Al termine dell’ultima, pirotecnica estate di mercato NBA non c’erano dubbi: a trionfare, contro ogni pronostico, erano stati i Brooklyn Nets. L’ingaggio di Kyrie Irving e Kevin Durant, quest’ultimo arrivato via sign & trade con Golden State, li qualificava come vincitori della ridda dei free agent. Solo gli L.A. Clippers, con l’accoppiata Leonard-George, potevano mettere in discussione il primato di Sean Marks, architetto di un autentico miracolo manageriale. A Los Angeles, però, avevano dovuto privarsi di pedine importanti e ipotecare buona parte delle future scelte al Draft per mettere insieme la loro coppia di stelle, quando invece l’unica rinuncia dei Nets era stata D’Angelo Russell, un sacrificio significativo ma del tutto sopportabile, ulteriormente alleviato da una scelta protetta per il 2020 concessa dagli Warriors.
Eppure il colpaccio di Brooklyn si profilava da subito come una vittoria mutilata, perché il franchise player designato - quel Kevin Durant che prima dell’infortunio contro Houston e poi quello contro Toronto sembrava indiscutibilmente il miglior giocatore al mondo - non sarebbe potuto scendere in campo se non dopo un ulteriore anno di stop. Considerate le premesse e i precedenti dell’ultimo decennio, tuttavia, a Brooklyn si dicevano ben lieti di attendere, abbracciando l’eventualità di una stagione di transizione in cui affidare le chiavi della squadra a un Irving smanioso di riscatto dopo il fallimento dell’esperienza ai Celtics. L’idea di fondo era quella di calare il campione NBA 2016 in un meccanismo tattico oliato, accettando al contempo che si prendesse buona parte dei tiri prodotti dall’attacco. Di spazio per sperimentare, in una conference dove per rimanere esclusi dalla corsa playoff sarebbero serviti un ammutinamento o una calamità naturale, ce n’era. In fondo si trattava solo di sostituire D’Angelo Russell con Kyrie Irving: due giocatori che, al netto delle simpatie personali, appartenevano e appartengono a categorie ben distanti tra loro. Cosa poteva andare storto?
Più piatto della terra
Ad animare un’annata senza grandi obiettivi o motivazioni sarebbe dovuto essere l’effetto-Kyrie. Nell’immaginazione dei tifosi locali, e nelle speranze di staff tecnico e dirigenza, Irving avrebbe dovuto guidare i compagni facendo divertire il pubblico del Barclays Center, smentendo così i pettegolezzi sollevati dall’esperienza a Boston. Al di là di alcune singole prove notevoli, peraltro contro avversari più che abbordabili, è invece stato proprio uno dei pettegolezzi raccolti in Massachusetts - la squadra gioca meglio senza di lui - a emergere con forza.
A 3 punti dal career-high contro la non irresistibile difesa di Jim Boylen.
A dire il vero, il record di squadra con Irving (8-12), raffrontato a quello senza (18-17) rafforzerebbe la legittimità del pettegolezzo. L’esiguo numero di partite giocate da Kyrie, d’altro canto, rende inutile qualsiasi ragionamento circa la sua influenza sulla squadra. Venti gare di regular season, oltretutto inframmezzate da una pausa forzata di oltre due mesi per infortunio, sono un campione del tutto insufficiente per teorizzare che la sua presenza, così come la sua assenza, abbia determinato uno scarto nelle prestazioni dei Nets. Nondimeno, l’irrilevanza di Irving sul rendimento complessivo, avvalorata anche dalle apposite metriche (il Net Rating di squadra con lui lui in campo è di -0.4, senza di lui +0.3) è prova di come l’ex-Duke, seppur limitato dai guai fisici, non si sia rivelato all’altezza delle aspettative. Quanto al comportamento fuori dal campo e nei rapporti con stampa e compagni, altro tasto dolente dell’avventura in biancoverde, non è andata molto meglio.
Gioco a somma zero
Peggio ancora è andata con un altro innesto estivo, il terzo incomodo arrivato su espressa richiesta di Durant e Irving. La modestia dell’apporto di DeAndre Jordan (-3.3 il Net Rating di squadra con lui in campo, +0.8 quando siede sulla panchina) sorprende solo nella misura in cui non si sono seguite le sue stagioni precedenti. Da quando ha lasciato i Clippers, infatti, Jordan si è contraddistinto per la testarda volontà di mettere rimbalzi a referto e poco altro, incidendo sempre negativamente sull’andamento della squadra (chiedere a coach Carlisle e Fizdale per conferme).
