di Mauro Bevacqua
Anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno.
A Portland una sola.
È successo nel giugno del 1977.
Poi mai più.
I Blazers sono nella NBA soltanto da sei anni. Non hanno mai raggiunto i playoff. Il 4 marzo perdono in casa, al Memorial Coliseum, contro Cleveland. È una data da ricordare. Per vedere un’altra sconfitta interna i tifosi di Portland devono aspettare quasi un anno (12/02/78, vs. Denver). Fanno (playoff compresi) 44 vittorie di fila sul parquet di casa. Una striscia (di successi) che impallidisce al cospetto di un’altra striscia (di “sold out” al Memorial Coliseum) che inizia il mese successivo. Dalla gara dell’8 aprile 1977 contro Phoenix in città non si trova più un biglietto per i Blazers per i successivi 18 anni (o 814 partite!)—filotto concluso il 20/11/95 contro i Clippers, la loro quinta apparizione nel nuovo Rose Garden.
È nata quella che tutto il mondo NBA conoscerà come BLAZERMANIA.
La squadra chiude la settima stagione nella Lega con 49 vittorie—una in meno di Denver (primi nella Midwest Division), quattro in meno dei Lakers (davanti a loro nella Pacific)—buone per il terzo posto a Ovest. Ai playoff batte Chicago al primo turno, poi proprio Denver, quindi proprio i Lakers. Doveva essere la grande sfida tra i due centri, Kareem Abdul-Jabbar a L.A. (30.3 di media nella serie) contro il suo erede a UCLA (2 titoli NCAA e 88 vittorie in fila), Bill Walton. Non c’è storia: 4-0 Portland. I Blazers vanno in finale NBA, ad aspettarli i Philadelphia 76ers di Julius Erving.
La serie inizia male, i Sixers vincono in casa e vanno sopra 2-0. Al Coliseum però non si passa, pari 2-2. Gara-5 è quella che rompe gli equilibri. Non bastano 37 di “Dr. J”, vincono i Blazers. Il volo di ritorno da Philadelphia atterra a Portland alle 4.40 del mattino. All’aeroporto ci sono 5.000 tifosi ad aspettare i propri campioni. Due giorni dopo—è domenica, c’è il sole, la sera si gioca gara-6—l’Oregonian va in edicola con un titolo a caratteri cubitali: “Vinceremo oggi”. Profezia avverata. Più che funzionali all’impresa 20 punti, 23 rimbalzi, 8 stoppate e 7 assist di Bill Walton (che vanificano altri 40 di Julius Erving): “the Big Redhead” (dal colore dei suoi lunghi capelli) è l’eroe della partita, della serie e l’MVP delle finali.
Solo 24 ore dopo, la parata per celebrare i Blazers campioni invade downtown Portland. Una città che conta 380.000 abitanti ne riversa in strada 250.000, più di quanti avevano festeggiato la vittoria contro il Giappone che metteva fine al secondo conflitto mondiale. Il VJ—Victory over Japan—Day di quel lontano 1945 diventa, 22 anni dopo, il VJ—Victory over Julius (Erving, ovviamente)—Day.
Bill Walton arriva alla parata in bicicletta—perché siamo a Portland, «tutti vanno in bici. O bici a due piani! O monocicli!» (poi la bicicletta gli viene rubata; lui fa un appello pubblico per riaverla; la bici gli viene restituita).
Bill Walton indossa la sua iconica fascia tergisudore.
Bill Walton rovescia litri di birra in testa al sindaco della città, Neil Goldschmidt.
Bill Walton finisce sulla copertina di Sports Illustrated.
“King of the mountain at last”.
di Alessio Marchionna (@alessiomarchio)
«È stato uno dei momenti più bassi della mia vita. Un’altra persona al mio posto avrebbe lasciato la postazione TV, avrebbe attraversato il campo e avrebbe dato un pugno sul muso a Rasheed. Ma non l’ho fatto. Quel giorno ho deluso Arvydas, ho deluso il gioco del basket e ho deluso il genere umano».
Parole di Bill Walton, che il 15 aprile del 2001 era a bordo campo a commentare la partita tra Portland e L.A. Lakers, una delle ultime di regular season.
Le cose vanno grosso modo così: nel tentativo di prendere un fallo da Shaq, Sabonis fa roteare le braccia e colpisce involontariamente sul volto Rasheed Wallace, che la prende malissimo, comincia a sbraitare e dopo qualche minuto è ancora così infuriato da prendere e tirare un asciugamano contro il suo compagno di squadra durante il time out. Sabonis rimane immobile, da buon gigante baltico, e si limita a restituire uno sguardo più perplesso che arrabbiato. Rasheed viene sospeso dalla società per l’ultima partita della stagione e torna in campo per il primo turno di playoff, in cui i Blazers perdono dai Lakers in tre partite con scarti sempre ampiamente in doppia cifra.
