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Brooklyn anno zero
07 set 2016
Quella che potrebbe essere la squadra con il peggior record della stagione, rischia di essere anche una delle più intriganti.
(articolo)
12 min
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Immaginate di essere ancora al liceo. Siete uno studente di quelli goffi, oggetto di scherno quando non addirittura vittima di vero e proprio bullismo. Ci sono state un paio di occasioni nitide, momenti in cui la possibilità di cambiare il vostro destino è stata vicinissima, ma siete crollati a pochi metri dal traguardo. Dopo quegli episodi siete sprofondati di nuovo nella più totale marginalità, nessuno vi considera e i compagni di classe faticano a salutarvi.

Poi, quasi all’improvviso, succede qualcosa: una di quelle accelerazioni ormonali che, nel breve volgere di un’estate, trasformano il bocciolo di un adolescente in un adulto fatto e finito. Improvvisamente, all’avvio del nuovo anno scolastico, vi ritrovate a essere ambiti, chiacchierati e osservati con curiosità e invidia.

Questo è all’incirca il percorso storico dei Nets, passati dall’anonimato totale al ruolo di franchigia zimbello della lega, fino alle sconfitte in finale dell’era Jason Kidd, dall’arena nelle paludi del New Jersey al trasferimento in una Brooklyn dove il fenomeno di gentrificazione rivoluziona l’assetto urbano e regala le luci della ribalta al più popoloso tra i cinque borough newyorkesi.

Un piano

Quando i Nets sbarcano a Brooklyn, ci sono tutte le premesse per un futuro radioso: la loro nuova, modernissima casa si chiama Barclays Center e sorge nel cuore pulsante del quartiere; logo e divisa da gioco vengono ridisegnati all’insegna di uno stile minimal che ben si abbina alla nuova location. La proprietà è rappresentata da un magnate russo, Mikhail Prokhorov, che non pone limiti al budget spendibile, e il volto da mettere in copertina è la stella hip hop più amata da intere generazioni di giocatori NBA, Shawn Carter al secolo JAY Z. Fuori dall’ufficio di Billy King, GM a cui spetta il compito di assemblare una squadra subito all’altezza delle enormi aspettative, è atteso il formarsi di lunghe code formate da agenti, procuratori, tecnici e giocatori, tutti pretendenti alla maglia bianconera.

Chi non vorrebbe giocare in un’arena nuova di zecca, nel centro del quartiere emergente di quella che rimane la più importante metropoli del mondo e scambiare quattro chiacchiere con Beyoncé, Chris Rock o Adam Sandler a bordo campo? I dollari, poi, piovono come gocce durante un temporale, perché lo zio Mikhail non bada a spese.

Prokhorov espone il suo piano quinquennale citando Lenin, ma finendo per assomigliare più alla grottesca figura di un bullo di periferia che spadroneggia con gli amici al bar del quartiere.

A meno che non vi chiamiate Pat Riley o Cersei Lannister, però, i piani non vanno sempre come da previsione. Come succede ai più avventati tra gli agenti di borsa, molti dei quali fanno la spola tra Brooklyn e Wall Street, i Nets, nella foga della corsa alla gloria del giorno dopo, ipotecano il proprio futuro. Fortunatamente in questo caso non ci sono dimore di famiglia o fondi per l’istruzione dei figli da mettere in gioco, ma circoscrivendo la questione a logiche NBA, le dimensioni del disastro non sono molto dissimili.

All’inizio della stagione 2013/2014 i Nets si considerano, a torto o a ragione, pretendenti al titolo. Il quintetto di All-Star formato da Deron Williams, Joe Johnson, Paul Pierce, Kevin Garnett e Brook Lopez, guidato dall’eroe locale Jason Kidd passato direttamente dal campo (dei New York Knicks, tra l’altro) alla panchina, sulla carta sembra in grado di produrre un ultimo, disperato sforzo e contrastare i Miami Heat di Wade e LeBron, califfi della Eastern Conference. La realtà dirà un’altra cosa, ovvero che i Nets hanno superato i cugini e dirimpettai Knicks in quella che da molti anni è la specialità della casa: mettere sotto contratto ottimi giocatori, campioni indiscussi in molti casi, quando hanno da tempo oltrepassato il picco delle rispettive carriere.

