Nel momento in cui l’Arsenal, in modo forse un po' ingrato, aveva deciso di mettere fine al regno di Arséne Wenger, la Premier League perdeva l’ultimo allenatore capace di completare più di un intero decennio alla guida dello stesso club. Quattro anni prima avevano terminato la loro serie, contemporaneamente, Ferguson (26 anni) e David Moyes (12), gli unici altri due a riuscire nell’impresa. Sean Dyche non ha avuto né i risultati né la longevità di questi tre ma nel momento in cui il Burnley ha deciso di liquidarlo, tutta l’Inghilterra si è ricordata che qualcosa di speciale ce l’aveva pure lui. Il suo regno nel Lancashire è durato 9 anni e 166 giorni e nessuno nella Premier League del 2022 ha fatto di meglio.
L’arrivo di Dyche a Burnley ha coinciso con l’addio di una figura a lui diametralmente opposta come Eddie Howe, che con le sue idee ambiziose ha costruito quasi da zero il Bournemouth fino a portarlo in Premier League, per poi lasciarlo a sua volta otto anni dopo. Il ciclo di Dyche a Burnley è durato di più e ha portato il club in Premier League già due anni dopo il suo arrivo. I Clarets hanno poi salutato la Premier senza mai lottare veramente ma non si sono fatti troppi problemi e ci sono tornati solo un anno dopo. Il ritorno nel 2016 aprirà invece una serie di cinque salvezze consecutive e tra queste anche un settimo posto che è valso il primo preliminare europeo della storia del club. Il sesto anno è stato quello più complesso, quattro vittorie in Premier League e una lotta salvezza che ha smesso di essere tale non appena i soldi sauditi hanno inondato Newcastle. È poi quasi ironico che a guidare il ricco Newcastle saudita ci sia proprio Eddie Howe, che a Dyche aveva lasciato il posto nel 2012.
Intanto, però, da quando Howe ha preso in mano il Newcastle e Bielsa ha lasciato Leeds, il Burnley si è trovato a dover rincorrere principalmente l’Everton, una squadra che nel periodo in cui il Burnley è stato in Premier ha speso sul mercato dieci volte tanto. Per ritrovarsi a contatto queste due squadre, inevitabilmente, deve essere successo qualcosa e lo scontro diretto tra le due, giocatosi dieci giorni prima della cacciata di Dyche lo spiega bene.
In realtà questo Burnley-Everton si sarebbe dovuto giocare a dicembre, ma una surreale sovrapposizione di focolai Covid (loro e delle loro avversarie) e un rinvio per neve, hanno fatto sì che questa diventasse una delle cinque partite che i Clarets si sono trovati a dover recuperare da gennaio. Una partita che poteva essere sostanzialmente insignificante qualche mese fa è quasi artificialmente diventata un six-pointer per la salvezza aggiungendo un enorme carico emotivo. Il pathos ha finito per essere l’unica vera componente interessante di una partita altrimenti bruttina. Ad aprirla uno strano colpo al volo di Nathan Collins, che è sempre stato una riserva dei due centrali; a rimettere in piedi l’Everton due rigori concessi in modo stupido prima da Westwood e poi da Aaron Lennon (sì, lui). L’Everton chiude il primo tempo avanti senza sapere bene come, come lamentato da Dyche. Rivelerà dopo la partita di aver detto ai suoi di «non credere che l’Everton sappia come si vince una partita, soprattutto fuori casa».
Effettivamente nel secondo tempo il Burnley riesce a fare quello che deve. Rientra in partita col gol di un ex talento del calcio britannico come Jay Rodriguez su un pase de la muerte di Charlie Taylor, che con costume da Sterling si era lanciato a prendere il centro dalla linea di fondo. Il 3-2 arriva grazie a un cross, stavolta sbagliato, di Taylor su cui Matej Vydra (ex Udinese) è bravo a raccogliere il rimpallo per poi appoggiare al centro, stavolta però per Maxwel Cornet.
La vittoria sull’Everton era sembrata capace di ridare slancio a una stagione per molti versi strana e più difficile del previsto. Tuttavia sono bastati quattro giorni a far saltare il tutto con una sconfitta contro il Norwich già retrocesso e con la contestuale vittoria dell’Everton a Old Trafford.
