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Buckets s02e02: New York
27 mar 2015
Seconda puntata della stagione della fanzine cestistica realizzata con Rivista Ufficiale NBA. Si va nella Grande mela, tra odio, amore, sogni e squadre quasi vincenti.
(articolo)
11 min
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Illustrazione di Davide Barco

Il bullo & la pupa

di Francesco Casati

Dick Down, Ding Dong, KKK e Harlem Hijack. Sono solo alcuni dei nomi più assurdi con cui veniva chiamata l'eroina negli anni '70 a New York City. Lo spaccio iniziava alle 16 in punto, quando scattava il cambio turno della polizia e le strade rimanevano sostanzialmente scoperte. La domanda era così alta che i grandi spacciatori non avevano nemmeno bisogno di farsi la guerra, c’erano (purtroppo) abbastanza tossici per tutti. Una vera giungla urbana, con così tanti sbandati da sembrare un film di Tarzan.

La busta più ricercata era la Blue Magic, pura al 10% e messa su strada da Frank Lucas. La sua storia fu resa famosa da Denzel Washington e dal film American Gangster, ma Hollywood è troppo distante dalla realtà per essere credibile. Nicky Barnes (il più eccentrico tra i gangster di quegli anni) aveva in testa di creare, insieme agli altri malavitosi neri della città come Lucas, un impero da chiamare “The Council”, una sorta di black Cosa Nostra.

Molti accordi e altrettanti litigi avvenivano nei locali più esclusivi della città e in questi club le storie di atleti, cantanti e gangster si intrecciavano di continuo. Questi sono anche gli anni d'oro dei Knicks, campioni nel 1970 e nel 1973. Willis Reed fu il simbolo del primo titolo, giocò gara-7 di finale con i Lakers su un gamba sola, dando la scintilla con i primi 4 punti della partita; ma Walt “Clyde” Frazier fu il vero protagonista di quella sfida con 36 punti, 7 rimbalzi e 19 assist. Reed fu MVP della stagione, dell'ASG e delle Finali NBA, ma Frazier diventò il nome più caldo in città. Il soprannome “Clyde” si deve al suo stile, ancora oggi stravagante, e a un cappello portato come Warren Beatty nel film Bonnie e Clyde.

Lucas riciclò parte dei suoi soldi nel “Lloyd Price's Turntable”, locale dell'omonimo cantante e punto di riferimento per i vip di colore. Sorgeva tra la 52esima e Broadway e ci venivano Muhammad Ali (amico di Price), James Brown, Diana Ross e Berry Gordy. Frazier era un habitué nonostante i rapporti tesi con Lucas, dato che i due avevano puntato la stessa donna: Billie, la figliastra di Willie Mays, uno dei più grandi giocatori di baseball di sempre. Lucas era già sposato con Julianna Farrait, ex-reginetta di bellezza a Portorico, ma cercava un’amante per allungare il roster.

Le basette, il sorriso, la simpatia di Walt contro i soldi di un cafone arricchito che importava eroina nelle bare dei caduti in Vietnam.

Billie scelse una fuga notturna a Parigi e una coppia di bracciali da 140.000 dollari che Lucas mise sul piatto.

Frazier conquistò la città con due anelli per i suoi Knicks.

Brutti, sporchi & cattivi (e quasi vincenti)

di Alessio Marchionna

Sarebbe passata alla storia come la più preparata, laboriosa, professionale, altruista, tenace, cattiva e detestata squadra del campionato. Ma quando Pat Riley arrivò ai Knicks, nell’estate del 1991, si trovò davanti un cumulo di macerie.