Per ottenere quel quintetto e la squadra più costosa di sempre (almeno prima dell’arrivo degli ultimi Cavs di James), il GM King ha sacrificato le scelte — cedendole o dando la possibilità di scambio — ai successivi quattro Draft, elargendo a Danny Ainge un lasciapassare prezioso verso il rinnovamento dei Celtics. I risultati delle tre stagioni che seguono sono modesti, le guide tecniche si alternano senza fortuna e il roster viene smontato pezzo per pezzo fino a che, del progetto iniziale, non rimane il solo Brook Lopez. Non ci fossero i Sixers, Brooklyn sarebbe di gran lunga la franchigia peggiore della lega. Il record è leggermente migliore ma, a differenza della creatura plasmata dell’eccentrico Sam Hinkie, per i Nets a controbilanciare tanta mediocrità non c’è nemmeno la prospettiva di un futuro migliore.

L’unica soddisfazione dei Nets in quei tre anni, la vittoria in Gara-7 sul campo dei Raptors al primo turno dei playoffs (l’avventura finirà al turno successivo per mano degli Heat).

Anno Zero

Il celeberrimo piano quinquennale annunciato da Prokhorov ha appena scollinato verso la seconda metà, ma ormai appare chiaro a tutti come occorra tornare a valle e ricominciare verso un nuovo sentiero. Quello tracciato dalle spropositate ambizioni del patron russo ha condotto la franchigia a un punto morto, dal quale è difficile anche solo scorgere un approdo. Prokhorov, nel frattempo, si è dedicato ai suoi interessi finanziari e politici, riducendo sempre più la presenza al Barclays Center.

A rappresentare gli interessi della proprietà c’è ormai stabilmente Irina Pavlova, brillante donna d’affari figlia di diplomatico, formatasi tra Mosca e Stanford e con un passato da dirigente per Google in Russia. La Pavlova coadiuva il nuovo front office, concedendo ampio margine decisionale per quanto riguarda la gestione della squadra. Fin dall’impostazione dei rapporti tra proprietà e direzione tecnica risulta evidente il prototipo a cui i Nets intendono ispirarsi per tornare in auge: i San Antonio Spurs.

E la scelta del general manager, capo-cantiere su cui ricadrà l’onere di ricostruire la franchigia dalle fondamenta, orienta il futuro di Brooklyn verso quella direzione. La stagione regolare non è ancora finita, quando i Nets annunciano la posa della prima pietra del nuovo progetto. Sean Marks, neozelandese trapiantato in America da due decenni, è cresciuto all’ombra di Popovich e RC Buford, prima come giocatore e poi come apprendista dirigente. La missione che gli viene affidata è innanzitutto quella di guidare un cambio culturale. L’inversione di rotta rispetto alla direzione intrapresa precedentemente è di quelle brusche.

Dopo aver ringraziato la casa madre, Marks conduce una conferenza stampa di presentazione che trasuda Spurs-culture: approccio collaborativo, sviluppo dei giocatori, elaborazione di un sistema, espansione dello staff, il tutto condito con humor tagliente e programmatica tendenza a sdrammatizzare.

Il primo passo per Marks è rappresentato dalla scelta del coach. Dopo qualche settimana di speculazioni, tra le cui pieghe affiora il nome di Ettore Messina come papabile al pino dei Nets, Marks fa la sua mossa, per certi versi spiazzante. Kenny Atkinson, nativo di Long Island, è in qualche modo riconducibile all’albero genealogico nero-argento e, cosa che proprio non guasta per i gusti del nuovo GM, vanta una lunga esperienza in Europa. La scelta del coaching staff da affiancare ad Atkinson è ancor più rivelatrice delle architravi che sorreggono il nuovo progetto: lo sviluppo dei giocatori e un approccio globale alla pallacanestro. Tra i nomi selezionati ci sono rimandi all’area Spurs (Jacque Vaughn e Bret Brielmaier), professionalità di stampo internazionale (Chris Fleming e Mike Batiste), e specialisti in analisi statistiche e lavoro personalizzato sui singoli giocatori come Adam Harrington e Will Weaver.

