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Il rapporto morboso tra calciatori e PlayStation
28 feb 2024
Perché Luciano Spalletti è arrivato a vietarla in Nazionale.
(articolo)
15 min
(copertina)
IMAGO / Pro Shots
(copertina) IMAGO / Pro Shots
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«Ho vietato la PlayStation ai calciatori, non si può giocare fino alle 4 del mattino. Già devo sopportare i cellulari». Con queste parole Luciano Spalletti ha tirato la volata all’Europeo del 2024, un momento in cui 23 calciatori tra i 20 e i 30 anni si chiuderanno, si spera il più a lungo possibile, dentro le camere di un ritiro per stare insieme 24 ore su 24. Il CT ha detto che per vincere serve «un branco di lupi» e i lupi, si sa, di notte cacciano, si spostano, ululano alla luna, non giocano ai videogiochi (ma neanche dormono in realtà).

Il rapporto tra calciatori e PlayStation è leggendario e non guarda in faccia nessuno. Alessandro Nesta, uno dei più grandi e rispettati difensori di sempre, si porta dietro la storia di un infortunio al tendine della mano dovuto alle troppe ore passate a giocare alla console della Sony. Quante ore devi giocare per rovinarti i tendini? Meglio non saperlo. Lui continua a dire che è una «leggenda». L’infortunio alla mano sarebbe avvenuto in una partita di Champions (ma non ha mai specificato quale) e poi a causa di un «recupero più lento del previsto, qualcuno mise in giro questa voce dei videogiochi».

Qualcuno che, però, è anche il suo compagno di squadra e di ritiro ai tempi del Milan e della Nazionale, cioè Andrea Pirlo, che nella sua biografia ha scritto: “Negli anni al Milan giocavamo un casino alla Playstation. Ricordo che io e Nesta facevamo le corse per mangiare velocemente e andare in camera a giocare anche prima dell’allenamento. Un'altra volta invece eravamo con la Nazionale, avevamo giocato alla Play. Siamo andati giù a cena, lui ha preso il piatto e gli è caduto. In pratica gli è crollato il tendine del polso”. Nella sua biografia la parola PlayStation (o Play) viene citata otto volte, in una di queste la frase è: Dopo la ruota, la PlayStation è la migliore invenzione di tutti i tempi.

Molte di queste storie hanno un carattere morboso, come se “la Play” fosse per i calciatori un'estensione fatta di cavi e chip della loro eterna fanciullezza. Dopotutto sono giocatori, nel senso che hanno dedicato la vita al gioco in tutte le sue sfumature. Ha raccontato Florenzi che una volta, arrivati in albergo per una partita dell’Under 21 contro la Svezia, lui e Viviani si erano accorti che nessun televisore aveva l’attacco adatto per poter collegare la loro PlayStation. «Secondo la scaramanzia, però, se non giocavamo alla Playstation, il giorno dopo avremmo perso, così chiedemmo all'addetto stampa della Nazionale di andare a comprare un televisore. Arrivò in albergo con un 36 pollici! Alla fine giocammo ed il giorno dopo in partita abbiamo vinto 3-2 e ho fatto anche gol».

Florenzi non ha mai negato di essere «un malato di PlayStation», tanto che il giorno dopo la partita con la Svezia si presentò in aeroporto con il televisore sottobraccio e mentre aspettavano il volo «mi sono messo a cercare una presa per collegare il televisore e, dopo che la trovai, ci mettemmo a giocare alla play anche lì». Il terzino del Milan è riuscito a fare della sua malattia anche una collaborazione con Sony (non è l’unico), in una serie di video con i The Pills, in uno dei quali si ironizza - credo - anche su quello che è un altro tema del rapporto tra calcio e videogiochi: ovvero che i bambini non scendono più in strada per giocare a calcio ma lo fanno davanti al televisore. Sarebbe per questo che non ci sono più trequartisti nel nostro Paese.

