«Che ore sono?».
L’uomo è troppo agitato per guardare il telefono.
«Faccio in tempo a mangiare?».
Suono di campanello, l’ascensore frena.
«Per favore, dimmi dove posso mangiare qualcosa».
Sono le 16 di un pomeriggio di gennaio. Fuori è ormai buio. Davanti a noi c’è la lobby dell’Heldrich Hotel, nel centro di New Brunswick dove sorge il campus della Rutgers University, la principale università pubblica del New Jersey, dove lo smaltimento rifiuti della famiglia Soprano operava a pieno regime. Frustrato dalla nostra impotenza, l’uomo si avventura all’esterno alla disperata ricerca di cibo. Tira un vento gelido, ma non sembra curarsene. Indossa solo un’enorme felpa giallonera, con l’inconfondibile testa del falco — the Hawkeye — della University of Iowa. Abituato alle correnti artiche che spazzano il Midwest, non si fa certo intimidire dall’inverno della costa Est; solo il pensiero di saltare la cena delle cinque di pomeriggio, un rituale scolpito nella pietra, riesce a turbarlo. Ma questa sera anche quello può aspettare. La priorità è rendere omaggio alla cosa più incredibile che l'Iowa possa offrire all’umanità: Caitlin Clark, 22 anni, 185 centimetri, di professione combo guard. L’incarnazione della perfezione applicata alla pallacanestro. Di lì a poco scenderà in campo assieme alle altre Hawkeyes proprio per sfidare Rutgers University, in una partita che si rivelerà puntualmente senza storia. Come quasi tutte le altre.
In quattro anni di college, Clark ha riscritto la storia della pallacanestro femminile, portando questo sport a livelli mai visti prima. Ha polverizzato record, ammassato vittorie, smosso folle oceaniche, e spostato ogni sera un po’ più in alto la soglia di quello che credevamo possibile su un campo da basket. L’ultima impresa è di poche ore fa: diventare la più grande realizzatrice di sempre del basket universitario femminile, superando i 3.527 punti di Kelsey Plum, e avvicinandosi sempre di più ai 3.667 di “Pistol” Pete Maravich, che detiene il record assoluto del college basket. Nel mentre, è diventata a furor di popolo l’ambasciatrice assoluta di uno stato che, fino a poco tempo fa, era famoso solamente per il cervellotico caucus delle primarie presidenziali, oltre che per gli sterminati campi di granoturco che hanno ispirato il film culto di baseball Field of Dreams. E invece, oggi, l’Iowa è la terra di Caitlin Clark. L’angolo di America dove è nata e cresciuta, ed è diventata così brava a giocare a basket che migliaia di persone macinano chilometri su chilometri per vederla almeno una volta con i propri occhi. Determinati ad assistere a qualcosa che non tornerà mai più.
Genius at work
L’hanno chiamata talento generazionale,fenomeno, GOAT, “la figlia di Diana Taurasi e Sue Bird”. Oppure “un incrocio tra Steph Curry e Pete Maravich”, come suggerito da chi ancora non riesce a guardare lo sport femminile senza la lente degli omologhi maschili. Ma la definizione migliore potrebbe essere quella di Coquese Washington, allenatrice di Rutgers, che dopo aver aver visto Clark mandare in fumo il suo piano partita in nemmeno un quarto di gioco, ha raccontato ai presenti che quella non era semplice pallacanestro. No, era «genius at work». Qualcuno la vede addirittura come la più grande cestista di sempre, per quanto sia difficile formulare verdetti simili per un’atleta che non ha nemmeno concluso la carriera universitaria. Quello che è certo è che una capacità di dominare il gioco in questa maniera, a fronte di una taglia fisica normalissima, è qualcosa di eccezionale, che mai è capitato di vedere prima.