Il ricordo dei tempi gloriosi di Willis Reed e Walt Frazier era stato cancellato da quindici anni di scelte disastrose. In squadra c’erano giocatori alla disperata ricerca di una guida umana prima ancora che sportiva. C’era Pat Ewing, la superstar che faticava a imporre la sua autorità nello spogliatoio e a 29 anni cominciava a chiedersi se non fosse il caso di cambiare aria; c’era Mark Jackson, talento in caduta libera; c’era Gerald Wilkins, atleta formidabile con un tiro mediocre; c’era Xavier McDaniel, ala piccola con fisico e personalità debordanti e una carriera arrivata all’ultimo bivio sportivo; c’era Charles Oakley, disposto a tutto per il bene della squadra ma stanco di avere a che fare con compagni egoisti e immaturi; c’era John Starks, un ragazzo dell’Oklahoma lunatico e discontinuo ma animato dal fuoco sacro del basket autentico; e c’era Anthony Mason, mancino introverso e sovrappeso, anche lui arrabbiato e affamato. May he rest in peace.

Riley seppe spegnere le micce che rischiavano di far implodere la squadra e sfruttò l’unico sentimento comune a tutti i giocatori—la frustrazione—per costruire un gruppo solido. Ci riuscì con il classico mix di allenamenti massacranti e manipolazione psicologica, convincendo i giocatori di non essere inferiori a nessuno e dando a ognuno di loro un senso sul parquet. Quei Knicks sono stati una delle squadre più toste che siano mai esistite. Segnavano poco, erano agli ultimi posti nelle classifiche della Lega per punti a partita, tiravano con percentuali non eccezionali e nelle classifiche dei migliori giocatori nelle varie specialità (difesa, punti, rimbalzi, tiri, stoppate), di solito l’unico della squadra che compariva era Ewing. Ma insieme ai Detroit Pistons erano la squadra che concedeva meno punti agli avversari e una delle migliori nella classifica delle percentuali concesse nei tiri da due. Giocavano duro, spesso giocavano sporco. Nei playoff del 1992 tutti erano convinti che sarebbero andati fuori dai playoff in quattro partite, invece riuscirono a portare i Bulls a gara-7; l’anno dopo, in finale di conference, Starks e Wilkins costrinsero Michael Jordan a tirare con poco più del 30% nelle prime due partite. La serie si decise agli ultimi secondi di gara-5 al Madison Square Garden, quando Charles Smith riuscì a farsi stoppare quattro volte in quattro secondi. L’anno dopo, senza MJ a rovinare la festa, i Knicks si schiantarono all’ultima curva contro il muro degli Houston Rockets.

Un amore intenso come quello che c’è stato tra Riley e New York può andare in due direzioni: verso il trionfo e la felicità eterna o verso la sconfitta e la separazione drammatica. Alla fine l’anello non arrivò perché a quei livelli il coraggio e l’ostinazione non possono supplire al talento, e perché in fin dei conti Pat Ewing non era Michael Jordan, e nemmeno Hakeem Olajuwon.

E il messia Riley diventò il nemico di un’intera città.

Ti odio & Ti Amo, John Starks

di Mauro Bevacqua

CAPITOLO I: ODIO

Io John Starks dovrei odiarlo. Son passati quasi due dozzine d’anni, ma non dimentico. Non posso. È il 28 febbraio 1993, si gioca quello che al tempo ancora si chiama “il derby del tunnel” (il Lincoln), Knicks @ Nets—ancora nel New Jersey.

Nei Nets c’è il mio giocatore preferito dell’epoca, Kenny Anderson.

[Vietato ridere]

Mancano 8:52 nel terzo, Kenny recupera un pallone, si fa tutto il campo in palleggio ma quando stacca per concludere arriva Starks col randello. Fallo (intenzionale, 5.000$ di multa) & canestro, ma Kenny va giù male. Quando si rialza segna pure il libero aggiuntivo [ve l’ho detto, era il mio giocatore preferito]. Ma quel polso è rotto. Stagione finita.

«Non volevo fargli male. Non stavo cercando di mandargli nessun messaggio». Per poi aggiungere: «E comunque non si sarebbe fatto niente se non avesse cercato di segnare».

SON-OF-A-BITCH!