La PlayStation, o più in generale i videogiochi, sono un passatempo universale ma per i calciatori acquisisce sfumature più profonde di significato, infilandosi alla perfezione in quelle che sono le dinamiche del loro strano mestiere. È infatti lo strumento perfetto per rompere la noia e la solitudine: i calciatori hanno molto tempo libero, ma non molti modi per sfruttarlo (l’ultimo a parlarne è stato Fagioli, parlando di come è iniziata la sua ludopatia: «Avevo tempo, e la noia mi ha portato a giocare, era un riempitivo»). Non possono trovarsi hobby pesanti o pericolosi, un secondo lavoro, spesso non possono - o non vogliono - stare molto in giro, per non trovarsi accerchiati da tifosi adoranti (o il contrario).

La PlayStation si trasforma allora in una sorta di compagno di vita, qualcosa con cui intrattenersi nel lungo tempo passato a casa da soli, magari con gli amici e la famiglia lontani in un altro Paese. Si arriva a casi surreali tipo quello di José Angel, fotografato in mutande dentro a un simulatore di F1 del tutto simile a una vera macchina, in una stanza con tutte le serrande abbassate e arredata solamente con degli scatoloni o quelle di casa Aguero, che sembra una asettica e buia sala giochi. Per Ciro Immobile, fornito di famiglia con moglie e figli, la PlayStation è invece il passatempo casalingo per scaricare la tensione e le responsabilità dell’uomo adulto, tanto da essersi trasformata in chiave ironica nel centro dei siparietti social con la moglie: Lady Immobile vuole coccole, ma lui pensa...alla playstation!; Jessica si arrende, vince la Playstation di Immobile; Ciro Immobile e la PlayStation: è amore e potrei continuare ancora a lungo.

Se però parliamo di videogiochi in casa, per quanto ne possiamo sapere, e se lo sappiamo è sempre per la volontà di alcuni calciatori di mostrarci la loro intimità videoludica sui social, il re è Luis Alberto. Lo spagnolo ha in casa una stanza dedicata, che chiama «il tesoro. Qui passo tutto il mio tempo libero, è questa la mia passione più grande». L’ha mostrata in un programma di MTV ed è davvero elaborata. La sedia è tipo di quelle superaccessoriate da dentista e davanti ci sono schermi a coprire tutta la visuale a 180° (lui che è uno dei calciatori con più visione di gioco in Italia, sarà solo un caso?). Ma forse, più che lo spazio di gioco stesso, sono i joystick di Luis Alberto a farci capire quanto significa per un calciatore la PlayStation: ne ha uno griffato Lazio con il suo numero, e vabbè, ci può stare; uno con i colori sociali del Cadice (la squadra per cui tifa, ma anche la sua squadra su FIFA, che fa giocare con un «un 4-2-2-2, mi piace giocare offensivo, nel mio team ho Maldini, Sergio Ramos, ma anche Ronaldo il fenomeno e Cristiano Ronaldo»), ma soprattutto uno con incisi i nomi dei figli e della moglie, come fosse una fede, un tatuaggio o uno scarpino, ovvero una specie di estensione di se stessi che vuoi dedicare ai tuoi affetti più cari, per tenerli più vicini nel momento del bisogno (ma è, ricordiamolo, giocare alla PlayStation).

Sempre in un programma in cui i calciatori “mostrano” la loro casa, Szczesny davanti alla PlayStation raccontò di passarci insieme molto tempo e che da manager dell’Arsenal si era anche venduto al Manchester United per 19 milioni di sterline, un’offerta - disse - che non si poteva rifiutare. Fernando Torres sembra che abbia speso quasi 50.000 euro per arredare la sua stanza per la PlayStation. Neymar e Aguero streammano le loro partite su Twitch come veri e propri gamer (qui trovate un video in cui due “esperti” commentano le postazioni di molti calciatori). Harry Kane gioca a Fornite, Lingard usa FIFA come terapia dallo stress della sua carriera, Bellerin sta in fissa con Call of Duty, Messi - secondo il suo biografo Guillem Balague - riuscì a superare la nostalgia di casa proprio grazie a infinite sessioni alla PlayStation. Ma, insomma, storie simili si possono trovare per quasi la totalità dei calciatori.