L’addio di Dyche è arrivato cinque giorni dopo la trasferta a Norwich, con un comunicato sorprendentemente freddo del club in cui si ricordano che «era il manager più longevo della Premier League» e che li aveva portati due volte nella massima serie e addirittura una volta in Europa. Nel leggere queste parole è difficile non provare un po’ di tristezza soprattutto nella superficialità con cui il presidente, Alan Pace, rende merito al lavoro fatto da Dyche, dicendo che «tuttavia i risultati di questa stagione sono stati deludenti» e «la decisione è stata molto difficile», come per autoassolversi e convincersi che era inevitabile, salvo poi chiudere con un «pensiamo che sia la scelta migliore per salvarci». Un format ormai classico, consolidato e non troppo dissimile da quello usato dal Leeds per mettere alla porta Marcelo Bielsa.
Bielsa e Dyche rappresentano idee profondamente diverse e Dyche non lascerà una traccia altrettanto profonda nel calcio mondiale, ciò non toglie che i loro addii ai rispettivi club siano sembrati ingiusti, e infatti spesso male accolti dai tifosi.
La capacità di farsi apprezzare e ben volere dai tifosi è stata forse la qualità migliore di Dyche, un personaggio unico nel panorama calcistico, con la sua voce roca e il suo senso dell'umorismo. Per anni ha rappresentato una figura popolare e "vicina", in un contesto estremamente patinato. Un allenatore che ascolta gli Stone Roses e che definisce il periodo Rave "un grande momento per me".
C'è anche lui che risponde al telefono di un giornalista.
Le sue abilità di comunicatore hanno evocato paragoni, per lo più ironici, con Josè Mourinho, facendogli guadagnare il soprannome di Ginger Mou. Dyche ha, in effetti, una simile capacità di creare entusiasmo intorno a sé e soprattutto nei tifosi, che hanno reso Turf Moor uno stadio caldo e ostile come ormai uno o due in tutta la Premier League.
Gran parte del lavoro di Dyche però si vede nel dietro le quinte, per fare sì che il vaso di coccio Burnley, la cui disponibilità economica è più da club di Championship, potesse resistere in mezzo ai vasi di ferro della Premier. In poche parole, ha dovuto creare valore lui stesso. E il modo migliore per creare valore è stato creare un sistema, un nucleo di giocatori la cui identificazione con l’allenatore era totale non solo nei concetti tattici ma anche nella dimensione mentale. Ogni giocatore è stato accuratamente scelto e inserito in questa direzione.
Dyche ha saputo raccogliere del materiale umano modesto ma funzionale al suo sistema, finendo per esaltarne le qualità e producendo giocatori da Premier League. La scarsa qualità del materiale fornito a Dyche non è altro che la conseguenza degli scarsi investimenti fatti da un club che opera con budget quasi inesistenti e che in genere mira soprattutto a profili di medio-alta Championship o a scarti di squadre più ricche come avvenuto con il loro attuale esterno Aaron Lennon.
Nel 2019 si sono trovati anche a mettere sotto contratto un trentottenne Peter Crouch.
Nonostante ciò, il Burnley ha portato alla Nazionale inglese due portieri come Pope e Heaton ma anche Michael Keane, James Tarkowski, Jack Cork e, su tutti, Kieran Trippier.
Inevitabilmente un sistema con dei requisiti così alti soprattutto per ciò che riguarda l’aspetto mentale ha prodotto qualche vittima. Patrick Bamford è un esempio: preso in prestito nell’estate 2016 e rapidamente scartato per le liti avute con Dyche. Stando alle parole di Bamford, Dyche era convinto che non avesse mai dovuto lavorare per ottenere qualcosa. Quest’etica del lavoro porta subito alla mente quel concetto di squadra operaia forse abusato nel corso degli anni, ma evidente nel sistema di Dyche, dove esiste un lavoro inteso principalmente come fatica, fisica e mentale, mirata al risultato.
