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Caffè con Abidal
07 dic 2015
Una chiacchierata con il giocatore francese ex Barça.
(articolo)
8 min
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A 36 anni, dopo aver vinto 2 Champions League, 7 titoli nazionali tra l’Olympique Lione e il Barcellona, e altri 12 trofei (comprese 2 Coppe del mondo per club) non deve essere semplice trovare la motivazione per trascorrere le giornate fuori dal terreno di gioco. Tuttavia, Éric Abidal è sempre sorridente durante l'arco dell'intervista, dal primo momento in cui mi riceve nell’ufficio della sua fondazione nei pressi di Plaça de Francesc Macià, nella zona nord di Barcellona, a quando mi congeda. L’accoglienza è impeccabile: elegante come in campo, l’ex difensore mi fa accomodare mentre di fronte a lui il televisore è acceso su Barça TV e trasmette una replica della partita con il Getafe del 22 dicembre 2013: il risultato finale sarà 5-2 per il Barcellona, ma in quel momento la squadra allenata da Gerardo Martino perde 0-2.

Abidal non risponde mai con frasi fatte né giri di parole, sembra autentico in ogni dichiarazione, corta o breve che sia. Muove la mani lentamente, resta incollato alla sedia fino al momento in cui si alza per simulare l’inchino che rivolse al suo idolo Paolo Maldini la prima volta che lo vide.

Dopo aver sconfitto la malattia hai venduto le tue macchine perché non ne avevi più bisogno. Come ti sposti adesso, a piedi?

No, dai proprio tutte non le ho vendute! Ho bisogno comunque di muovermi per venire a lavoro e portare le mie figlie a scuola. Siamo una famiglia grande e presto alle prime tre si aggiungerà una quarta bambina, che nascerà a febbraio. Inoltre, viviamo un po’ fuori città, a Sant Joan Despí (dove si allena il Barça, ndr) dove stiamo più tranquilli.

Qual è l’obiettivo della tua fondazione?

L’importante è che passi il messaggio, che vada oltre le frontiere e a partire da lì la gente possa davvero aiutarci. Ci siamo finanziati praticamente da soli all’inizio e ancora oggi il nostro denaro rappresenta i ¾ della liquidità. Faremo un torneo di calcio a dicembre con la speranza di raccogliere i fondi necessari per finanziare ricerca e anche studi sul cancro, per giovani medici che necessitano imparare nuove tecniche di trapianto di fegato, ad esempio.

Offrite un sostegno non solo ai pazienti ma anche alle famiglie, giusto?

Soprattutto alle famiglie. Per il paziente è in qualche modo "facile" gestire la situazione perché si trova all’ospedale nel suo letto, ma spesso i familiari non dispongono dei mezzi economici per poter stare vicino al malato, alloggiarsi nei pressi della struttura ospedaliera o addirittura mangiare.

https://www.dailymotion.com/video/xr8n3i_eric-abidal-lifting-champions-league-trophy_sport

Abidal solleva la Champions League vinta dopo il l'operazione al fegato.

Come gestì la tua famiglia la tua malattia?

Mio padre stette molto male. Non è una persona che ama muoversi da Lione—non c’era nemmeno alla finale di Champions League di Wembley quando ho sollevato la coppa da capitano—ed è stato quello che ha sofferto di più tra tutti. Eppure la mia famiglia e i miei compagni di squadra sono stati fondamentali per il mio recupero della malattia. Alla fine grazie a loro ne sono uscito fuori, mentre io comunque mi battevo con le mie armi.

Ti definiresti un combattente?

Come un lottatore. E questo si riflette ovviamente nell’impegno che viene profuso nella fondazione e nel lavoro di tutti i giorni, quando come una persona normale arrivo in ufficio, dove trovo tante motivazioni per far bene, e poi torno a casa la sera. Questo mi ha permesso di trovare un equilibrio interno dopo aver abbandonato il calcio giocato e non è poco. Combatto per una giusta causa e sono circondato dalla gente giusta.

Anche in campo eri un lottatore, secondo te il calcio rispecchia la vita?

Non del tutto. Forse l’attitudine è la stessa. Se a casa hai un certo equilibrio allora lo avrai anche nel lavoro, e di conseguenza in campo. Ma nel gioco in sé non è così: pensa a Messi, non potrebbe mica vivere come gioca, sarebbe insostenibile!

Fu difficile integrarsi a Barcellona, la prima volta, quando neanche parlavi spagnolo?

Sicuramente fu una scommessa, ma non ho avuto paura di fare errori mentre parlavo, è stato così che ho imparato a comunicare. Nella vita bisogna prendere delle iniziative, e una volta sfondata la barriera della lingua, poi, c’è da concentrarsi nel lavoro sul campo.

Hai giocato vicino a Carles Puyol e Lilian Thuram, cosa mi dici di questi due grandi difensori?

Anzitutto si tratta di due amici. Thuram è stato un mio idolo per anni, un esempio da seguire. Mentre Puyol, secondo me, è stato e sarà sempre il miglior difensore centrale del mondo.

Abidal affronta Maldini a S. Siro con la maglia del Lione.

Tra i difensori italiani chi ricordi?

