
È il 12 maggio, è il compleanno di mia moglie e io sono in un aeroporto, in partenza per un viaggio di lavoro. Inganno il tempo guardando i risultati dei play-off della Serie D, girone H, l’unico che ho un po’ seguito, finendo per appassionarmici.
Il Martina, che nella stagione regolare è finito secondo alle spalle dell’Altamura, ha sconfitto in maniera sonora il Casarano. Due delle tre reti portano la firma del loro centravanti: nella prima si è fatto trovare pronto, al centro dell’area, smarcato, con un senso della posizione, diremmo, da vero nove; nella seconda se lo è andato a cercare, il gol, superando rimpalli con la sola forza della volontà, come Julián Álvarez nella semifinale del Mondiale 2022 o Kempes con l’Olanda nel 1978. Il centravanti, e questo spiega i referenti albiceleste, è in effetti argentino: in stagione ha segnato 18 reti in 36 presenze, prima della partita con Casarano ha chiuso il campionato con un gol su rigore contro il Gallipoli tirato con la stessa freddezza con la quale, quando aveva 15 anni, a La Bombonera, si è presentato di fronte al padre che stava dando l’addio al calcio. Il centravanti del Martina, passato pochi giorni fa alla Carrarese, si chiama Ryduan Palermo. Figlio di quel Palermo.
Ho almeno due chat di Whatsapp che divampano a intervalli regolari: succede ogni volta che un qualche rioplatense dal passato brillante, mistico, controverso finisce in un contesto nel quale la prima domanda che ti poni è: cosa potrebbe andare storto? Spesso, ultimamente, quel contesto è un qualche posto della Puglia.
È successo con Denis "El Traca" Stracqualursi, meteora al Tigre degli anni Dieci, passato anche per l’Everton, sbarcato in piena pandemia a Taranto e poi rotolato fino a Fasano, con la barba lunga e lo sguardo da flâneur. E poi con "el galgo" Schelotto, che giusto un anno fa ha deciso di ripartire da Barletta, la città della disfida, il perfetto punto di partenza per una storia di revanscismo ed espiazione. Nei primi istanti di Schelotto a Barletta, le chat erano incandescenti: si parlava dell’arrivo di Zárate, c’era un grande entusiasmo, Schelotto segna tre gol nelle prime nove giornate, il Barletta era a ridosso della zona play-off. Poi, però, come spesso capita alle supernova che illuminano i cieli periferici, la sovraesposizione, la sproporzione tra aspettative e risultati hanno fatto sì che la storia scemasse presto in un tramonto un po’ malinconico, fino all’addio rabberciato in primavera.

Il nome di Ryduan Palermo è quello più altisonante tra gli argentini che sono passati per la Puglia, ma è solo la punta di un iceberg imponente: nella stagione appena passata, nel girone H della Serie D, quello che raccoglie le squadre pugliesi – più in generale, diremmo, lucane – su 96 stranieri 21, cioè 1 su 5, sono argentini. Negli anni del covid – le stagioni 2020/21 e 2021/22, sono stati addirittura – rispettivamente – 32 e 48. Quarantotto, tantissimi. Mi sono chiesto, allora, comprovata una tendenza interessante, se ci fosse un motivo particolare per cui nelle serie minori, in Puglia, se si tratta di scegliere uno straniero, si finisce inevitabilmente per puntare sugli argentini.
Il centro di Martina Franca si sviluppa tutt’attorno alla Cattedrale di San Martino: magari è una coincidenza significativa. Ryduan Palermo, il figlio di Martín, in Puglia è arrivato dopo una stagione in Sardegna, alla Villacidrese, in Eccellenza. «Un giocatore che fa parte della mia stessa agenzia, José San Román [uno con una carriera di tutto rispetto, nda] era andato a giocare a Lavello», mi racconta Ryduan, «e conosceva un rappresentante argentino che aveva giocato in Sardegna e stava portando molti argentini. Mi è sembrata un’occasione». A quel punto della sua carriera, Ryduan era già passato per Cile, Messico e Honduras – spesso seguendo, magari solo contingentemente, i movimenti di Martín da allenatore. Nell’estate scorsa ha scelto il Martina perché il suo progetto gli è sembrato il più ambizioso. «Mi avevano sempre detto che la Serie D è una categoria semiprofessionistica, che non c’è molta differenza con l’Eccellenza. Ero titubante, aspettavo un’offerta da una squadra di prima o seconda divisione, anche di un campionato meno performante, ma poi è arrivata l’offerta del Martina, e la verità è che me l’hanno raccomandata, mi hanno parlato del progetto, del fatto che la società fosse seria, che c’era voglia di salire di categoria. Che la Puglia è bellissima. Oggi, guardandomi indietro, posso dire di aver fatto la scelta giusta».
