L’ULTIMO DEI NEWYORCHESI
di Mauro Bevacqua (@RivistaNba)
Apro il libro a pagina 11. Colson Whitehead, Il colosso di New York (Mondadori, 2004). «Non importa da quanto ci abiti, sei un newyorkese la prima volta che dici: Là c’era Munsey’s, oppure: Lì una volta c’era la Tic Toc Lounge. E prima che si insidiasse l’internet café, qui ti facevi risuolare le scarpe dal ciabattino. Sei un newyorkese quando quello che c’era prima diventa più concreto e reale di quello che c’è adesso».
Se è davvero così, allora “Ich bin ein Nooooyokar”, caro Colson, perché questa città non è mai la stessa, perché questa città cambia pelle ogni attimo, perché la New York di oggi non è mai uguale a quella di domani.
Una volta c’erano le puttane in Times Square, m’han detto—che oggi non ci si crede, che del distretto a luci-rosse son rimaste le luci e basta, giardinetto Disney fatto isola pedonale.
Niente più signorine sexy dietro il vetro, niente più note sparate a palla dagli amplificatori. Si è spento pure il CBGB, messo a nanna dopo più di 33 anni da un concerto di Patti Smith una sera di metà ottobre 2006. Oggi su quel pezzo di Bowery uno stilista super cool ci vende magliette a 250 dollari e giacche a 2.000, le rock star non più on stage ma testimonial delle sue campagne pubblicitarie.
Non c’è più Kim’s nell’East Village, cinquantacinquemila titoli o forse più, Godard al fianco di vergini dalla spada insanguinata e remake turchi di blockbuster hollywoodiani [“FREE KIM’S” da Salemi, Sicily—ma questa è un’altra storia].
Non c’è più il bar L’Angolo, dove Pino ti serviva una merenda italiana se volevi vedere Milan-Juve in notturna ma col sole che entrava dalle finestre, e da settimana prossima addio pure al brunch di Pastis, nel MeatPacking, dove a fare il buttafuori alla porta m’han detto che potevi incontrare il padre di Ron Artest.
Ecco, non c’è più neppure Ron Artest aka True Warrier. Dicono abbia assunto un’altra identità sotto il nome di Metta World Peace, al sole della West Coast, dove party a bordo piscina e fake-famiglie da real-TV hanno rovinato pure un prodotto del Queens come Lamar Odom. E a proposito di famiglie (vere): di quella che un tempo era l’orgoglio di Coney Island [citofonare Marbury-Telfair, Surfside Gardens] nella NBA non c’è più traccia, inglobata dal Celeste Impero.
Non c’è più una certa New York. E non ci sono più i newyorchesi nella NBA.
Ne è rimasto solo uno. Lunga vita a Lance Stephenson.
BORN READY
di Alessio Marchionna (@alessiomarchio)
Un uomo e un ragazzino camminano su una strada di Coney Island, Brooklyn. L'uomo è un grosso afroamericano sulla quarantina, indossa una t-shirt rossa oversize, pantaloni neri larghi rimboccati al ginocchio e un berretto nero con uno stemma rosso. Cammina con un’andatura ciondolante alla Denzel Washington in He got game e spinge un passeggino blu. Si chiama Lance Senior. Il ragazzino è un quindicenne smilzo vestito completamente di rosso e con una collana d’oro da cui penzola un grosso ciondolo. Si chiama Lance Junior. Nel passeggino c’è Lantz (no, nessun refuso, il bambino ha proprio la fortuna di chiamarsi così), l’ultimo arrivato in casa Stephenson. È la scena iniziale di Gunning for that number 1 spot, un documentario bellissimo girato nel 2006 e uscito nel 2008. Il regista segue le vite di otto tra i più promettenti talenti degli Stati Uniti. Lance Stephenson è il più giovane della compagnia. Il film si conclude con una partita—bianchi contro blu—al mitico playground di Rucker Park, tra la 155esima e Frederick Douglass Boulevard, ad Harlem. Lance non gioca granché. I palloni-premio per gli MVP vanno a Michael Beasley e a J.J. Hickson per i blu e a Brandon Jennings e Jerryd Bayless per i bianchi. Il fratellone di Lantz comunque si fa notare per un paio di momenti di follia premonitrice. Il primo è un lampo di talento impetuoso: un tiro dall’altra parte del campo senza neanche guardare il canestro alla fine del secondo quarto; il canestro non vale perché la sirena ha suonato prima che la palla lasciasse le sue mani, ma è un dettaglio: il pubblico impazzisce e lui comincia a ballare da solo al centro del campo. Il secondo è un'aggressione inspiegabile a un bambinone californiano brufoloso e un po’ sovrappeso di nome Kevin Love: mentre salta a rimbalzo, Lance gli rifila prima una manata in faccia, poi lo afferra per le parti basse e mentre atterra riesce pure a dargli una spallata. Il ragazzino di Brooklyn esce da Rucker Park presentandosi come un genio fulminante e fulminato, e con in dote un nuovo soprannome, che gli piace così tanto che qualche hanno dopo deciderà di farselo tatuare sul bicipite destro: Born Ready.
CITAZIONISMI: LANCE & THE LEGEND
di Tim Small (@yestimsmall)
«"Impara tutto, impara, impara, impara", Larry mi diceva sempre, "Guarda le partite", mi diceva. "Non stare lì seduto a prendere sottogamba quello che guardi." Lo ascoltavo. Ho guardato i giocatori davanti a me, ho osservato cosa facevano, le loro mosse e le ho aggiunte al mio swag» – Lance Stephenson.
«I Knicks avevano due pick al primo round (n°38 e n°39) e potevano usarle su Stephenson, la leggenda di New York City. Invece presero Landry Fields, permettendo che Stephenson finisse in Indiana, nel risvolto più fortunato della sua carriera. Se Stephenson fosse andato ai Knicks, sarebbe finita ORRIBILMENTE» – Andrew Sharp, Grantland.