Molti di loro definiscono quella per i videogiochi “una passione”. Nei fatti, però, spesso non sembra così vero: i calciatori giocano a FIFA, Fornite, Call of Duty, tutti titoli mainstream, che non approfondiscono in maniera molto trasversale il videogioco come forma d’intrattenimento. Se ci fosse davvero “passione” come dicono, troveremo calciatori se non fedeli a videogiochi indie, almeno che citino Zelda, The Last of Us o anche solo GTA; dopotutto in questo nuovo millennio i videogiochi sono diventati una forma d’arte con una profondità e una complessità paragonabile al cinema.

Sembra, piuttosto, che per loro i videogiochi siano l’unico modo alternativo per passare il tempo libero, una soluzione facile a un problema complesso. Anche per questo i videogiochi a tema calcio sono per distacco i più citati: cosa c’è di più immediato per un calciatore che calciare un pallone anche virtualmente? Se i calciatori non sempre sembrano ossessionati dal gioco del calcio a livello storico e tattico, non è raro sentirli parlare con emozione del corrispettivo virtuale delle squadre di calcio. Con lo sviluppo di questi giochi, poi, lo scarto tra realtà e virtuale si è assottigliato sempre di più, tanto da farci chiedere se non c’è un’influenza dei videogiochi di calcio sul calcio reale. Un’ibridazione che soprattutto FIFA, il gioco, non la federazione, ha cercato di sfruttare a suo vantaggio, coinvolgendo sempre di più i calciatori rendendoli partecipi delle discussioni intorno ai loro rating o filmando lunghe sessioni in cui si sfidano tra di loro.

Per i calciatori, però, più che uno strumento per migliorare nel proprio lavoro, i videogiochi sembrano avere un valore quasi identitario, qualcosa che li unisce alla loro professione. La frase “sceglievo sempre la squadra X alla PlayStation” è quasi un topos del calciomercato, una dichiarazione che fanno i calciatori per dare una patina di romanticismo ai loro trasferimenti milionari, per non dire proprio ero tifoso ma quasi. C’è poi la variabile “con questi campioni fino a ieri ci giocavo alla PlayStation” usata dai più giovani come forma di rispetto assoluta quando entrano in uno spogliatoio con calciatori più vecchi e blasonati.

Ai tempi della Juve, Pogba chiamava Dybala “Quadrato R2perché, come nella realtà, anche nel gioco provava sempre a segnare tirando a giro sul secondo palo. Il francese è uno di quelli che gioca spesso, «anche con me stesso [altro tema che andrebbe approfondito, nda] e a volte mi arrabbio, perché il Pogba del videogame gioca meglio di me: “Com’è possibile?». A Donnarumma la PlayStation serve «per smorzare l’ansia della gara, lavoro su me stesso per tenerla sotto controllo. Ma non pensate a chissà quali segreti psicologici: mi basta una partita alla Playstation». Si dice in giro che sia un fenomeno. Icardi aveva fatto installare una Play dentro uno dei suoi SUV, per giocare al semaforo.

Diogo Jota, per quanto improbabile possa sembrare, a un certo punto è stato il miglior giocatore al mondo nella FUT Champions di FIFA 21 su PlayStation. È successo mentre era infortunato: in un weekend ha vinto 30 partite di fila, battendo spesso avversari che sono professionisti di FIFA e guadagnandosi il primo posto. Dopo quell'exploit, ha raccontato, gli sono arrivati centinaia di messaggi che lo criticavano, lasciando intendere che la vita del buon professionista non può incastrarsi con quella del fenomeno alla PlayStation. Lui, per rispondere, quando era tornato al gol aveva esultato mimando l’atto di giocare: non c’è correlazione tra troppi videogiochi e la carriera da calciatore.