È la pietra tombale sulle ambizioni di Portland e sulle speranze di milioni di persone (compreso il sottoscritto) di veder trionfare una squadra troppo talentuosa, estrema e squilibrata per non farti innamorare. Un gruppo guidato (si fa per dire) da un giocatore limitato dalla sua stessa grandezza: troppo forte per imparare dagli altri sul campo da basket, troppo complesso e progressista per accettare le regole di una Lega ipocrita e piegata al denaro. Un uomo che se avesse giocato negli anni Sessanta probabilmente sarebbe stato il Muhammad Ali dei canestri. Con il lancio dell’asciugamano comincia l’epoca dei "Jail" Blazers, in cui la squadra sembra fare di tutto per indispettire la Lega e per farsi detestare dai fan. Tante palle di neve che un po’ alla volta diventano una valanga.
A fine aprile Shawn Kemp (arrivato già a fine carriera e con l’ingrato compito di rimpiazzare Brian Grant, l’idolo della curva) entra in un centro di recupero per disintossicarsi dalla cocaina; a novembre del 2002 Rasheed e Damon Stoudamire accettano di andare dallo psicologo per evitare guai dopo essere stati fermati per possesso di marijuana di ritorno da una trasferta a Seattle, mentre Ruben Patterson—dopo averci provato con la tata—viene arrestato con l’accusa di aver picchiato la moglie; poco dopo Bonzi Wells chiarisce che a loro, ai giocatori, non importa un accidente di quello che pensano i tifosi; ad aprile del 2003 scoppia una rissa in allenamento e Zach Randolph colpisce Patterson fratturandogli l’orbita oculare; seguono abusi sugli animali (Qyntel Woods), insulti razzisti (Darius Miles usa contro l’allenatore Maurice Cheeks la parola che comincia per N) e altre accuse per possesso di marijuana (Rod Strickland, ancora Stoudamire). Nel frattempo Sabonis, tormentato dagli infortuni e forse stanco di quella gabbia di matti, se ne è tornato in Lituania.
Nel 2004 Rasheed viene ceduto agli Hawks (per una sola partita, prima di finire a Detroit) nell’ambito dell’operazione pulizia, e cala definitivamente il sipario sul più accidentato—e appassionante—racconto di talento sprecato della storia della NBA. Una squadra che, per stessa ammissione di Bob Whitsitt, il general manager che l’ha costruita, non era un capolavoro di chimica, e che proprio per questo è piaciuta come poche altre nella storia.
di Timothy Small (@yestimsmall)
Brandon Roy era un giocatore bello da vedere come pochi, era elegante, era fluido, era emozionante. E poi buono, così buono. La voce debole, il tono sempre dimesso, umile, a me faceva sempre pensare a un incrocio tra un panda (per attitudine) e una libellula (per come si muoveva in campo).
Si dice che avesse avuto dei problemi di apprendimento da piccolo, l’unico della famiglia Roy ad andare al college, ma che prima di entrarci non fosse sicuro di farcela e allora mentre si allenava, a diciotto anni, lavorava al porto di Seattle, faceva lo scaricatore e prendeva 11 dollari l’ora. Quando giocava sembrava corresse sul velluto, sembrava che pattinasse sul campo, che si girasse su sé stesso in un fazzoletto di parquet, che si alzasse al tiro con una facilità che quasi manco ti rendevi conto che stesse saltando, in maniera esplosiva, di stacco, ma quasi quasi sembrava si librasse in cielo, che planasse sotto il canestro per un lay-up elegante, di destro o sinistro, un giocatore intelligente, sceglieva bene cosa fare, insomma, era il cazzo di giocatore modello. In altre parole: c’è una ragione se il suo soprannome era “The Natural”.
E poi aveva una debolezza, una debolezza da tragedia greca: aveva le ginocchia di cristallo. Soffriva di una condizione degenerativa di livello cronico alla cartilagine delle ginocchia, al punto che a fine carriera ne era rimasto praticamente senza, un livello di lesioni osteocondrali mai visto nella NBA. In altre parole: Julian Ross.
E poi c’è stata quella partita; forse la partita di basket più emozionante che abbia mai visto. Ero a casa mia, ai tempi abitavo in Porta Romana, a Milano, ed ero con il mio amico Michele, era tardi, saranno state le due o le tre, bevevamo Braulio. Quella notte, il 23 aprile del 2011, gara-4 del primo round dei playoff della Western, i Blazers contro i Mavs. I Blazers erano sotto di 23 punti alla fine del terzo quarto e Roy quasi non aveva giocato. Sia io che Michele speravamo in Portland, ma non sembrava andare. Parlavamo d’altro. Avevamo perso interesse.