«Noi vogliamo che resti e lui vuole restare qui. Questo è il miglior ambiente per lui» – Larry Bird.
«Devo tutto a Larry Bird» – Lance Stephenson.
«Stephenson era considerato un clown, una barzelletta, un personaggio imbarazzante in uno spogliatoio maturo. In una semifinale di conference contro Miami, la televisione ha colto Lance fare il segno del "choke" a LeBron. Per il resto della serie, i giocatori degli Heat correvano dietro a Lance, prendendolo a spintoni e a spallate, a turno, nei suoi brevi cameo sul parquet» – Adrian Wojnarowski, Yahoo! Sports.
«Lance Stephenson? Volete che vi parli di Lance Stephenson? Non ho nemmeno intenzione di dargli un briciolo del mio tempo» – LeBron James.
«In allenamento dice, "Brooklyn, Brooklyn. I’m from Brooklyn. Get out of here". Ha un bel po’ di swag addosso» – Roy Hibbert, centro, Indiana.
«Mi ha chiesto di marcare LeBron. Me lo ha chiesto. È competitivo. Sapevamo che Paul George si stava stancando a stare addosso a LeBron tutta la partita. Lance mi ha detto, "Fammi fare la mia parte"» – Frank Vogel, head coach Indiana.
«Ha dovuto portarsi sulle spalle il peso delle aspettative, dello stardom futuro, per colpa dell’hype che aveva addosso dalla quarta elementare e per colpa degli altri giocatori di Coney Island, come Stephon Marbury e Sebastian Telfair. Ma un ragazzino non dovrebbe vivere con quel tipo di pressione» – Tom Konchalski, scout NBA.
«Ha creduto in me. Mi ha dato la sicurezza in me stesso per poter giocare nella Lega. Larry is a legend, e quando ti dice che puoi fare questo, che puoi fare quello, ti dà una botta di autostima, ti fa pensare di poter fare di tutto» – Lance Stephenson.
«I giocatori di New York City non hanno paura di nessuno. Per un giocatore di New York City non importa chi sei, se non sei di New York non sei nessuno. È il miglior tipo di follia» – Andrew Sharp, Grantland.
«Adoro la pressione. Adoro aver provato alla gente che aveva torto. So di poter giocare in questa Lega, e so di poter fare bene. Mi piace ricordarmi di quando la gente mi guardava dall’alto in basso dicendo che non ce l’avrei fatta e mi piace aver dimostrato che avevano torto» – Lance Stephenson.
IL DURO
di Francesco Pacifico (@FzzzPacifico)
Sei un ragazzino con la testa quadrata al secondo anno di NBA. In stagione regolare hai dieci minuti a partita e tiri con il quaranta percento. La tua squadra è in semifinale contro i favolosi Heatles, che stanno giusto passando dalla fase boy-band o dueling banjos a quella in cui fanno sul serio, stile Beatles di Rubber Soul o Justin Timberlake quando si allea con Timbaland. Tu non conti niente. Ma ti risulta che un certo King James, il più forte del mondo, abbia un problema con i tiri liberi.
E nel mezzo di gara tre, mentre il Re se ne sta lì tutto solo a tirarne uno (che sbaglierà), tu ti porti le mani al collo e gli fai il gesto di soffocare, che nella vostra lingua significa sbagliare nelle grandi occasioni, che è proprio la critica che viene fatta al Re fin dai tempi dei Cavs e soprattutto dalle finali Miami-Dallas dell’estate prima.
Alla vigilia di gara quattro, le telecamere ti sorprendono a chiacchierare con un uomo che ha due decenni di basket più di te, Juwan Howard, uno per cui Jalen Rose non era un genio dei podcast di Grantland con la mazza da baseball in spalla ma un compagno di college. Dalle immagini del prepartita sembra che hai fatto svalvolare anche Juwan.
Più avanti nella serie, in gara cinque, Miami manda in missione punitiva un lungo della panchina, Dexter Pittman: il numero 45 di Miami, invece di saltare a rimbalzo su un tiro della tua squadra contro il ferro, ti chiude la strada con un gomito, che si incastra alla perfezione sotto il tuo mento. Ora sei tu a soffocare.
Nelle interviste parli dei tuoi giocatori preferiti, e siccome sei un due, parli di MJ. MJ faceva sbroccare la gente. Una volta contro la matricola Mutombo tirò un libero con gli occhi chiusi e dopo aver segnato disse al giovane: «Benvenuto nella NBA». Con esempi così…
Be’, l’anno dopo Indiana perderà ancora contro Miami, in finale di conference, ma gara quattro sarà tutta tua. Ora ti considerano un one man fast break, e in quella partita ne fai venti. Poi ti multano per flopping, insieme a LeBron.
Quest’anno che farai? Per ora ti sei stranito così tanto perché non ti hanno chiamato all’All Star Game che hai aumentato la frequenza un altro po’: inizio febbraio 2014, una partita qualunque contro Atlanta, ti fiondi in campo aperto, solo contro quattro avversari. Ti lanci terra-aria verso il canestro, perdi l’equilibrio, vai lungo, ma sei così veloce che prima di atterrare decolli, e mentre sei ancora in ascesa, prima dello schianto, lanci in qualche modo la palla verso l’alto. La palla sale lenta lenta un metro sopra il canestro, poi scende e tocca dolcemente il tabellone e si infila per i due punti.
Un lavoro sporco, ma qualcuno doveva farlo.
Le altre fanzine:
Buckets, vol.4: Kawhi Leonard.
Buckets, vol.2: DeMarcus Cousins.
Buckets, vol.1: Stephen Curry.