Non sono il solo a pensarla così. La rivalità—allora non ancora cittadina—era già parecchio sentita. Starks riceve diverse minacce dai tifosi dei Nets. Per le gare successive i Knicks gli affidano una persona dell’organizzazione che a fine partita lo scorta a recuperare la sua Nissan Pathfinder dal garage sotterraneo del Madison Square Garden. C’è timore che qualcuno possa fargli del male.

Io, ad esempio.

CAPITOLO II: AMORE

Eppure non ce la faccio.

Non riesco a odiare John Starks. Anzi, lo amo.

Come lo amava ogni singolo tifoso del Garden. Alla follia.

Un giorno un giornalista gliel’ha pure detto: «La gente si identifica con te, John. Perché tu giochi nel modo in cui loro vivono». Lottando. Welcome to New York City.

Mamma Irene, invece, lavorava come infermiera a Tulsa, Oklahoma.

Papà John in cantiere—ma ha salutato in fretta, lavoro & famiglia.

I soldi dell’affitto spesso mancavano, «e allora cambiavamo casa». Sette, otto volte.

Sono quattro pure i college girati. Nel primo viene cacciato dall’allenatore («c’è troppo basket di strada in lui»). Nel secondo dal preside (per una rissa in dormitorio). Nel terzo è l’asso della squadra, sempre in campo. Pure—complice un cambio di calendario dell’ultimo minuto—il giorno del suo matrimonio. John sale all’altare, fa un’apparizione lampo al ricevimento, poi via: «Dobbiamo andare, Jackie». Cento miglia separano lui e la sua neo mogliettina da Independence, Kansas. Spinge sull’acceleratore, pure troppo. Arriva la multa, ma arriva anche a destinazione, all’intervallo. Nel secondo tempo è in campo. E ne mette 30. Nel quarto college—coi Cowboys di Oklahoma State, finalmente Division I—viene notato da Don Nelson, chiamato al camp dei Golden State Warriors e messo sotto contratto. Per 100.000$ all’anno. Pochi? Dipende. Certo più dei 3 dollari e 35 centesimi all’ora che prendeva due anni prima, imbustando la spesa da Safeway, catena di supermercati di Tulsa. Turno notturno, dalle 11 di sera alle 7 di mattina. Quand’era sicuro non ci fosse nessun cliente, si teneva in allenamento saltando tra i corridoi, cercando di toccare le lampadine sugli scaffali più alti.

CAPITOLO III: IL SOGNO

Coi Warriors gioca 36 partite. Ha messo il piede nella porta. Ma la porta si chiude. Si scende di un gradino, Continental Basketball Association. Viaggia a 21 di media, intoccabile. Ma è lui a “toccare” un arbitro. Squalificato per il resto della stagione (proprio quando i Detroit Pistons stavano per richiamarlo “in the League”). Si scende ancora di un altro gradino, World Basketball League. Ma non precipita. Anzi, risorge. Un invito al camp arriva dai Knicks. L’ultimo giorno vuol chiudere col botto. Si ritrova lanciato in contropiede. Davanti ha Patrick Ewing. Gli vuole schiacciare in faccia. Non andrà così. Andrà pure meglio. Ewing lo stoppa, lui nel contatto si fa male. Per regolamento, una squadra NBA non può tagliare un giocatore infortunato. Resta in squadra per un altro mese. E nel frattempo si fa male Trent Tucker. Il suo posto lo prende John Starks. Once a Knick, always a Knick. Fino a trascinarli a gara-7 di un serie di Finale NBA col titolo a portata di mano. E chiudere con 2/18 al tiro. Addio sogno.

‘Melo: I’m a Business, man

di Francesco Pacifico

Com’è andata veramente tra Phil Jackson e Carmelo Anthony? Mr. Zen sta bluffando? Credeva davvero che fosse ‘Melo il giocatore attorno a cui costruire la triangle offense e soprattutto una squadra determinata? Lo sapremo in un libro fra dieci anni, probabilmente—e magari si intitolerà Twelve rings, o Thirteen, o Fourteen.