Il Martina ha visto sfumare il sogno della promozione in C all’ultimo atto, nella finale dei play-off persa contro il Nardò (una società che tornerà, più avanti). La stagione di Ryduan, però, è stata da incorniciare: 18 reti, alcune esteticamente molto belle (come quella con l’Angri), altre emotivamente pesanti, come quella con l’Altamura poi campione, o con la Palmese: reti agoniche, reti martinpalermocontroilperù. «Con le dovute proporzioni, ovviamente, ma sono reti di quel tipo: contro l’Altamura era la seconda partita consecutiva che perdevamo 2-0, e abbiamo rimontato».
Quando gli chiedo di provare a definirsi come giocatore mi dice di sentirsi «un delantero che cerca sempre di stare dentro l’area, con il fisico e con il sacrificio». «I tifosi mi dicono: ti menano tutto il tempo, ma come fai? Certo, se potessi sceglierei di non dover stare tutto il tempo a fare a sportellate, però allo stesso tempo che ti devo dire? Mi piace. Mi piace pivotear, aiutare la manovra, è una lotta continua, ci sono sempre due o tre difensori che non ti fanno muovere». Un mio amico, che era allo stadio a vedere Matera-Martina, a un certo punto mi ha scritto, parlando di lui: «Fabri, mi spiace essere già arrivato a questa conclusione ma è il più grande figlio di puttana mai visto. E in Serie D ne passano tanti». Per me è un complimento. Che sia fuori dimensione per la categoria è un dato di fatto: si capisce da come tocca la palla, da come usa la suola, dal senso della posizione. Dalla consapevolezza del proprio posto al mondo. «Era difficile rimanere in Argentina con quel cognome. Negli ultimi anni in Italia, però, anche se mi chiamano sempre il figlio di, sto facendo il mio cammino».
«Me l’avevano detto, che l’Italia del Sud è un’altra Italia», mi dice. Per un attimo immagino che una frase del genere possa essere uscita anche dalle labbra di Diego Armando Maradona, durante una cena in cui Ryduan sedeva al tavolo dei piccoli. «Il calcio è vissuto con passione, vanno tutti allo stadio: mi ha sorpreso quanta gente ci sia sugli spalti. Nel resto d’Italia non so se è uguale, io di calcio so solo di Puglia».
«Lo stadio andava a fuoco», ha raccontato a Tiempo Argentino Martín "el tanque" Delgado raccontando il suo arrivo, nel dicembre del 2021, a Novoli. «Sembrava l’Ascenso argentino. Un tifo bollente, molta garra. Non so da dove siano uscite fuori tutte quelle persone, perché Novoli fa solo tremila abitanti». Dopo essere passato per le giovanili del Boca e del Defensa y Justicia, nel 2021 era svincolato. «Per la prima volta non sapevo dove andare, che fare. Dove trovare uno stipendio per arrivare alla fine del mese». Delgado arriva in Puglia seguendo la stessa dinamica del connazionale Tomás Bonilla, oggi a Canicattì dopo un passaggio al Nardò: un messaggio ricevuto su Instagram. A spedirlo un rappresentante che, gli diceva, aveva visto i suoi dati su Transfermarkt e voleva portarlo in Italia. «Mi ha colpito da subito il contatto con la gente», racconta Bonilla. «A Nardò i ragazzini ti fermavano per strada tutto il tempo. Non mi era mai successa una cosa del genere».