Con la possibilità di giocare online, poi, l’interesse dei calciatori per i videogiochi sembra aumentato. Mantenendo l’anonimato possono stimolare il loro lato competitivo al massimo, mettendosi in gioco senza doverci mettere la faccia. Ibrahimovic, per dirne uno, è un patito di Call of Duty: «Ero intossicato e non riuscivo a smettere. Ovviamente non mi riconoscevano in rete, avevo un falso nome. Ma giuro: facevo colpo sulla gente anche senza sapere chi fossi. Ho sempre giocato ai videogiochi, e sono estremamente competitivo». Messi che ha confessato il gusto di collegarsi per «sfidare gente che non ha idea di chi io sia». In tutte queste storie i calciatori vivono le sfide online come un proseguimento del loro lavoro, dove la competizione non è solo una parte dell'esperienza ludica, ma è il centro. Griezmann, le cui carriere su Football Manager sono leggendarie, sostiene che a Fortnite «conseguire una Vittoria Reale [rimanere cioè l’unico vivo in una sfida tra 100 giocatori, nda] è molto più stressante che provare a segnare un gol. Molto più dura la Battle Royale, che stare in area di rigore». Griezmann, forse ve lo siete scordato, ha usato un balletto di Fornite dopo aver segnato nella finale dei Mondiali.

Tempo libero, solitudine, noia, la competizione come droga: i calciatori (ma vale per gli sportivi in generale) rappresentano il profilo ideale di chi abusa dei videogiochi. Detto che non stiamo parlando di sostanze stupefacenti, alcool o fumo, la dipendenza da videogiochi è classificata come una dipendenza comportamentale e oltre a molti risvolti negativi nella vita sociale, può non essere il massimo per un calciatore professionista, a cui è richiesta la massima cura psico-fisica del proprio corpo.

David James dopo una pessima prestazione contro il Newcastle lasciò intendere che il suo stato di forma era stato peggiorato dai videogiochi: «Mi stavo lasciando trasportare giocando a Tekken II e Tomb Raider per ore e ore», disse decidendo di mollare tutto. Ousmane Dembélé è stato accusato di star buttando la sua carriera tra cibo spazzatura e nottate intere passate a giocare alla PlayStation. Mentre era fermo per un infortunio alla schiena, il portale "Wasted on Fortnite" aveva calcolato che Ozil passava una media di cinque ore al giorno a giocare a Fornite (partite totali: 52221). Subito dopo la Bild aveva consultato un medico che aveva sentenziato che tutto quel tempo passato seduto davanti alla PlayStation aveva rallentato il suo recupero dall'infortunio.

Dele Alli e Jadon Sancho, che condividono un talento speciale che però il primo ha sprecato e il secondo sembra stare per, sono stati accusati di passare troppo tempo davanti ai videogiochi come sintomo del disinteresse verso il calcio “vero” e la loro “vera” carriera. Secondo alcune fonti interne al Borussia Dortmund, Sancho «non dorme abbastanza perché spesso gioca fino alle prime ore del mattino. Uno stile di vita che non si adatta affatto alla mentalità operaia della regione della Ruhr». Su internet si legge, addirittura, che Dele Alli è stato lasciato dalla fidanzata per colpa dei videogiochi. C’è sicuramente un’esagerazione in queste accuse, certo è difficile non vederci il minimo problema guardando la torta a forma di joystick con cui Dele Alli ha festeggiato i suoi 24 anni.

È su questa idea che i videogiochi stanno corrompendo le nuove generazioni e i loro talenti, che si basano anche le parole di Spalletti. «Se la modernità è giocare alla PlayStation fino alle 4 di mattina quando c’è la partita il giorno dopo, allora questa modernità non va bene», una frase che da una parte richiama, giustamente, i calciatori alle loro responsabilità di atleti professionisti, ma dall’altra evidenzia come per il CT i calciatori non hanno giudizio come gli adulti, ma hanno bisogno di regole come i bambini. È forse solo un caso, ma il Corriere di Bergamo dopo la brutta e “apatica” prestazione di Scamacca contro il Milan, ha lasciato intendere che potesse essere lui il diretto interessato degli strali di Spalletti, visto che è un accanito giocatore alla PlayStation.