Una volta decisa la guida tecnica e impostato il coaching staff, Marks indossa casco protettivo, scarpe antinfortunistiche e guanti spessi. C’è da restaurare il parco giocatori, ma prima occorre abbattere quel poco che ne rimane.

Lavori in corso

La situazione non è delle più semplici. La pietra angolare attorno a cui costruire rimane Brook Lopez, ex-All Star reduce da una serie di infortuni debilitanti e unico superstite dell’ambiziosa e fallimentare prima esperienza di Prokhorov come proprietario. La lista dei restanti giocatori sotto contratto è breve: Bojan Bogdanovic, Sean Kilpatrick e i due rookie scelti l’anno precedente, Chris McCullough e Rondae Hollis-Jefferson.

Insomma, se non è il punto zero poco ci manca. Marks non potuto nemmeno a intavolare un discorso con i free agent di prima fascia, pur disponendo in linea teorica dello spazio necessario a ingaggiarne addirittura un paio. Non è un mistero che la situazione critica in cui versa la franchigia, di fatto, costituisca un elemento di ostacolo all’approdo di giocatori che intendono guadagnare bene sì, ma anche piazzarsi in un quadro tecnico che permetta di giocare per vincere. Il neo-GM decide quindi di sfruttare lo spazio salariale a disposizione per provare a insidiare giocatori che sono restricted free agent, giovani con potenziale di miglioramento e reduci da stagioni promettenti. I profili individuati combaciano con quelli di Allen Crabbe e Tyler Johnson. Le consistenti offerte economiche avanzate da Brooklyn vengono però pareggiate, non senza qualche titubanza, dalle franchigie d’appartenenza, e i due rimangono rispettivamente a Portland e Miami.

Lo stallo dura poche ore, dopodiché Marks si convince a sacrificare uno dei pochissimi asset a disposizione pur di dare uno scossone al mercato dei Nets. Thad Young viene spedito a Indiana in cambio di Caris LeVert, scelto due settimane prima dai Pacers al numero 20 del Draft. L’approdo dell’ex-Michigan apre una settimana piuttosto intensa in casa Nets: negli otto giorni successivi vengono ingaggiati 9 giocatori, completando di fatto il roster per la stagione.

La firma più significativa è quella di Jeremy Lin, che quanto ad attitudine e mistica fuori dal campo sembra perfetto per caratterizzare il nuovo ciclo che Brooklyn si augura di aprire. L’ex-Charlotte vanta origini taiwanesi, una laurea in economia ad Harvard ed è quanto di più lontano dallo stereotipo del giocatore NBA. Per un quartiere a forti tinte hipster, che fa della multiculturalità uno dei propri tratti distintivi, risulta difficile immaginare un pretendente al ruolo di beniamino sportivo più azzeccato. La carriera di Lin, dopo i picchi hollywoodiani dell’esordio in maglia Knicks, è stata priva di particolari sussulti pur essendo transitata da Houston e Los Angeles, ma è reduce da un’ottima stagione a Charlotte. La speranza di coach Atkinson, che conosce Jeremy fin dai tempi in cui era assistente di D’Antoni, è che il giocatore, a cui per la prima volta vengono affidate le chiavi della squadra, possa replicare almeno in parte quanto mostrato in quell’ormai leggendaria striscia di partite. Il sogno dei Nets assomiglia parecchio al trailer di Linsanity 2, vendetta sull’altra sponda dell’Hudson.

Con l’affollamento di film-maker o aspiranti che popola Brooklyn, a Lin basterebbe anche molto meno di quanto combinato in maglia Knicks per garantirsi il secondo documentario biografico.

Il resto delle scelte comprende veterani di solida esperienza come Luis Scola, Randy Foye e Trevor Booker, qualche promessa che sembra perduta e si spera di recuperare come l’ex-prima scelta Anthony Bennett e Greivis Vazquez, giovani tutti da formare come Isaiah Whitehead, combo-guard cresciuta a poche miglia dal Barclays Center e arrivato da Utah via trade, e americani che si sono fatti le ossa in Europa come Justin Hamilton.

