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Bruce Lee e l'ingresso delle arti marziali nella modernità
10 lug 2023
Un estratto da "Bruce Lee. L’avventura del Piccolo Drago" di Michele Martino.
(articolo)
7 min
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Pubblichiamo un estratto da "Bruce Lee. L’avventura del Piccolo Drago" di Michele Martino, uscito il 7 luglio per 66thand2nd. Potete acquistarlo qui.

I Karate Championships si sarebbero tenuti all’Auditorium municipale di Long Beach, con i suoi quattromila posti a sedere, e avrebbero accolto contendenti e maestri di discipline e nazionalità diverse, per offrire un panorama completo delle arti marziali in America, replicando in laboratorio il melting pot originario che si era creato alle Hawaii. I nove tornei, a cui partecipavano trecento iscritti suddivisi in tre categorie (pesi leggeri, medi e massimi) e altrettanti livelli (cinture nere, marroni e bianche) sarebbero stati inframezzati da un fitto programma di esibizioni. Bruce, indicato nelle locandine come un «maestro di kung fu di Hong Kong, Cina», di sicuro non era uno dei nomi più in vista del cartellone.

Ancora prima che iniziasse la manifestazione trovò tuttavia il modo di farsi notare. Parker gli aveva assegnato come cicerone uno dei migliori istruttori della sua scuola, Dan Inosanto, ventotto anni, californiano di origine filippina, che oltre a essere un esperto nell’arte del kali aveva studiato kung fu a Los Angeles, il jujitsu con Wally Jay e infine l’«American kenpo karate» di Parker, il quale gli aveva dato 75 dollari per prendersi cura del sifu più giovane dei Championships. Bruce, come al solito, non perse tempo in convenevoli: appena sistemati i bagagli in albergo invitò Inosanto a colpirlo più forte che poteva, in qualsiasi modo. Dan acconsentì e rimase, come gli altri prima di lui, annichilito. «Avevo perso con qualcuno prima di allora,» avrebbe raccontato «ma mai in quel modo. Non potevo fare assolutamente niente, e lui non stava neanche usando troppa forza. Era come se avesse preso possesso del mio corpo, senza impegnarsi più di tanto. Dominava completamente l’azione, chiamando i colpi come se fosse un gioco. Quella notte non sono riuscito a dormire. Mi sembrava che tutto ciò che avevo fatto in passato fosse obsoleto».

La vigilia, la sera del primo agosto, molti allievi e colleghi di Parker si riunirono nella sala da ballo dell’hotel per conoscersi e improvvisare qualche dimostrazione. Bruce si presentò con una giacca di pelle dalle spalline ampie, una canottiera bianca e un paio di jeans scuri, un po’ tipo Fonzie. Solo vedendolo camminare per la sala, Tsutomo Oshima, il primo giapponese ad aver insegnato il karate negli Stati Uniti, si girò verso un amico e gli disse: «Quello lì… è l’unico qui che sa quello che fa». Bruce diede anche un saggio delle sue abilità chiamando un volontario, come al luau di Alameda, e lasciando nel pubblico un’impressione quasi disturbante col suo mix di esplosività e sicurezza in sé stesso.

I tornei si svolsero secondo le regole in vigore. A determinare il vincitore di un match era un punteggio assegnato dai giudici di gara, cui spettava il compito di valutare l’efficacia dei colpi, da portare soltanto sopra la cintura, senza che ci fosse un vero contatto tra gli sfidanti, soprattutto alla testa, pena la squalifica. Anche se questo non impediva il verificarsi di incidenti e infortuni, Bruce teneva in scarsa considerazione incontri di questo tipo (che bollava come forme di «disperazione organizzata») e non avrebbe mai accettato di parteciparvi. Per lui il combattimento era reale, preferibilmente senza limiti né costrizioni, oppure semplicemente non era. Nel lotto dei contendenti figuravano invece, oltre a Inosanto, il ventitreenne Chuck Norris, che ebbe poca fortuna, e il ventunenne Mike Stone, hawaiano di Makawao, che si laureò campione dei pesi massimi e Grand Champion della competizione, prima di diventare il bodyguard di Phil Spector e l’insegnante privato (oltre che l’amante) di Priscilla Presley. Sia l’uno che l’altro, Norris e Stone, li ritroveremo poco più avanti come compagni di allenamento e «studenti» del Piccolo Drago.