Pablo Burzio, in forza al Termoli nell’ultima stagione, è un veterano della Lucania: dal suo arrivo in Italia ha giocato con Lavello, Potenza, Casarano (anche questa tornerà), Fidelis Andria. «Mi ha sorpreso la mentalità delle persone che circondano il calcio in Italia», mi dice. Una mentalità con la quale gli argentini sentono da subito un’empatia naturale. Si sentono, in qualche modo, a casa, e c’entrano solo marginalmente le radici, i trisavoli, i cognomi. C’entra l’aura di cerimonia collettiva che accomuna una gara di Serie D in Puglia con una di Sudamericana, con una della B Nacional. «Il Sud rappresenta di più il calcio che piace agli argentini». È ovvio che si tratti di un amore reciproco, quindi. «E poi la verità è che tanti procuratori trovano nel Sud il mercato più aperto. Per questa comunanza, certo. Magari dipende anche da una maggiore facilità e convenienza per gli argentini, non lo so. Tanti devono fare i documenti per la nazionalità, e i parenti sono tutti di queste parti». A parlare è un altro giocatore con un cognome importante: Leandro Guaita.
Leandro è il pronipote di Enrique, "er Corsaro Nero", oriundo che negli anni Trenta faceva sfaceli con la maglia della Roma, che ha vinto il Mondiale vestendo la maglia dell’Italia nel ‘34 e che dall’Italia se ne andato – all’epoca si disse fosse scappato pavidamente – quando l’approssimarsi della Guerra d’Etiopia aveva reso gli argentini italianizzati abili, oltre che alla convocazione di Pozzo, anche alla chiamata delle armi. Guaita, a Potenza, ha vissuto sulla sua pelle il calore che a Taranto – in una stagione in cui gli argentini in rosa erano nove, incluso Tissone – il covid non ha reso possibile. «E quando la fiamma è viva», mi dice scomodando una metafora con l’asado per spiegarmi il senso di coinvolgimento che provano gli argentini «che si fa? Si mette su la carne».
Anche Guaita, dicevamo, ha un cognome pesante: più in patria che in Italia, a dire la verità. Suo padre Cristian ha vinto il campionato 1983 con l’Estudiantes de La Plata, nell’ultima stagione in cui alla guida dei "pincharratas" c’era Salvador Bilardo, che solo qualche settimana dopo sarebbe diventato il tecnico della Selección. Gestire un cognome importante, a La Plata, è una questione delicata: c’è chi ce la fa, come Verón, e chi invece preferisce liberarsi della pressione andandosene. Leandro è sbarcato in Italia per la prima volta nel 2006, all’Arezzo di Pieroni, Floro Flores, Carrozzieri, Agostinelli. Poi è passato per la Nuorese di Festa, Sanna e Oliveira, prima di girovagare un po’ per Cina, Germania ed Ecuador – nell’Independiente del Valle che era la prima infiorescenza di quello che sarebbe diventato. In Italia è tornato per giocare a Casarano (ok, dobbiamo parlare di Casarano come snodo fondamentale), e da lì in poi ha iniziato il suo tour della Lucania. «Il fatto è che tanti argentini passano per gli stessi procuratori, fanno parte dello stesso gruppo, si conoscono, si parlano, finiscono per farsi rappresentare tutti dalla stessa persona. Se lavorano bene e si comportano come si deve, un posto lo trovano sempre».
Guaita ha smesso di vestire la maglia del Casarano nell’estate del 2011. Esattamente dieci anni prima, mille chilometri più a nord, un imprenditore che stava cercando di rilevare il Fiorenzuola ha fatto sbarcare nel piacentino, grazie alla collaborazione con l’agenzia di intermediazione Global Foot Sport, 13 argentini e 10 uruguayani: una rosa intera, allenata nientemeno che da Mario Kempes. Tra quei giocatori ci sono il nipote di Schiaffino e un amico del "Chino" Recoba, ma il progetto non decolla mai, anzi naufraga definitivamente a ottobre. C’è chi torna a casa e chi invece, come Kempes e undici di quei rioplatenses, si trasferisce a Casarano, dove la società di Eugenio Filograna, “il signor Postalmarket”, che di Casarano è nativo, sta cercando di creare una progettualità di successo. "El Matador" si fermerà alla guida dei rossoblu per solo quattro partite: due pareggi, una sconfitta, una vittoria nell’ultima partita. Cinque giorni più tardi se ne andrà in fretta e furia, dicendo «sono convinto che il Casarano riuscirà a salvarsi anche senza di me. Me ne vado, la vita è questa».
Burzio mi dice «certo che sapevo del passaggio di Kempes, ma anche di un altro momento pazzesco: il giorno in cui Diego Armando Maradona si è allenato al Capozza». Il Vito Capozza è lo stadio di Casarano, e il Napoli si allena là alla vigilia di Lecce-Napoli, stagione 1985/86. Nel Lecce giocano Juan Barbas e Pedro Pablo Pasculli: con il primo Diego ha vinto il Mondiale Under 20 nel 1979, con il secondo disputerà i Mondiali in Messico l’estate successiva.
