Un estratto dal libro "Velata. Hijab, sport e autodeterminazione" di Giorgia Bernardini, uscito per Capovolte.
La voce di una donna è come la sua nudità
(Talmud, Berakhot 24a)
Khalida è sdraiata su un letto. È notte fuori, ma la luce della camera è accesa. Più i giorni si complicano, più sente le paure farsi spazio, sgretolare le sue certezze con la costanza impercettibile di una radice che si infiltra in rocce secolari. Non aveva paura del buio, prima. Mentre adesso l’assenza di luce è una possibilità in cui le minacce possono farsi reali.
A Kabul c’era stato un uomo che aveva minacciato di stuprarla per punirla della sua hybris. La fissazione per il calcio, la sua e di tutte le ragazze che sono nate per stare in casa e invece preferiscono stare dentro un campo a giocare per pomeriggi interi.
A Kabul Khalida e le ragazze si erano costruite una squadra, un motto, si erano divise i numeri di maglia in base al piacere o forse per un significato scaramantico: una data di nascita speciale oppure un numero che per qualche motivo avevano deciso che le avrebbe accompagnate per tutta la vita. E certe volte a Khalida sembrava impossibile avere creato tutto questo partendo da un pallone fatto di carta tenuta insieme con lo scotch. Come erano arrivate alle divise ufficiali rosso scarlatto però, loro lo sapevano bene. Avevano seguito ogni passaggio della maglia che indossavano. Avevano iniziato con maglie raffazzonate prese in prestito dai fratelli e avevano avuto pazienza di aspettare fino all’8 marzo del 2016, quando Khalida aveva indossato per la prima volta la nuova maglia di calcio della Nazionale afgana, quella con l’hijab integrato affinché nessuna di loro, osservante o meno, potesse incorrere nell’ira al cospetto degli uomini o di Dio.
Ma le ire si erano accese lo stesso, e adesso l’uomo irato poteva raggiungerla da Kabul, ripresentarsi ogni notte al cospetto del suo letto. Le ragazze erano undici ma Khalida era arrivata sola in Danimarca. E quindi la luce accesa, gli occhi aperti. Se avesse chiesto aiuto, chi avrebbe capito la sua lingua in quel posto?
Khalida e le ragazze gli uomini li avevano fatti arrabbiare lo stesso. Con l’hijab o senza. Il punto non era abbigliarsi con modestia o coprire i capelli; il punto era che loro, figli della mentalità talebana, le “loro donne” le volevano annichilite: niente sport, niente educazione, niente musica né divertimenti superflui. La preghiera e la famiglia, i lavori casalinghi, erano le attività concesse.
Fuori dal campo, dentro in casa. Nascoste e coperte perché è nel corpo che queste donne portano l’onore delle loro famiglie e lo confermano giorno dopo giorno non mostrandolo alla società, non facendone un uso improprio. Usarlo come strumento per cantare è improprio, e anche usarlo come strumento per giocare a calcio è improprio.
Le ragazze che giocano a calcio sono sguaiate. Anche se coprono i capelli e le braccia e le gambe va a finire che si muovono in maniera scomposta, sudano, urlano. Stare in casa non è la stessa cosa, perché poi nessuna casa è grande come un campo di calcio e c’è sempre un angolo nuovo da scoprire, una zolla di prato che è saltata sotto i tacchetti da riassestare. In casa non succede niente, le ragazze stanno immobili come un complemento d’arredo; ma fuori, al contrario, spingono per far crescere il movimento. Nasce una squadra Nazionale e, partita dopo partita, calciare un pallone si allontana sempre di più dall’effimera consistenza di un sogno e diventa qualcosa che è possibile fare. Il professionismo sportivo una via percorribile, poiché una donna può essere una medica, un’avvocata, una calciatrice e Khalida e le ragazze credono che sia possibile anche in Afghanistan.
Le ragazze che credono in Dio e scendono in campo sanno poi che niente nel Corano vieta che una donna faccia attività sportiva.
