Solo dopo tre anni e una pandemia globale, e ormai all’ultimo momento di una stagione durata undici mesi, Hakan Calhanoglu è diventato il calciatore che pensavamo che fosse. Se non nella forma, almeno nella sostanza, cioè un giocatore decisivo, in grado di produrre gol e assist. Centra il contesto tattico creato da Stefano Pioli e il grande momento di forma del Milan, ovviamente, ma Calhanoglu non è cambiato improvvisamente. E quindi forse per cercare le ragioni di questo suo ultimo mese bisogna guardare altrove. Magari al discorso sportivo in Italia.
Arrivato nell'estate del 2017 al Milan per una cifra che oggi ci sembra tutto sommato ragionevole (20 milioni), Calhanoglu è stato frainteso come un numero 10 classico. Un regista offensivo, un trequartista dal tocco felpato, un artista del gioco. Ci si aspettava un giocatore autosufficiente, in grado di brillare a prescindere dal contesto e di elevare la qualità tecnica del Milan. Si sono ritrovati questo centrocampista intenso e impreciso, pasticcione e un po’ mitomane. Calhanoglu in questi anni ha avuto periodi molto negativi, in particolare nei primi mesi, quando persino Montella era caduto nell’equivoco di considerarlo un giocatore diverso da quello che era. Lo schierava mezzala sinistra per migliorare la circolazione palla della squadra, dandogli responsabilità di gestione degli spazi e dei ritmi che Calhanoglu, semplicemente, non era in grado di prendersi.
Cresciuto nei ritmi della Bundesliga, e forgiato dal calcio ultra-verticale di Roger Schmidt, Calhanoglu è un acceleratore di gioco. L’unica velocità che conosce è quella massima, l’unico spazio da attaccare quello in verticale.
Questo è il bello e al tempo stesso il brutto di Hakan Calhanoglu.
Quando il Milan è passato al 3-5-2 è andato dalla padella alla brace. È finito persino a fare l’esterno sinistro a tutta fascia. Le cose hanno cominciato a migliorare quando Gattuso lo ha inserito esterno sinistro d’attacco del 4-3-3 dove, scambiandosi spesso di posizione con Bonaventura, riusciva a sfruttare le sue qualità di passatore. In quel periodo uno dei meccanismi più interessanti era il cambio di gioco dai suoi piedi a quelli di Suso sull’altro lato. Niente che facesse gridare al miracolo e neanche che si avvicinasse alle aspettative che molti avevano nutrito su di lui. Calhanoglu era comunque usato con le marce basse.
Le cose sono cambiate dall’arrivo di Pioli, e se i suoi miglioramenti post-lockdown sono diventati appariscenti già prima il fuoco di Calhanoglu bruciava sotto le ceneri. La sua posizione non è cambiata di tanto rispetto al passato, ma sono cambiati i giocatori attorno a lui, e soprattutto i princìpi di gioco seguiti dal Milan. È stato schierato soprattutto trequartista centrale nel 4-2-3-1, oppure esterno sinistro da dove comunque si accentra spesso per aprire lo spazio a Theo Hernandez e alle sue corse. Ma, al di là della posizione, è il contesto tattico che è cambiato: con Pioli i rossoneri sono diventati una squadra più verticale e che ama giocare in transizione, assecondando le qualità di giocatori come Rebic, Bennacer e appunto Calhanoglu, che in questo contesto può nascondere i suoi difetti - le scarse letture, una qualità tecnica che si abbassa drammaticamente a ritmi bassi e in spazi stretti.
Due, in particolare, sono le cose che Calhanoglu non deve più fare con Pioli in panchina:
- Portare troppo palla.
- Pensare troppo con la palla tra i piedi.
Queste erano le due situazioni che con Gattuso lo mettevano di più in difficoltà, e che ora non è più costretto a fare. Ora però bisogna parlare di Zlatan Ibrahimovic, perché la verticalità del Milan è ordinata e resa meno entropica dalla presenza del totem svedese, che sia in transizione che in fase d’attacco posizionale si trasforma in un regista offensivo bravo a ripulire tutte le palle in verticale e a innescare i giocatori offensivi che gli si buttano alle spalle o letteralmente ai piedi, come Calhanoglu in quest’occasione.