La Puglia, insomma, è stata la prima zona d’Italia ad aprire lo stargate con il fulbo: per un fortunato allineamento dei pianeti, certo, per condizioni contingenti, ovviamente. Negli anni successivi al 2001 in Puglia sono arrivati Nacho Castillo – a Brindisi – che poi si sarebbe spinto fino in A con la Fiorentina; e poi Diego Gabriel Raimondi, sbarcato a Casarano con Kempes, che ha sfiorato la A con il Pisa (ed è poi stato vice di Mihajlovic a Torino e Bologna). È più interessante, secondo me, capire la dinamica che ha favorito la perpetuazione di una tendenza: il passaparola tra giocatori, ma anche l’illuminazione di certi direttori sportivi.
Nicolás Musso è arrivato in Italia per giocare. È passato anche per il Napoli United, dove è stato allenato da Diego Maradona Jr. Poi si è messo a fare l’intermediario: oltre a creare un contatto tra calciatori e società, dice in un’intervista, «aiutiamo i ragazzi che hanno tutti i documenti pronti per la cittadinanza a presentare la richiesta in Italia, gli troviamo un club e facciamo sì che la società lo aiuti a fare i documenti». Dopo aver acquisito l’esperienza necessaria, oggi Nicolás riesce a dire ai calciatori «quello che devono avere, tutte le carte che si devono portare dietro e i passi necessari per firmare un contratto, prendere la residenza, altri requisiti e poi poter presentare la richiesta di cittadinanza».
Il fatto è che nell’Argentina di oggi, con Milei e l’inflazione al 200 per cento – ed era così anche nel 2001, quando il Paese affrontava una crisi economica mostruosa e il Presidente De la Rua era costretto a scappare in elicottero dalla Casa Rosada – sopravvivere è complicato: se non giochi in uno dei campionati professionistici, devi trovarti un altro lavoro per sbarcare il lunario. «Bisogna attraversare il charco», mi dice Guaita, «per fare la differenza da un punto di vista economico». Perché in Italia, invece, uno stipendio in Serie D, o in Eccellenza o addirittura in Promozione, a volte, ti lascia vivere tranquillo (anche considerando che spesso vitto e alloggio sono offerti dalle società). I calciatori, quindi, si trasferiscono. E poi spargono la voce, ci mettono una buona parola, fanno promesse. A volte disattese, a volte no.
È una dinamica tutta argentina, quella del passaparola, quella dei sei gradi di separazione arrampicandoti sui quali, in norma, riesci ad arrivare dal proprietario del chioschetto che vende empanadas al presidente della Repubblica. «Funziona proprio così», mi dice Ryduan Palermo: «il contatto nasce da qualcuno che conosci, che a sua volta conosce qualcun altro…».
Nella cosmogonia del rapporto tra giocatori argentini e Puglia, spesso, spunta fuori nel discorso, quando ne parlo proprio con i giocatori, la figura di questo direttore sportivo che all’inizio degli anni Duemila avrebbe portato i primi argentini a Nardò, e da lì si sarebbe creato l’asse portante che avrebbe favorito la valanga dei decenni successivi. Quel direttore sportivo si chiama Gianni Inguscio. «Il primo, in Puglia, sono stato io», mi dice in una lunga chiacchierata. «Ora ce ne sono tanti, ma nel 2009 l’unico a metter su una squadra quasi completamente fatta di argentini sono stato io».