Non stanno facendo niente di male, stanno solo giocando a calcio. Khalida ha imparato dai fratelli più grandi che il pallone prima si fa con la carta e lo scotch e, se il desiderio di continuare a giocare è abbastanza forte, a un certo punto la sfera diventa di cuoio. Bisogna stare attenti a esprimere un desiderio, perché quel desiderio prima o dopo si avvera.
Quando Khalida si decide a lasciare Kabul è il 2011 e la squadra Nazionale delle ragazze con la maglia rosso scarlatto esiste già, ha nomi e numeri scritti sulla schiena. Per arrivare a quel punto le ragazze hanno visto palloni scoppiati con i coltelli e piogge di frutta scagliata su di loro durante gli allenamenti. Decide di andarsene di notte, con un computer nella borsa e senza avvisare le sue compagne. Scappa in India senza portarsi nemmeno il completino da calcio – è il momento più duro, è senza la sua squadra e finisce a dormire per strada. Nonostante cerchi di non dare nell’occhio, riesce comunque a seguire la squadra e a organizzare un match per la Nazionale afgana. Dopo qualche mese, riesce a trovare asilo in un centro in Danimarca. A darle sostegno è Hummel, l’azienda danese di apparel sportivo che ha disegnato e prodotto con lei il completino da calcio con l’hijab.
Nelle foto che la ritraggono Khalida Popal compare – più raramente – con e senza hijab. In certe foto indossa il completino della Nazionale con i capelli sciolti sulle spalle. Il suo corpo cambia di foto in foto, a volte è slanciato e atletico, certe altre invece è come se si portasse addosso i segni di una carriera calcistica che non è mai stata portata a compimento.
La possibilità inattesa di una carriera che finisce dove inizia una vita in fuga non può lasciare indenne il corpo. Quando Khalida arriva in Danimarca non è più la donna di prima. C’è qualcosa nella sicurezza di quel centro accoglienza ovattato che è in contrapposizione con il pericolo che ha corso ogni giorno della sua vita a Kabul.
«Non avevo rischiato la vita per finire in un centro d’accoglienza in Danimarca. Questo non era lo scopo. Mi sentivo come un uccello in gabbia, ero molto depressa. Avevo smesso di parlare». Ma parlare con chi? Viene da chiedersi. E infatti aggiunge: «Mi mancava la mia squadra, quelle ragazze che sentivo chiamare il mio nome e ridere. È stato un momento molto duro».
Il fallimento è una tragedia personale che accade nel gap fra una certa idea che abbiamo e il suo (non) compimento. Popal voleva cambiare la storia di una nazione, o le storie di tante ragazze che come lei amavano il calcio, attraverso il semplice gesto di prendere a calci un pallone. La frattura fra il piano iniziale e il risultato, la distanza in chilometri fra il campo di calcio di Kabul e il centro d’accoglienza in cui vive adesso non si lascia più colmare.
Ma quando sceglie di dimenticarsi delle cose che intorno non vanno, si ricorda che il modo migliore per curare tutto è mettere il corpo in movimento. Stancarsi, sfiancarsi, sudare, ridere, sorprendersi per un’azione che il proprio corpo è riuscito a fare a memoria. Il corpo impara la teoria anche solo guardando, è nel movimento istintuale che poi però la magia si compie. La magia si può compiere anche nel gruppo; era già successo e niente vieta che accada di nuovo.
Ne trova altre, altre bambine che come lei si stanno lentamente spegnendo per la claustrofobia. È a loro che si rivolge portandole fuori dalle stanze chiuse e mostrando gli spazi aperti in cui un pallone può rotolare e risolvere problemi, colmare differenze linguistiche e conflitti culturali che interessano nazioni in cui loro non abitano più. «Calcia e basta». Khalida lo ripete come un mantra a sé e a tutte le altre. Usa lo sport per connettere e accorciare il gap fra l’idea iniziale e il suo compimento. «Calcia e basta» come frase magica per risolvere i problemi è già fallito una volta. Lei lo sa bene sdraiata su quel letto con gli occhi sgranati per la paura. Eppure, non c’è altra via che tornare all’errore primordiale e questa volta cercare di fare meglio.