La domanda però è se sia una buona idea privarli della PlayStation in un momento in cui gli è richiesto di fare gruppo, di trovare qualcosa che li unisca anche se durante tutto l’anno sono avversari. La storia dei ritiri delle Nazionali è sempre una storia di unione attraverso il gioco, dallo Scopone Scientifico del ‘82 alla PlayStation di oggi. Francesco Totti ha raccontato che durante il Mondiale del 2002 in Corea e Giappone ci giocarono così tanto che «s’è squagliata» (si racconta anche che in un "Derby" tra lui e Nesta il televisore finì distrutto). Materazzi l’ha messa insieme all’unità e alla famiglia nella sua ricetta per vincere un Mondiale; Gilardino addirittura ha questa teoria secondo cui la PlayStation gli aveva lanciato dei segnali, e di come se per loro «in fondo in fondo era tutta una finzione. Fabio [Grosso, nda] stava vedendo oltre. Stava già vincendo il Mondiale», questo solo perché era quello che si impegnava più di tutti. La PlayStation, tra l’altro, era la console ufficiale della Nazionale nel 2021, l’anno in cui un Europeo lo abbiamo vinto.

Che messaggio vuole dare Spalletti facendo rinunciare i calciatori della Nazionale alla PlayStation? È solo un modo per salvaguardare il loro sonno oppure c’è qualcosa di più? Nella stessa intervista il CT ha detto che vuole «far rivivere i raduni e i ritiri di un tempo: vecchie abitudini e atmosfere. Cose semplici e sane. E Buffon in questo mi aiuterà». Difficile capire però a cosa si riferisce. Nella sua biografia Francesco Totti ha raccontato che una volta Spalletti si è piazzato imbestialito fuori dalla sua stanza ad aspettare che uscissero Pjanic e Nainggolan, impegnati a giocare a carte col Capitano oltre l’orario del coprifuoco. Le carte sono abitudini semplici e sane, o no?

Forse nelle sue parole la PlayStation rappresenta un simbolo, negativo, di come la nostra società stia perdendo il contatto con la realtà attraverso il virtuale, che siano i videogiochi o i social o magari tra un po’ la realtà aumentata. Sergino Dest ha detto che in Qatar per i Mondiali «ho portato la PlayStation con me, ma l’ho infilata in un cassetto e ho deciso di non accenderla neanche una volta [...] Ho deciso che volevo vivere il momento, godermi questa esperienza. Andare in giro, camminare, parlare con persone diverse». Dall’aver messo via la Play, Dest sembra averne tratto un’epifania. In quei giorni pieni di ozio, ha raccontato, passava il suo tempo ad ascoltare i rumori della città dal patio della sua stanza d’hotel, ha fatto amicizia con gli addetti alla sicurezza, che sono «diventati come dei fratelli», si è goduto tutta la musica, le facce, l’atmosfera: «Non riuscivo a smettere di sorridere».

Chissà come i calciatori della Nazionale prenderanno questa privazione. Forse questa estate in Germania non rivivremo lo stesso sogno del 2021, quando, in maniera evidente, a portarci alla vittoria è stata anche la capacità dei nostri giocatori di "fare gruppo", di stare insieme in senso positivo, di aiutarsi l'un con l'altro senza gelosie. Magari non vinceremo neanche, ma forse alla fine avremo un gruppo di ragazzi più consapevoli, che hanno imparato a godersi le piccole cose: una farfalla che si posa su un fiore, il rumore del vento tra gli alberi, la maestria di Carlo Emilio Gadda nell'usare la lingua come strumento narrativo, il riverbero della luce sugli schermi dei loro televisori spenti.

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