Ma poi, cos’è successo, dopo? Beh, anche se gli infortuni ormai l’avevano trasformato in un’ombra di sé stesso, è entrato Roy. E l’ha vinta. Da solo. Contro ogni logica. Quando è entrato ho pensato che magari, che ne so, coach McMillan l’avesse fatto entrare per pena. Forse per dare un’ultima apparizione ai playoff al capitano spirituale della squadra. E invece Roy entra ed è calmo, gli riesce tutto, sembra quello di due stagioni prima, quando aveva ancora le ginocchia a posto, ed è un All-Star, è perfetto, lay-up di sinistro, dritto a canestro, tiri da tre, penetrazione e assist, tiri mid-range da due sopra Dirk, e gli entra tutto, anche un tiro che rimbalza attorno all’anello per un’infinità, anche un cazzo di bank-shot da dieci piedi a 40 secondi dal termine, anche quel suo modo bellissimo di fare lo step-back. Entra Roy e ne fa 24. Entra Roy e i Blazers vincono. Entra Roy e i Blazers fanno il più grande comeback nella storia dei quarti quarti di Portland.
E lo fa Roy, Brandon Roy, “The Natural”, quello che aveva una carriera finita, quello che non aveva la cartilagine, quello che non ce la faceva più. Il rumore di quell’arena non lo dimenticherò mai.
di Dario Vismara (@Canigggia)
Se mi chiedessero un consiglio su quale squadra iniziare a tifare in questo 2015, io non avrei dubbi a indicare i Portland Trail Blazers. Perché no, dopotutto?
C’è tutto quello che serve per una grandiosa esperienza da tifoso. Innanzitutto, la franchigia è unica: una volta, nel nord-ovest americano c’erano i Seattle Supersonics (we miss you guys) e anche i Vancouver Grizzlies (we miss you... less). Ora sono rimasti solo loro, sperduti là dove fa freddo e piove sempre, a quasi 9 ore di macchina dalla città NBA più vicina, Sacramento, dando quella sensazione di unicità del tipo “noi siamo diversi dal resto del mondo” che piace sempre.
E poi dal mero punto di vista estetico sono il meglio che si possa trovare nella NBA: pochissime squadre possono contare su un palazzo “caldo” come il Rose Garden (non mi interessa che ora si chiami Moda Center); nessuno ha un logo semplice & bello come il loro («Uno dei pochi loghi astratti in tutto lo sport professionistico», nelle parole di Zach Lowe); nessuno ha le maglie belle come le loro (ah, quelle strisce oblique...); nessuno ha un nome bello come il loro, Trail Blazers, “quelli che aprono la strada”.
In più hanno avuto grandissime squadre in passato—i Blazers campioni di Bill Walton & Jack Ramsay (su cui è stato scritto il miglior libro di basket di tutti i tempi, The Breaks of the Game di David Halberstam), quelli finalisti nel ’92 convinti che Drexler fosse forte quanto MJ, i "Jail" Blazers di ‘Sheed e soci—tutte finite male-se-non-malissimo.
Hanno avuto giocatori fortissimi arrivati troppo presto (Drazen), troppo tardi (Sabonis), o finiti troppo presto (B-Roy—e qui, come Giovanni su Vecchioni in Tre uomini e una gamba, la lacrima scatta facile: “TROPPI RICORDI”). Hanno avuto la sfiga più nera al Draft, perché chi altri avrebbe potuto scegliere Sam Bowie e Greg Oden prima di Michael Jordan e Kevin Durant, se non loro?!
Insomma, ci sono tutti gli elementi per potersi autoflagellare a suon di rimorsi, ma c’è anche il presente di una squadra (quella attuale) forte-ma-non-così-forte, e quindi divertentissima da tifare (non come i Golden State Warriors, che—purtroppo—hanno già lasciato il reame dell’hipsterismo per diventare mainstream). Questi Blazers hanno il giusto mix di superstar (LaMarcus Aldridge), giocatori versatili (Nicolas Batum), personaggi di culto (i capelli di Robin Lopez, le triple di Wes Matthews, l’ordinato Steve Blake), aspiranti giornalisti (CJ McCollum), potenziali serial killer (Chris Kaman), futuri modelli (Meyers Leonard) e storie strappalacrime (Thomas Robinson). E poi c’è lui, Dame Lillard, su cui è inutile spendere parole perché «this guy is as cool as the other side of the pillow» (ci manchi già, Stuart Scott).
Date retta a un cretino: se ancora non avete scelto, iniziate a tifare Portland Trail Blazers. Non tornerete più indietro.
di Mauro Bevacqua
Melanie (che poi è Carrie Brownstein [1]): «Da quello che mi stai dicendo è come se Portland fosse un universo parallelo».