Straordinari sono i suoi celebri tiri da 8 metri sganciati in una frazione di secondo, che costringono le difese a uscire a valanga su ogni blocco. Ma altrettanto straordinaria è la sua capacità di bruciare l’avversario dal palleggio, con una semplicissima quanto disarmante esitazione con cambio di velocità. E poi ci sono le doti di passaggio, l’arma più efficace con cui punisce le difese troppo focalizzate su di lei. I suoi assist in contropiede, spesso tutto campo, arrivano a destinazione con rotazione impeccabile, generando comodi appoggi per le compagne. E gli scarichi sulle penetrazioni, facendo spesso passare la palla in un fazzoletto di spazio, sono manna dal cielo per i lunghi, che banchettano sugli aiuti disperati delle dirette avversarie. E così, nella slot machine impazzita che corrisponde al suo tabellino, punti e assist lievitano tipicamente di pari passo, con ritmo vorticoso. In 39 minuti di impiego ha una media di 32.1 punti, 8.3 assist, 7 rimbalzi, mettendo lo zampino— come finalizzatrice o passatrice — in oltre metà dei punti prodotti dal proprio attacco. Una proporzione degna di LeBron James al culmine della carriera – chiedendo umilmente perdono per il pensiero maschilista.
Parlare solo di numeri, però, sarebbe gravemente riduttivo. Quella di Clark è infatti una storia di successo debordante, dentro e fuori dal campo, che va infinitamente oltre la lista dei record. A braccetto con le sue cifre da capogiro, infatti, sono arrivate risultati di squadra inimmaginabili per un’università di buona cultura sportiva, ma la cui tradizione non arriva nemmeno a scalfire quella di superpotenze come Connecticut, Baylor, o Tennessee. Trascinate dalla propria leader, le Hawkeyes sono arrivate a giocarsi il titolo nella finale dello scorso anno, dopo un’inebriante cavalcata nel torneo NCAA in cui hanno fatto la pelle alle stra-favorite Gamecocks di South Carolina — in una partita di semifinale in cui Clark ha distrutto da sola l’intero impianto della difesa avversaria.
Una delle prestazioni individuali più incredibili di tutti i tempi.
Ed è stato proprio durante la March Madness dello scorso anno che la sua leggenda è salita di livello, trasformandola da idolo locale a eroe nazionalpopolare. Sono state tre settimane in cui Clark ha distrutto qualunque cosa si mettesse sulla sua strada, imponendosi nel duplice ruolo di macchina da canestri e insaziabile belva da competizione. Al pari delle sue magie sul campo, è stata la sua leadership sfrontata, spesso irriverente, che ha tenuto tutti incollati alle partite, generando un volume di discussione popolare degno dei più grandi momenti della storia del March Madness.
Come quando ha esplicitamente fatto capire alla diretta avversaria di non voler nemmeno provare a difendere su di lei; o quando ha sfoderato il celebre gesto “you can’t see me”, con cui si passa la mano davanti alla faccia per ricordare alle avversarie la loro totale impotenza citando il wrestler John Cena di metà anni 2000. La stessa indistruttibile fiducia nei propri mezzi le è pure costata l’antipatia di certe avversarie, come visto in diretta nazionale negli ultimi secondi della finale persa contro LSU. Quando Angel Reese, a coronamento di una partita sontuosa, si è ripetutamente passata la mano davanti alla faccia, con la vittoria ormai in cassaforte. Il gesto, ripreso da tutte le angolature, ha sollevato aspre polemiche — da chi si è scagliato contro Reese per la provocazione poco cavalleresca, a chi ha rimarcato il doppio standard di giudizio verso lo stesso gesto fatto da una persona nera e da una bianca. Ma al netto di queste frizioni, quello verso Clark continua a essere un sentimento di diffusa, veemente adorazione, che si estende su scala nazionale, e coinvolge diversi strati della popolazione. Qualcosa che unisce molto più di quanto divide, e che ha permesso a tantissimi americani di allinearsi nel culto di un idolo universale. Come succede solo con i grandissimi campioni.
The Caitlin Clark Effect
Lo chiamano TheCaitlin Clark Effect, ma forse sarebbe più corretto chiamarlo The Caitlin Clark Magic. Perché la presenza di Caitlin, dentro e fuori dal campo, è innanzitutto un mistero che genera meraviglia, resuscitando angoli di America che avevano dimenticato cosa si prova ad andare al palasport con la voglia di emozionarsi davvero. Da qualunque prospettiva la si guardi, Clark è stato un ciclone per il basket femminile – generando volumi di interesse, e flussi di affari, che in precedenza non erano mai stati nemmeno sfiorati. L’esordio interno degli Hawkeyes, organizzato in uno stadio da football, ha fatto registrare quasi 60mila spettatori, record di sempre per la pallacanestro femminile. Da lì in poi tutte le partite di Iowa, in casa e in trasferta, si sono giocate davanti a palazzetti esauriti. A Northwestern, ai confini di Chicago — una città dove si respira basket, ma lo sport universitario è talmente derelitto che in molti si dimenticano della sua esistenza — il sold out non c’era mai stato. Almeno fino a due domeniche fa, quando in una tipica mattina di gennaio con temperature glaciali i primi spettatori si sono presentati ai cancelli alle 8 di mattina. Dovevano prendere i posti migliori, adeguandosi alla pratica comune nella NCAA femminile che non prevede biglietti numerati, e dunque premia chi arriva per primo sul posto.