L’idea è quella di affidare le fortune della squadra al tandem Lin-Lopez, costruendovi intorno un cast di supporto formato da veterani con esperienza internazionale, anche in ambito FIBA, e giovani da sviluppare o rimettere in pista dopo qualche sbandamento di troppo. L’età media del roster è di 26 anni e il tratto comune, caratteristica privilegiata in fase di selezione dei singoli componenti, è la duttilità tattica. In assenza di talenti straordinari, la strategia consiste nell’impostare una squadra flessibile, in grado di adattarsi a diversi stili di pallacanestro.

Il progetto, sul campo come in panchina e nel front office, appare davvero intrigante e potrebbe rappresentare il primo esperimento di franchigia NBA globale a tutti i livelli, dalla proprietà al campo. Il contesto ambientale, poi, è rappresentato da un quartiere il cui sviluppo non sembra volersi arrestare, in cui ogni edificio può essere reinventato, ogni spazio ridisegnato e portato a nuova vita. I Nets, nel tentativo di cementare il rapporto con Brooklyn, prendono parte a questo processo di rivitalizzazione attraverso la costruzione del loro nuovo, modernissimo centro sportivo. Laddove sulla 39° strada, affacciato verso l’imponente cimitero di Green-Wood, sorgeva un magazzino abbandonato, ora fa bella mostra il HSS Training Center. Il nuovo quartier generale dei Nets, inaugurato lo scorso febbraio, rappresenta un autentico vanto per la franchigia.

Una struttura attrezzata senza badare a spese, 900 mq che si articolano tra due campi da basket, uffici e locali interamente dedicati alle esigenze dei giocatori

Se la vista di cui si può godere attraverso le ampie vetrate della nuova casa che i Nets hanno costruito è mozzafiato, il futuro della franchigia appare quantomeno indirizzato verso giorni migliori. Certo, poi ci sarebbe il piccolo particolare rappresentato dall’obbiettivo ultimo del gioco inventato dal professor Naismith: vincere le partite.

La lunga strada verso la vetta

L’oroscopo per la stagione in arrivo non è tra i più benauguranti. Il roster — al netto della tenuta atletica di alcuni elementi chiave, Lopez in primis, e dell’auspicata esplosione di qualche giovane promessa — rimane ben lontano dal poter competere per i playoff. Di contro, una Easetern Conference sempre più livellata verso il basso potrebbe rivelarsi ambiente favorevole per un periodo di pura sperimentazione. Coach Atkinson, però, non pare incline ad abbracciare l’atteggiamento d’indulgenza tipico delle annate di transizione. Prova ne è la decisione, unica tra gli head coach NBA, di allenare anche durante la Summer League di Las Vegas, peraltro foriera di discrete soddisfazioni per i Nets.

I Nets, con il loro capo allenatore regolarmente in panchina, battono le seconde e terze linee dei campioni NBA.

Il progetto a medio-lungo termine potrà beneficiare di una struttura salariale che, considerato l’ulteriore innalzamento del cap, garantisce ampio spazio di manovra in vista delle estati 2017 e 2018, con ogni probabilità roventi in tema free agency. Il compito di Marks e Atkinson sarà creare le condizioni perché Brooklyn risulti attraente sul versante agonistico, oltre che per disponibilità economica e contesto ambientale.

Il modello dichiarato è il più duraturo e consistente sulla piazza, anche se il rischio di scimmiottare in malo modo San Antonio è concreto. Tuttavia, atteso che la tanto mitizzata Spurs-culture è tutto fuorché una versione cestistica della pozione magica di Panoramix, il fatto che chi siede nella stanza dei bottoni sia caduto nel paiolo di Popovich e Buford come Obelix da bambino in quello del druido gallico, sembrerebbe scongiurare l’ipotesi di derive caricaturali.

E se la parata su Flatbush Avenue vaneggiata da Prokhorov appare un miraggio lontano, l’obiettivo a breve termine è quello di uscire dalle sabbie mobili del fondo classifica evitando al contempo di farsi attirare dalle sirene del tanking. Perché una cosa è sicura: no, i Nets non hanno nessuna intenzione di tornare ad essere gli zimbelli della lega.

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