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Le sue statistiche sono molto simili a quelle degli scorsi anni. Tocca qualche pallone in meno, e lancia meno (forse perché non deve più cambiare gioco per Suso). A cambiare è stata soprattutto la sua efficacia. Dopo il lockdown i suoi numeri, come quelli di tutto il Milan, sono cresciuti in modo esponenziale. Per molti un segno della scarsa personalità: un giocatore mentalmente fragile, capace di esprimersi solo senza i celebri “mugugni” del pubblico di San Siro.
Il Milan dopo il lockdown ha cambiato leggermente il suo modo di giocare, abbassando in parte il baricentro e giocando in transizioni lunghe. Uno stile di gioco che ovviamente esalta Calhanoglu, il suo dinamismo, il suo gioco di passaggi lunghi. Anche la sua creatività è stata esaltata: dalla ripresa Calhanoglu ha servito 30 passaggi chiave in 12 partite, contro i 39 delle 24 partite precedenti. In questo periodo ha servito 8 assist, nessuno come lui. Quasi tutte queste rifiniture sono arrivate in contropiede: quando Calhanoglu può correre in campo aperto e servire passaggi di 30-40 metri è davvero tra i migliori al mondo, per scelte e precisione tecnica.
La sua qualità migliore però va oltre la tecnica ed è la sua intensità mentale. Calhanoglu è un giocatore che fa succedere cose nelle partite; che quando ha la palla tra i piedi non si accontenta di giocate interlocutorie.
Prendiamo un gol segnato nelle ultime partite. Non quello stupendo, alla Toni Kroos, segnato all’Atalanta - che ci ha ribadito una bravura su calcio di punizione diretto che in Italia abbiamo visto poco. Neanche quello che fa al Bologna, recuperando palla in riaggressione (è tra i migliori della Serie A per palle riconquistate nella metà campo avversaria). Prendiamo il gol alla Lazio, invece: Calhanoglu riceve una palla nel mezzo spazio di sinistra e il suo primo pensiero è di tirare. Se la sposta sul destro ma non ha spazio, a quel punto può scaricare su Bennacer, o provare l’imbucata in area, ma ormai ha iniziato ad abbassare la testa e a caricare, deve tirare per forza. Allora fa un ulteriore dribbling andando all’indietro e tira quando ha il corpo sbilanciato, e un altro giocatore della Lazio è arrivato a chiudergli lo specchio. Il tiro è stato deviato ed è entrato anche grazie alla potenza iniziale del tiro. Calhanoglu era partito con l’idea di tirare e neanche le condizioni avverse lo hanno fatto tornare sulla sua scelta, invitandolo magari a una decisione più razionale.
Non stupisce che il turco straveda per Pioli, che ne parli in termini entusiastici: «Grazie a Pioli sono riuscito a tornare il Calhanoglu che giocava in Bundesliga. Siamo contenti del suo rinnovo e del fatto che possiamo giocare ancora per lui». E non stupisce che con il tempo abbia sviluppato un rapporto privilegiato con Ibrahimovic. In campo, dove gli ha servito 3 assist, e fuori, dove vanno in gita in moto assieme. Pioli e Ibra sono i principali artefici della sua rinascita.
Insomma, per la prima volta Calhanoglu ha attorno a sé un contesto adatto alle sue caratteristiche, e sta riuscendo finalmente a esprimersi. Una delle dimostrazioni più evidenti di quanto certe premesse dei discorsi calcistici siano di fatto infondate. Non esistono giocatori scarsi o fenomeni in senso assoluto: il loro valore è sempre determinato dal contesto che hanno attorno. Un’idea che vale per alcuni giocatori più che per altri.
Calhanoglu non ha mai posseduto un talento autosufficiente, e chi voleva vedercelo quando è arrivato a Milano si è semplicemente illuso. È un numero 10 peculiare con pregi e difetti estremi e spiccati. Il suo gioco rompe diversi preconcetti della nostra enciclopedia calcistica, e ci costringe a riformularli. Un trequartista che corre come un mediano e che invece di dare la pausa sembra avere ansia di sbrigarsi. Nessuno gioca come Calhanoglu, ed è per questo che è così interessante.