Nelle pause tra gli incontri, scendevano in pista i maestri, chiamati a mettere in mostra la loro arte. Uno dopo l’altro si diedero il cambio, oltre al già citato Oshima, il grande Robert Trias, veterano di guerra e pioniere del karate negli Stati Uniti, il coreano Jhoon Ree, padre del tae kwon do americano, l’hawaiano Ben Largusa, esperto di kali, il giapponese Takayuki Kubota, sensei di karate, judo, kendō e aikido che proprio quell’anno aveva iniziato a addestrare all’autodifesa gli agenti della Cia, come aveva fatto in precedenza con la polizia di Tokyo e con i militari statunitensi dislocati in Giappone. Vederli tutti riuniti in uno stesso luogo deve essere stato uno spettacolo magnifico.

Vestito di scuro (con un tangzhuang più sobrio di quello usato per il suo libro), e annunciato al microfono da Ed Parker, Bruce prese il centro della scena per ultimo, verso sera, quando le lunghe ore di incontri ed esibizioni, in un caldo opprimente, avevano spento l’entusiasmo del pubblico. L’aria condizionata aveva smesso di funzionare e più d’uno stava pensando di alzarsi e andarsene. La sola presenza di Bruce, una figura minuta in mezzo all’arena, ebbe l’effetto di riaccendere l’attenzione sugli spalti, gremiti, oltre che dai suoi colleghi, da migliaia di praticanti, gente del cinema, giornalisti. Bruce incantò tutti con una magistrale esecuzione di chi sao, assistito da Taky Kimura, che irretì in modo imbarazzante anche da bendato. Mostrò quindi l’immancabile one-inch punch, mandando il malcapitato di turno a volare su una sedia che scivolò per qualche metro sul parquet. Si esibì poi in un altro numero a effetto, le flessioni su due dita. Se vi sembrano difficili, come in effetti sono, considerate che Bruce era in grado di farle anche su un pollice, o con un braccio solo e un allievo come Doug Palmer, di un metro e novanta, aggrappato alla schiena. Per fortuna la performance di Bruce fu registrata su pellicola da 8 mm, in bianco e nero, da Ed Parker. Il filmato – riesumato poi nel film di John Little Bruce Lee. A Warrior’s Journey e in tanti documentari successivi (e oggi ovviamente reperibile in migliaia di video su YouTube) – sarebbe stato decisivo, come vedremo, nel lanciare la carriera di Bruce nel cinema.

Questi numeri tuttavia costituivano solo l’antipasto, sfizioso ma innocuo, utile più che altro a risvegliare gli spettatori dal torpore. Il piatto forte arrivò poco dopo, sotto forma di una lezione teorica in cui Bruce si divertì a picconare dalle fondamenta il tempio millenario delle arti marziali. Il succo del discorso, da quel che si può desumere dai ricordi dei testimoni, seguiva la falsariga di quello pronunciato in forma più sintetica al luau di maggio. Denunciava l’inutilità delle liturgie classiche, delle forme codificate, alcune mostrate per essere poi denigrate senza pietà. Proclamava la superiorità dell’individuo su qualsiasi stile, e condannava la pratica di imporre dall’alto una tradizione, sempre uguale a sé stessa, su persone diverse, ignorandone le peculiarità. Come ciliegina sulla torta, Bruce inscenò una sbeffeggiante imitazione della posizione del cavaliere, che dava sì stabilità, ma anche zero mobilità, ed era dunque controproducente in un combattimento reale.

L’esibizione di Bruce Lee a Long Beach segna, in un certo senso, l’ingresso ufficiale delle arti marziali nella modernità, il momento seminale della convulsa trasformazione che le investirà negli anni a venire. Per Bruce fu un enorme successo personale, quello che inseguiva da tempo. Si procurò nuovi allievi, strinse nuove amicizie, per esempio con Jhoon Ree e Mike Stone. Si fece ammirare da una platea più ampia, in mezzo alla quale era seduta anche qualche figura ben introdotta nel mondo dello spettacolo che poi lo avrebbe aiutato ad aprire le porte di Hollywood. Eppure, per quanti proseliti aveva raccolto, Bruce aveva anche contribuito a ingrossare le schiere dei suoi nemici: tutti quei maestri che si erano sentiti ridicolizzati e offesi, davanti ai propri allievi, dal suo show. Lui voleva proporsi come un innovatore, un profeta, ma gli altri lo consideravano piuttosto come un eretico, un disturbatore. Diciamo che si era formata letteralmente una fila di persone che non vedevano l’ora di battersi con lui, e di chiudergli una buona volta la bocca.

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