Max contract a parte, Carmelo ha rinunciato a trasferirsi a Chicago da Rose e Noah perché non voleva lasciare New York, dove dirige Melo7 Tech, fondo di investimento creato insieme a Stuart Goldfarb, ex dirigente NBC e Bertelsmann.

Come ha detto a ESPN: «Non voglio essere soltanto un atleta. Non voglio che mio figlio legga ‘Che delusione, è solo uno che segna, è egoista, non ha vinto abbastanza, non è mai stato davvero il migliore’. Voglio essere più grande di così. Voglio costruire da solo il mio destino».

Nell’attesa di sapere come ha convinto Phil, guardiamo un po’ dove vanno i soldi che diamo a Carmelo quando compriamo la sua canotta. Questi sono alcuni tra gli investimenti di Melo7 Tech:

Whistle: una app + device per monitorare le attività del proprio animale domestico. Vital: piattaforma per trovare sconti sulle ricette mediche. Andela: piattaforma per collegare sviluppatori importanti a imprenditori importanti. Cord Project: chat vocale “one touch”. Vantage Sports: servizio di analisi dati per giocatori, squadre, media. SeatGeek: motore di ricerca per trovare biglietti per eventi di sport, musica e teatro.

Come dicevano i nostri padri, questa non è più la “loro” NBA. È la NBA di Jay-Z, che è stato spacciatore, poi rapper, poi imprenditore, poi dirigente della più grande etichetta rap, poi promoter dell’immagine degli artisti, proprietario di minoranza dei Brooklyn Nets e ora è l’agente, tra gli altri, di Kevin Durant. Impara l’arte e mettila da parte, e magari lascerai nel mondo una traccia più grande che se avessi vinto un anello o continuato a incidere capolavori hip hop.

Non fa una piega, tranne quando a comprare la canotta di Melo sei tu, e tifi New York.

*Bonus Track

«Poi un giorno stavo camminando per strada sulla 111th, tra la Settima e la Ottava Avenue, e ho visto quattro o cinque macchine della polizia. Ho chiesto a qualcuno cosa stava succedendo e mi dissero che il borsellino di una signora era stato rubato e qualcuno era entrato in uno di quei palazzi lì attorno con lo stesso. Un attimo dopo c’era già un elicottero che girava sopra i palazzi. Il borseggiatore era sul tetto e stavano cercando di scovarlo. Nessuno aveva mai visto la polizia usare gli elicotteri prima di allora, ma qualcuno ci disse che il borsello apparteneva a una signora bianca di una certa importanza. In ogni caso sembrava più che stessero fronteggiando l’intero esercito Vietcong piuttosto che dare la caccia a un ladro di portafogli.

Improvvisamente tutti i poliziotti corsero in una stradina e in pochi minuti la notizia si diffuse: il ladro aveva cercato di saltare una distanza di circa un metro e ottanta tra i due palazzi ma non ce l’aveva fatta. Me ne tornai a casa e fino al giorno dopo non seppi che il ragazzo che era precipitato nella stradina era Kenny Bellinger.

Non riuscivo a crederci. Ho pensato che dovesse esserci un errore. Kenny non avrebbe mai rischiato così tanto—e, in ogni caso, avrebbe potuto fare un salto di un metro e ottanta senza nessun problema. Così decisi di salire sul tetto del palazzo per controllare le dimensioni del salto, che infatti era più o meno di quattro metri e mezzo. Fu allora che cominciai a realizzare cosa era appena successo. Tutto quel potenziale era andato perso. Che fosse stata droga, disperazione o altro, Kenny non era riuscito a rimanerne fuori. Un’altra vittima. Kenny aveva 16 anni quando è morto». Tratto da The City Game di Pete Axthelm (Libreria dello Sport, 2001).

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