La fatica è un concetto proprio del Burnley di Dyche, che al suo club ha saputo dare un’impronta univoca e, al netto di qualche interprete, immutabile. Questa impronta è il 4-4-2 reattivo e iper-verticale, che ha costruito per il suo Burnley. In questo sistema si trova sempre qualche variazione ma perlopiù legata ai nomi che non alla funzione. In generale Dyche ha costruito una squadra che difende con almeno 8 individui sistematicamente dietro la palla e che quando difende abbassa anche i suoi esterni offensivi, stringendo i terzini e creando una linea a sei che spinge gli avversari a cercare soluzioni non codificate e, soprattutto, ad alzare il pallone.
Proprio nel modo in cui si forzano i palloni alti, la densità che il Burnley crea in area con individui fisicamente possenti sposta quasi sempre l’equilibrio dalla parte dei Clarets, che nel gioco aereo ha due giocatori di altissimo livello come James Tarkowski e Ben Mee. In particolare Mee è diventato per il Burnley e per Dyche quello che gli inglesi chiamano stalwart; arrivato a Burnley appena ventiduenne, è diventato un titolare sotto Dyche e negli anni si è preso la fascia di capitano e il ruolo di leader assoluto del club, arrivando persino a sedersi in panchina per la prima dopo l’addio di Ginger Mou.
Questa capacità di forzare il crossing game negli avversari è forse quello che ha creato più nervosismo nei giocatori e nei tifosi che andavano a giocare contro il Burnley e in particolare ha contribuito a renderlo una delle peggiori squadre da affrontare nei momenti di crisi, il che risulta paradossale considerando che raramente il Burnley si è trovato a muoversi in zone di classifica interessanti in positivo.
L’ultima grande vittima di questo sistema è stata il Tottenham, inchiodato proprio da Ben Mee.
La fase offensiva è sempre stata, perlomeno nelle idee, essenziale e verticale, basata su un volume enorme di palloni lanciati da qualsiasi situazione – il portiere Nick Pope lancia oltre i trenta metri il 90% dei palloni che tocca – e che servono a creare quel sistema di aggressione della seconda palla classico della Premier di anni fa. In alternativa la soluzione principale è sempre finita per ricadere sui cross, spesso massimizzati con due torri in area come sono stati, in ordine, Vokes, Wood e infine Weghorst, che con le loro sponde dal secondo palo sono diventati un esempio di come creare lo spazio aereo.
Sean Dyche sembra l'ultima emanazione della generazione dimenticata di Sam Allardyce, Roy Hodgson e Tony Pulis, ma è una verità parziale. Il Burnley ha saputo declinare l'idea retrò del calcio inglese in un sistema moderno e nel farlo ha creato un ambiente unico. Lo stesso Dyche non parla delle sue idee in modo dogmatico ma sa bene che il suo sistema è flessibile, parla di “ottimismo autentico” perché sa che la sua squadra ha sì un playbook ben preciso ma sa anche uscire da esso quando serve, mostrandosi più adattabile al contesto di quanto non siano stati molti manager inglesi prima di lui.
Il Burnley è stato capace anche di produrre gol tenendo il pallone e costruendo con pazienza.
In una Premier League che negli anni è cambiata e cresciuta, sganciandosi dall’ideale del kick-and-run e importando idee sempre più nuove e raffinate, Dyche rappresenta un modo di fare calcio apparentemente anacronistico ma capace di sopravvivere bene al tempo. La sua capacità di creare un sistema è raffinata al pari di molti suoi colleghi e complessivamente meritava di conservare il suo status da Premier League. E probabilmente lo farà anche dopo aver visto il club che lui ha creato sprecare tutto il suo valore.
Nel suo commento sul Guardian, Jonathan Liew ha spiegato bene come la causa della probabile retrocessione del Burnley non sia tanto lo scarso adattamento ai tempi quanto piuttosto la natura stessa del Burnley, ossia un club piccolo e povero in un mare di squadre finanziate da plurimiliardari e stati sovrani.
L’epurazione di Dyche, allora, suona incomprensibile. Una scelta in linea con delle decisioni dirigenziali che hanno impoverito e indebitato un club che non si vedeva stabilmente tra i grandi da oltre 40 anni. Decisioni che la stampa e i tifosi stanno criticando duramente. Sean Dyche resta un manager abile e una figura umana come poche nella nuova Premier League. Nonostante il suo Burnley non sia mai stato una squadra spettacolare, le sue idee hanno aiutato ad arricchire l'ecosistema della Premier League, a rendere il campionato un posto un po' più vario e interessante.