Se i Nets sono rimasti in linea di galleggiamento lo devono a quella che potrebbe essere definita la loro “vecchia guardia”: Joe Harris (+2.5 e -4.6), Spencer Dinwiddie (+2 e -4.1) e Jarret Allen (+1.9 e -2.8), insieme all’ex-Atlanta Taurean Prince (+2 e -3.6) sono stati gli unici tra i giocatori a disposizione di coach Atkinson ad abbinare un minutaggio consistente a prestazioni positive tanto da renderli di fatto indispensabili.
Confrontando poi le statistiche complessive di squadra anno su anno, i Nets di questa stagione appaiono parecchio simili a quelli del 2018-19. Basta grattare un po’ la superficie, però, affinché emergano particolari significativi: le variazioni più rilevanti sono quelle relative alla percentuale di tiro reale, categoria nella quale sono passati dal 15° al 24° posto nella lega e, come sottolineato recentemente da Zach Lowe, al numero di passaggi effettuati a partita dove il crollo è ancora più evidente: dall’8° al 25° posto complessivo.
Esempio classico di attacco dei Nets (senza Kyrie): palla in mano a Dinwiddie e compagni di squadra che restano a guardare.
Si tratta di spie che segnalano come, nonostante risultati tutto sommato in linea con la stagione precedente, Brooklyn sembri aver perso quelle caratteristiche peculiari su cui Atkinson aveva costruito un’identità forte. Anche l’impressione visiva conferma l’involuzione di una squadra in cui la palla circola con difficoltà e alla pochezza di movimento e fluidità si prova a far fronte con il talento individuale. Sotto molti punti di vista, in definitiva, i Nets sembrano aver smarrito la loro anima, quel collante che teneva insieme un collettivo nato dalle ceneri di una ricostruzione paziente e faticosa.
Altra difesa avversaria non irresistibile e altro attacco fermo, questa volta con LeVert nelle vesti di ball hog.
Per il resto, anche tenuto conto dell’apporto quasi nullo di Irving, ad eccezione dei punti segnati su 100 possessi (112.7 con lui in campo, 104.7 senza, discrepanza frutto dell’indiscutibile talento offensivo), e di quello negativo di Jordan, i Nets sono dove erano lo scorso anno.
Un Kyrie Irving in missione per rinverdire i fasti dell’hero-ball.
Vista da questa distanza, la loro versione 2018-19 - spesso portata in palmo di mano come esempio di gestione tecnica virtuosa - rischia di apparire sopravvalutata. Forse, nel consenso comune raccolto durante la scorsa stagione, ha pesato tutto quel complesso di suggestioni raccolto sotto la voce di “narrativa”, con la franchigia zimbello della lega per diversi anni che si riscatta strappando un posto nella post-season. Oppure, più probabilmente, dalla squadra di quest’anno ci si aspettava comunque qualcosa in più e invece la sensazione è che quello compiuto fin qui sia un passo indietro.
Ad ogni modo, nell’analisi bilancio attuale dei Nets (26-29) pesa anche il fatto che fuori casa il rendimento sia stato pessimo (10-17) e che delle 26 vittorie strappate solo 7 sono avvenute contro avversari dal record positivo. I playoff non sembrano in pericolo anche perché le altre non sembrano avere alcuna intenzione di andarci, ma le prospettive a breve rimangono poco allettanti. Su quelle a medio-lungo termine, invece, occorrerebbe fare una riflessione approfondita.
La via verso la vetta
Come detto, la stagione in corso presenta ben pochi spunti d’interesse per i Nets, destinati a una prevedibile eliminazione al primo turno contro una delle contender della Eastern Conference. Il focus, quindi, si sposta giocoforza sulla prossima di stagione, ma forse ancor di più sul complicato percorso che li attende prima di arrivare alla palla a due inaugurale della regular season 2020-21. Le incognite sono tante, ma tutte girano intorno ad un tema ineludibile: il cast di supporto da mettere attorno a Kevin Durant e Kyrie Irving.
Perché non c’è dubbio che le speranze di successo di Brooklyn abbiano nei due campioni arrivati da Golden State e Boston i propri pilastri. Pilastri, ad onor del vero, piuttosto fragili: Durant rientrerà dal secondo infortunio grave della carriera - dopo quello che ne aveva troncato la stagione 2014-15 - con sedici mesi di inattività e a 32 anni compiuti; mentre Irving, 28 anni il prossimo marzo, nelle sue prime nove stagioni in NBA solo tre volte è riuscito ad andare oltre le 70 partite giocate. La tenuta fisica sarà quindi un aspetto dirimente per la buona riuscita di un progetto che ha in loro i protagonisti designati. Confidare nella resistenza di muscoli e ossa potrebbe però non bastare: sarà quindi necessario decifrare la giusta combinazione di giocatori da affiancare alle due stelle - e occorrerà farlo in fretta.
