprietà delle squadre NBA (primi tra tutti i Lakers stessi, che appartengono alla famiglia Buss) il nepotismo è «dilagante», come l’ha definito Adrian Wojnarowski in occasione del Draft. Ma rimanere nella lega non è garantito solo perché hai scritto James Jr. sulla schiena, perché se non sei in grado di tenere il campo e diventi dannoso per la tua squadra, semplicemente non giochi. Con il livello di scrutinio che ha addosso Bronny, poi, i suoi difetti sarebbero ancora più sottolineati e ingigantiti, mettendo ulteriore pressione sui suoi allenatori.

Tornando sulla questione del nepotismo, la risposta che mi sento di dare in questo momento è anche l’unica che non fa click e interazioni, e cioè che non lo sappiamo. Non sappiamo se Bronny diventerà o meno un giocatore NBA, non sappiamo se i Lakers hanno perso l’occasione di prendere o tenere qualcun altro con il posto a roster che lui sta occupando, e non sappiamo se senza LeBron smetterà di giocare a basket o se diventerà un giramondo che verrà a calcare i campi in Europa pur di continuare a essere professionista.

Sappiamo però che tutto questo sarebbe anche potuto non accadere, e già solo il fatto che Bronny abbia voluto mettersi così tanto sotto i riflettori gli dovrebbe procurare un po’ di rispetto in più rispetto ai toni sprezzanti e macchiettistici con cui l’inizio della sua carriera è stato dipinto da fin troppe persone.

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