Ah, vabbè, è facile, Paolo Maldini! L’ho visto una volta a Monaco e l’ho salutato così (fa l'inchino). Ho sempre avuto tantissimo rispetto per lui, sia come persona sia come calciatore. E anche se non ha mai vinto un Mondiale credo che meritasse di vincere il Pallone d’oro l’anno in cui lo diedero a Cannavaro.

Da calciatore hai fatto un po’ come lui, hai giocato da centrale e da terzino al Barcellona. Merito di Guardiola?

Non solo suo, ma anche di Tito Vilanova, che mi aveva proposto spesso come centrale, il ruolo che preferisco. Poi negli esperimenti del 3-4-3 il ruolo di marcatore di sinistra mi andava a pennello. Pep invece nella difesa a quattro mi preferiva come terzino, visto che in mezzo c’erano due come Piqué e Puyol.

Il Mondiale 2006 lo giocasti da terzino. La Francia sorprese tutti, merito anche di Zidane, che molti dicevano fosse vecchio…

Vecchio? Ma se Zidane può giocare da fermo! Ricordo ancora che, dopo aver passato il girone a stento, affrontavamo la Spagna agli ottavi. Prima del match mi domandarono cosa avesse la Francia in più della Spagna. E la mia risposta fu lapidaria: Zidane. E fece il fenomeno. Così come lo fece contro il Brasile e il Portogallo. Con l’Italia non riuscimmo a vincere, ma in quel Mondiale la Francia giocò bene con tutte le grandi squadre che affrontò. E non sempre chi vince vuol dire che l’ha meritato, ci sono tanti fattori che intervengono nella finale di un Mondiale.

Il calciatore italiano che hai affrontato che ti ha colpito maggiormente?

(Riflette). Sicuramente Pirlo, lui è la squadra. E un altro che mi piaceva tanto, che non affrontai in quel Mondiale, ma all’Europeo 2008, era Antonio Cassano. È uno che sente il calcio. Dal suo talento si vede che è uno di quei calciatori che hanno iniziato a giocare per strada.

Sei mai stato vicino a una squadra italiana?

Sì. Nel 2004 mi contattò Ariedo Braida, che ora è il DS del Barça, per farmi andare al Milan. Pranzammo insieme a Lilla, dove giocavo, ma in quel momento volevo affermarmi a Lione, a casa mia, dove stavo per tornare per giocare la Champions League. Mi era stato proposto un contratto a vita al Lione, poi sono successe delle cose che mi hanno allontanato. E dopo Lione, nel 2007, sarei potuto andare di nuovo al Milan, ma poi ho scelto il Barcellona perché mio padre adora Maradona.

Hai mai conosciuto Diego?

Sì, ho avuto il piacere di vederlo due volte: una in Qatar e un’altra qui. Mi sono sentito come un bambino di fronte a lui. Una sensazione indescrivibile. Un idolo.

Perché hai deciso di tornare a Barcellona?.

Le mie figlie avevano già viaggiato molto, avevamo bisogno di una stabilità dopo la breve esperienza in Grecia all’Olympiakos. Io e mia moglie Hayet stavamo bene qui e abbiamo deciso insieme di tornarci.

La tua conversione all’Islam ha cambiato la tua maniera di vivere il calcio?

Assolutamente no, fatta eccezione per i pasti. Già prima di diventare musulmano pregavo molto, mangiavo sano e bevevo poco.

Era duro praticare il Ramadan quando eri in attività?

In parte. Io lo praticavo sempre, tranne nei giorni delle partite. Ma alla fine è solamente una questione di testa, una convinzione. Certamente era più arduo mantenere alto il livello delle prestazioni fisiche, ma non era impossibile. Per me è stata anche una sfida quella di mettermi allo stesso livello di persone che per mancanza di denaro non possono nutrirsi quando vogliono e in questo modo ho raggiunto anche una maggiore serenità spirituale. Poi, dal 2011, dopo la malattia, ho dovuto smettere col Ramadan per poter prendere le medicine.

Tu che vivi in Catalogna come straniero, cosa ne pensi della questione dell’indipendenza dalla Spagna?

Credo che i catalani abbiano le loro ragioni per manifestare a favore di qualcosa che gli sta a cuore. Poi, ovvio, non conosco bene i dettagli della questione, ma il fatto di vivere qui da straniero mi ha aiutato ad amare questo posto e a rispettare la gente che ci vive.

D’improvviso parte un appaluso dalle sue mani e mi dice, indicandomi lo schermo dove nel frattempo il Barça aveva rimontato 3 a 2: «Guarda, che gol, un fenomeno».

https://www.dailymotion.com/video/x18qaum_pedro-hat-trick-against-getafe_sport

Pedro segna il 3-2, il gol della tripletta.

Parli di Pedro? Ti dispiace sia andato al Chelsea? Però in effetti là davanti era chiuso dalla MSN...

Un peccato, è un grande. Adesso, con Messi infortunato, sono costretti a giocare con Sandro e Munir. Niente a che vedere. Che gol, che gol! Guarda qua!

Chiudiamo con l’ultima sul calcio giocato. Se Puyol è il più grande centrale di sempre, qual è stato per te il rivale più difficile da marcare?

Ce ne sono stati tanti. Ma credo che Messi in allenamento mi abbia fatto soffrire come nessun altro.

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