Jason (Fred Armisen): «Esattamente». Tra un dialogo e l’altro ecco le note (e le lyrics) di “Dream of the 90’s”. Inizia così la prima stagione di Portlandia [2].
Dove Portland, Oregon—Fred ha perfettamente ragione—diventa davvero un universo parallelo, un’utopia, un luogo magico di colpo al centro di quel mondo che normalmente ti relega ai margini (il Pacific Northwest, là, in alto a sinistra sulla cartina USA).
Era già successo in passato. Il 22 agosto 1965 i Beatles suonano in città (due show, uno pomeridiano alle 3.30, l’altro serale alle 8, i biglietti per la piccionaia vengono dati via gratis, quelli più belli costano 6$), Allen Ginsberg è tra il pubblico e compone una poesia su quel magico istante, titolandola “Portland Coliseum” [3].
Dove, il 5 giugno 1977, i Portland Trail Blazers sconfiggono i Philadelphia 76ers per vincere il loro primo—a oggi unico—titolo NBA. Sports Illustrated scrive: «The standard opening greeting of ‘What’s happenin’?’ finally can be answered: Portland is». Portland è la risposta. È successo ancora almeno un’altra volta—perché sta succedendo ora. Portland, oggi, è nuovamente la risposta.
Una città dove dominano piercing e tatuaggi tribali («tattoo ink never runs dry»). Dove i ragazzi formano band e cantano canzoni per salvare il pianeta. Dove la gente non ha ambizioni. Dorme fino alle 11 («Sleep ‘til eleven / You’ll be in heaven»). Cazzeggia in giro. Al massimo lavora un paio d’ore alla settimana in un coffee shop. Dove vieni incoraggiato a essere strano. Dove puoi voler diventare un clown—e anzi, puoi andare a scuola di clown. Dove l’amministrazione Bush non è mai esistita. Dove praticamente non esistono le auto. Tutti vanno in bici. (O bici a due piani! O monocicli!) Oppure vanno in tram. In skateboard. Dove puoi andare in un negozio di musica a vendere i tuoi CD. Dove puoi mettere un uccellino su qualsiasi cosa e chiamarla "arte" (Season 02, Episode 02, lo sketch “Bryce and Lisa put a bird on it” è uno dei meglio riusciti di tutta la serie). «C’è un posto—assicura Jason—dove questa idea ancora esiste ed è realtà: Portland”. Dove le camicie di flanella sono ancora cool. E tutte le ragazze carine hanno gli occhiali.
A Portland, sì, “la città dove i giovani vanno in pensione”.
TOP-10 Guest star
1. Eddie Vedder
2. Gus Van Sant
3. Olivia Wilde
4. Jack White
5. Chloë Sevigny
6. Steve Buscemi
7. Josh Homme
8. Martina Navratilova
9. Kyle MacLachlan
10. Selma Blair
5 Cose da sapere su Portland
1) Qualità della vita: 1.a città negli USA (23.esima al mondo) per Monocle (2014).
2) Outdoor: Portland è considerata la capitale dell’outdoor USA.
3) Food Trucks: Si mangia in strada. Bene.
4) Microbrewery: Uno dei soprannomi della città, non a caso, è “beervana”.
5) Do It Yourself: fare da soli, la filosofia di ogni abitante della città.
Undici frasi che non sentirete mai pronunciare da un abitante di Portland.
11. Aspetta, devo prendere l’ombrello.
10. Un tatuaggio è sufficiente.
9. Forse il cappello Pork Pie non è proprio adatto a me.
8. I miei jeans/pile/sandali forse non sono proprio appropriati per l’occasione.
7. La mia barba sta diventando troppo lunga.
6. Mi depilo sempre le gambe quando indosso un kilt.
5. Wow, il servizio da McMenamins [catena di pub/birrerie cittadine, ndr] è così veloce!
4. Una Budweiser, per favore.
3. Oh, sì, Seattle è proprio come Portland.
2. Sam Bowie è stata la scelta giusta.
1. Pensi che questi occhiali mi facciano sembrare troppo nerd?
[© The Oregonian, testo raccolto da Mauro Bevacqua]
[1] È uscito da pochissimo il nuovo album della band tutta al femminile di Carrie Brownstein, le Sleater-Kinney, tornate sulla scena dopo quasi un decennio con No Cities To Love.
[2] Il primo episodio di Portlandia va in onda il 21 gennaio 2011. Negli USA è iniziata da poco la quinta stagione.
[3] «Apparizione, quattro ragazzi scure / giacche inglesi capelli da Cristo. Ringo imbastito a battere chiari / tamburi bianchi. George silenzioso capelli paziente / anima cavallo. Paul basso cranio nero / spiritosa chitarra sottile. Lennon il Capitano, la bocca / un sorriso triangolare».