Inguscio ha, innanzitutto, una passione sfrenata per il fútbol argentino, è uno che lo conosce a fondo (e tifa Rosario Central, come me): «Ho iniziato ad appassionarmi ai calciatori argentini», mi dice, «in primis perché è più facile tesserarli, dal momento che hanno spesso la cittadinanza. E poi il calcio argentino è televisivizzato praticamente a ogni livello». Il primo che ha portato è stato Matías Calabuig: poi Renzo Ruggiero, Aníbal Montaldi e Matías Irace (che agli ottavi della Libertadores 2004 ha giocato contro il Sao Paulo di Rogerio Ceni e Luis Fabiano), «calciatori che non hanno mai steccato in termini di rendimento, leader dentro e fuori dal campo, pieni di temperamento e grandissima qualità». Ha iniziato a seguire, senza mai smettere, i campionati minori, anche quelli più sperduti dell’Interior, soprattutto la Liga Santafesina. Si è cominciata a spargere la voce di questo osservatore così attento alla realtà, «qualcuno mi ha contattato personalmente, mi mandavano DVD a casa per posta, erano dei video con gli highlights». «Oggi», riconosce, «con Instagram è più semplice entrare in contatto». Rivendica la sua maniera attenta di lavorare, Gianni: i giocatori che sceglie li sceglie perché li trova adatti al contesto. «Capita che ne arrivino tanti, a volte pure troppi nel senso che la maggior parte, ecco, non vedo tanta gente che conosce i campionati argentini, li prendono così, sei o sette in blocco, perché magari in mezzo qualcosa di buono c’è. Io tutto quello che porto con me è perché l’ho scelto, non perché me l’ha proposto qualcuno».
Oggi Inguscio è il DS dell’Atletico Racale. Sulla panchina siede proprio Matías Calabuig, e in rosa ci sono sette argentini. Ma cosa li rende così perfetti per le nostre serie minori? L’Argentina è uno dei tre Paesi – secondo le statistiche dell’Osservatorio del Football CIES – che esporta più calciatori all’estero insieme a Brasile e Francia. «Tanti arrivano in Italia e prendono la cittadinanza», mi ha detto Guaita, «ma non è il movente principale. Nessuno viene a giocare per la cittadinanza. È vero, invece, che tanti che vengono per la cittadinanza, poi, si trovano a giocare al calcio».
Se sono così ambiti, mi dice Inguscio, è per via della professionalità. «Ti ritrovi un calciatore che si comporta da professionista in una categoria come l’Eccellenza o la Promozione, ed è complicato trovare lo stesso spirito in un italiano. Perché se rimani un semidilettante, devi trovarti un’altra maniera di campare. L’argentino, invece, gioca al calcio per campare». «È per questo che un italiano che ha giocato la Champions League a 25 anni non sceglie di scendere in Serie D. Un argentino, invece, sì».
È così che la Puglia è diventata una Bengodi per gli argentini: società disposte a spendere, procuratori con una trama fitta di contatti. Eredità storica. Inguscio ha portato il Racale, con nove argentini in rosa, dalla Promozione all’Eccellenza: quest’anno sono arrivati terzi, oltre l’obiettivo fissato a inizio stagione, che era quello della salvezza diretta. «Porterai altri argentini per cercare la promozione in D?», gli chiedo. «Sto già parlando con qualcuno», mi dice con l’aria di chi fa le tre per guardarsi la Liga Casildense.La Puglia, dunque, è il posto in cui si realizza in maniera più compiuta, agli occhi di un calciatore argentino, l’incrocio tra passione della tifoseria, calcio di garra e fantasia e una vita dignitosa: grazie alle gambetas e alle pisaditas diventano re di feudi da tremila anime.
«Qua la settimana di un ragazzino gira tutta intorno a quello che fai tu in campo: puoi renderlo felice o triste», mi dice Guaita. «Ci somigliamo tantissimo con i pugliesi, ma in generale con gli italiani», aggiunge Ryduan Palermo. «Nel bene e nel male. Ci fate sentire subito in famiglia, ma poi siete anche calentones, nel traffico impazzite, iniziano a suonare il clacson. E io con loro».
Quando chiedo a Ryduan Palermo dove si vede tra cinque anni, se casomai non sogna di tornare in Argentina, dice – ovviamente – «il mio sogno più grande sarebbe tornare al Boca. Però mi godo il presente che Dio mi dà, vedremo fin dove mi porterà il cammino». Mi dice che in Italia si trova bene, che è la prima volta che si ferma per più di un anno nello stesso posto, e che della Puglia gli piace soprattutto Bari.
Penso che da una colonia di pugliesi devoti al santo patrono della città, San Nicola, è nato il primo insediamento di quella cittadina della Pampa – San Nicolás de los Arroyos – che a metà degli anni Trenta avrebbe dato i natali a un talento argentino che in Italia avrebbe lasciato il segno: Omar Sívori. Che il sottile filo rosso che collega la Puglia all’Argentina, almeno nel calcio, casomai è nata proprio in quel momento là. Magari è solo una suggestione. Magari no.