La timeline sancita dai contratti di Durant e Irving, titolari di una player option che di fatto li libererebbe tra due anni, non concede grande agio. Allo stesso modo la struttura salariale non lascia molti margini di manovra, a meno di voler sacrificare uno o più elementi del roster attuale. Joe Harris, in scadenza a giugno, potrebbe vedere soddisfatte altrove le proprie richieste economiche, legittime alla luce della notevole continuità dimostrata, e lasciare a Marks poche carte da giocarsi al mercato delle trade. Il candidato numero uno a essere scambiato potrebbe essere Dinwiddie, che porta con sé una combinazione costo/rendimento tra le più appetibili dell’intera lega (11.4 milioni per la prossima stagione e player option da 12.3 per quella successiva). Con il rientro a pieno regime di Durant e Irving, è intuibile come lo spazio per un terzo ball-handler alla Dinwiddie (secondo dietro proprio a Irving per usage rating con il 28.9%) dovrebbe restringersi parecchio. L’ex-Pistons sarebbe quindi pedina di scambio ideale, così come LeVert, Allen e Prince, anche se sul primo persistono dubbi legati ai guai fisici che ne hanno minato uno sviluppo che sembrava destinato alla grandezza.
Più complicato risulta invece ipotizzare quale potrebbe essere l’obiettivo nel mirino. Nel contesto di una Conference indirizzata verso un futuro di accentuata competitività, soprattutto nel caso in cui Antetokounmpo decidesse di rimanere ai Bucks, la ricerca di un terzo All-Star potrebbe diventare via obbligata. Milwaukee, Philadelphia e Boston sono attrezzate per restare al top, così come Toronto, Miami e Indiana possono contare su basi solide e guide tecniche autorevoli e carismatiche. Provare a misurarsi ai massimi livelli richiederebbe perciò l’aggiunta di un altro giocatore di prima fascia, categoria da cui non sarà facile pescare perché non sono molte le franchigie disposte a privarsi dei pezzi pregiati. E allora la ricerca di Marks potrebbe orientarsi verso target meno prestigiosi ma comunque coerenti con l’intenzione di andare all-in. In questo caso, in cima all’agenda di mercato dei Nets potrebbero esserci nomi di veterani in grado di equilibrare la situazione nello spogliatoio oltre che in campo.
Passaggio a vuoto
Se è possibile individuare un risvolto positivo nella stagione in corso, questo è senz’altro rappresentato dalla capacità strutturale della franchigia di minimizzare l’impatto delle discutibili uscite di Irving (gli anni trascorsi nella Pyongyang nero-argento pare abbiano insegnato qualcosa a Sean Marks). Con il ritorno sulla scena di Durant, altro soggetto ad alta infiammabilità polemica, l’opera di contenimento e tutela del clima interno alla squadra potrebbe però risultare molto più ardua. L’abbinata Durant-Irving si delinea balbettante in termini di leadership e stabilità emotiva, ragion per cui la presenza di giocatori con esperienza e consolidate capacità relazionali potrebbe rivelarsi essenziale. Tuttavia, anche pescare in questa categoria non sarà semplice: gli Iguodala e Horford scarseggiano, così come i Draymond Green e i Patrick Beverley, gente senza alcun complesso d’inferiorità nei confronti delle stelle conclamate e in grado di alzare l’asticella dell’ambizione di tutto il gruppo.
Può apparire paradossale, ma il difficile per Atkinson e Marks, arrivati a Brooklyn con l’aggravio della pesante situazione ereditata dalle gestioni precedenti, comincia ora. Il potenziale a disposizione è di quelli mai visti in Atlantic Avenue, ma lo è anche il rischio di un fallimento pari, se non addirittura peggiore, a quello scaturito dalla celeberrima trade con i Celtics. Di certo c’è che, dopo i fuochi d’artificio della scorsa estate, tornare indietro non è più possibile. E se di quella che doveva essere una stagione di transizione i Nets non sono riusciti a fare buon uso, i mesi a venire ci diranno se si è trattato di un semplice passaggio a vuoto senza ripercussioni o della prima avvisaglia di un piano che inizia a deviare dal percorso tracciato.