Ma anche in luoghi con grande tradizione universitaria la febbre si è fatta sentire. Ohio State, una delle roccaforti storiche dello sport di college, ha battuto il record di tutti i tempi di affluenza, con oltre 18mila presenze; pochi giorni dopo lo stesso è accaduto a Nebraska con 15mila. Con i biglietti bruciati settimane prima delle partite, gli affari si sono spostati sul mercato secondario, dove si sono raggiunti prezzi mai visti prima a queste latitudini. Il prezzo base per la partita del record, battuto ieri sera, era 450 dollari; mentre alle Final Four dello scorso anno, i biglietti costavano in media il triplo di quelli della Final Four maschile. E poi ci sono gli ascolti televisivi, che anche nell’era dello streaming continuano a essere il termometro principe per misurare fino a dove arriva la febbre nazionalpopolare. La finale dello scorso anno, peraltro persa da Iowa, è stata vista da 2 milioni e mezzo di spettatori, record di tutti i tempi per la NCAA femminile. La trasferta sul campo di Maryland, pochi giorni fa, ne ha attratti oltre 1 milione e mezzo, sfoderando pure una videocamera personalizzata per seguire ogni movimento di Clark. Solo quella, su TikTok, ha fatto registrare quasi un milione di visualizzazioni.
La celebrità perfetta
Ma nessuno snocciolamento di cifre può restituire la forza dell’impatto che Clark ha avuto sulla coscienza collettiva del Paese. Il suo è un incantesimo trasversale, nello spazio e nel tempo. Che attraversa gli sconfinati spazi di questa nazione, così come le generazioni dei suoi abitanti, generando un senso di identificazione mai visto in passato. In quella che potrebbe essere la sua ultima stagione all’università, ogni tappa del calendario di Clark si è tramutata in una sorta di concerto rock che richiama discepoli da centinaia di chilometri di distanza — per la precisione 200 di media, come recentemente calcolato da un’inchiesta di ESPN, con un viaggio di sola andata di oltre due ore. Nei parcheggi delle arene si sono presentate nonne, nipotine, famiglie nucleari, famiglie allargate, comitive della parrocchia. Assieme a molti quarantenni alla deriva alla disperata ricerca di una scossa motivazionale. Una massa di seguaci composita, per traiettorie di vita ed origini geografiche, ma con in comune la stessa, lucida consapevolezza di chi sa che sta per assistere a qualcosa di irripetibile.
E proprio come nei concerti, l’idolatria collettiva comporta anche una serie di grattacapi organizzativi. Inediti, per un contesto dove la maggior parte delle partite si gioca in un clima intimo, con la folla ben lontana dalla capienza. E le giocatrici sono abituate ad andare e venire indisturbate, senza doversi preoccupare di spostamenti e complicazioni logistiche. Ma con Caitlin è tutta un’altra storia. Dalle file chilometriche all’ingresso delle arene, alla corsa per accaparrarsi i posti migliori; dalla spasmodica ricerca di autografi dei ragazzini in prima fila, al consueto assedio al pullman della squadra. Dove serve la polizia per aprire un varco tra la folla e assicurare alle giocatrici la possibilità di salire sul mezzo senza doversi cimentare in ulteriori tagliatori e sgomitate. «Mi rivedo in quelle ragazzine. Io ero così alla loro età. Sarei stata lì, in prima fila. Aspettando uno sguardo che mi sarei ricordata per sempre. Per questo non mi pesa. So quanto significa che per loro», racconta lei, all’ennesima domanda se tutte quelle attenzioni non l’abbiano un po’ stancata. E invece no, non siamo nemmeno vicini. La naturalezza con cui fa capire di divertirsi un sacco è la stessa con la quale mette a sedere i difensori. Una delle tante dote innate di un personaggio che sembra studiato a tavolino per trionfare nel suo universo, e non solo per le sue surreali abilità tecniche.
Clark è il prototipo della celebrità perfetta. Spigliata, spontanea, piena di energia. Incline al sorriso, ma pure alla provocazione. Sicura di sé, ma felice di prendersi in giro. Seria, ma con la battuta sempre pronta. In definitiva, abilissima a navigare la sottile linea tra swag e arroganza che, a parità di talento, fa la differenza tra un eroe di culto e un cattivo. E Caitlin, lungo quella linea, si è sempre mossa benissimo. Forte pure della sua whiteness da classe media, che le consente di incarnare certi valori senza paura di essere vista come una minaccia. Come l’essere ossessionata dal gioco, competitiva, spietata, senza che a nessuno venga in mente di percepirla come eccessivamente aggressiva. O l’inclinazione ad abbracciare l’estetica agricola dell’Iowa, stando però al sicuro dagli stereotipi contadini in cui finiscono spesso invischiati gli abitanti degli stati rurali. Ma sono anche i benefici di un livello di istruzione, individuale e in famiglia, che le garantisce l’immagine rassicurante di chi, per quanto fenomenale, ha delle alternative al campo. L’esatto opposto della disperazione di chi non può essere nient’altro se non lo sport che gioca, tipica della percezione pubblica di molti atleti afroamericani.
E così, tra un record e l’altro, Clark è rapidamente diventata un role model perfetto. Anche per la naturalezza con cui ha unito sport e identità territoriale, raggiungendo la fama nei luoghi dove è nata e cresciuta, e portando alla gloria uno degli atenei principali del proprio stato – la concorrente principale era Iowa State, e le cose probabilmente non sarebbero andate troppo diversamente. Difficile immaginare una parabola più ideale per il mondo dello sport universitario. Dove, al netto di pochi atenei che lavorano su scala nazionale, il legame con le radici continua a essere un motore potentissimo. Nell’attirare i giocatori verso gli atenei, e nello spingere la gente a tornare al palasport, generazione dopo generazione. Molti sono convinti che sia il suo ultimo anno, prima di andare in WNBA. Anche se tecnicamente ce ne sarebbe potenzialmente un altro, e Clark non si è ancora sbilanciata sulle proprie intenzioni. Ma si tratta comunque di una storia a lieto fine. Decidesse di fare il salto finirebbe a Indiana, che ha la prima scelta al prossimo Draft. Un viaggio comodamente alla portata per chi si mette in macchina dall’Iowa, e ha ancora tanta voglia di godersi la propria portabandiera.
2 minuti e mezzo
«Sei pronta a vedere un po’ di storia?». La telecronista, a pochi istanti dalla palla a due, scherza con la collega. Per battere il record di Kelsey Plum, stella della University of Washington, servono 8 punti. In sovrimpressione la regia propone un conto alla rovescia. Primo possesso: virata e comodo appoggio. Secondo possesso: tiro da otto metri. Quarto: palleggio arresto e tiro, sempre da otto metri. Una di quelle “logo threes” che l’hanno resa leggendaria.
«Sapevate tutti che per il record avrei tirato dal logo», ha detto sorridendo dopo la partita.
Sono passati due minuti e il record è già in saccoccia. Coach Lisa Bluder, che pure aveva promesso di non farlo, chiama immediatamente un timeout. La folla è in delirio. «You did well girl», dirà l’allenatrice nell’intervista alla fine della partita, con la consueta leggerezza che ne contraddistingue le maniere. Liquidata la pratica, Clark può tornare a concentrarsi sul gioco. Alla pausa è già a 28 punti, incluso un assurdo gioco da quattro. Finirà con 49 punti e 13 assist. Come se non ci fosse abbastanza di cui parlare, è pure il record assoluto in una singola partita per la propria università. Messa in cassaforte la vittoria, la serata si chiude come tutti si aspettavano: con le melense scene da commedia americana a suggellare il trionfo. Un micidiale montaggio di tre minuti con tutti i complimenti dei parenti. L’edizione fresca di stampa del Des Moines Herald, con il titolo “Unmatched” sopra una sua immagine a tutta pagina.
E il consueto stuolo di autografi e fotografie per rendere la serata speciale a chi, ancora una volta, ha voluto esserci. Per godersi uno spettacolo irripetibile.