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La stagione in cui i calciatori potrebbero dire basta
02 ott 2024
02 ott 2024
Con la riforma delle coppe europee e il nuovo Mondiale per club alle porte, secondo molti calciatori le partite potrebbero diventare troppe.
(copertina)
IMAGO / Moritz Müller
(copertina) IMAGO / Moritz Müller
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Per Aurélien Tchouaméni «bisogna davvero fare qualcosa con il calendario», «giocare 80 partite non è possibile: è troppo». Bernardo Silva aveva trovato la voce già alla fine della scorsa stagione, dopo una semifinale di FA Cup contro il Chelsea appena tre giorni dopo aver giocato 120 minuti in Champions League. «Oggi è stato troppo», aveva detto, sfinito. Jurren Timber, per quanto il calendario è diventato fitto di partite, ha utilizzato il termine «pericoloso»; Jude Bellingham, «fisicamente e mentalmente esausto» dopo la finale degli Europei che ha chiuso la sua interminabile stagione, ha detto che il calendario è «impazzito»; Alessandro Bastoni lo ha definito «folle»: «È come se le stagioni non finissero mai, si fa fatica a reggere dal punto di vista mentale». «Stiamo soffrendo insieme alle nostre famiglie», ha detto Dani Carvajal, tipo un impiego al fronte durato troppo a lungo. «Passo sempre meno tempo con la mia famiglia e i miei amici», ha detto in un’altra occasione Bernardo Silva. «Abbiamo bisogno di riposarci adeguatamente», ha aggiunto Robert Lewandowski. «Qualcuno deve prendersi cura di noi, perché siamo gli attori principali in questo sport», ha detto con una vena di disperazione Rodri, che il 18 settembre aveva definito la prospettiva di uno sciopero «sempre più vicina».

La scorsa stagione il centrocampista spagnolo era stato elogiato per la sua continuità di rendimento e veniva spesso citata la statistica per cui, con lui in campo, il Manchester City non perdeva mai. Pochi giorni dopo le sue dichiarazioni, durante lo scontro diretto contro l’Arsenal in Premier League, si è lesionato i legamenti del ginocchio destro su un contrasto con Thomas Partey apparentemente innocuo. La squadra di Guardiola, senza di lui, è riuscita a pareggiare una partita che sembrava persa con un gol al 98'. Lui, invece, quasi sicuramente perderà tutto il resto della stagione. Forse la retorica sulla sua insostituibilità è stata più pericolosa di quanto immaginassimo.

L’infortunio di Rodri ha riproposto un tema che in realtà è molto più antico delle dichiarazioni dei calciatori degli ultimi mesi. Vi ricordate quando i presidenti della Serie A si lamentavano degli infortuni dei propri giocatori impegnati in Nazionale? Allora si parlava di risarcimenti, assicurazioni e in generale aleggiava molta urgenza di fronte a un problema che vedeva i calciatori come investimenti da proteggere. Oggi, invece, sono gli stessi i calciatori a lamentarsene, a parlare del proprio benessere fisico e mentale messo a repentaglio da stagioni sempre più lunghe e dure, eppure quell’urgenza sembra ormai svanita. Insomma, per una categoria che viene spesso accusata di parlare troppo poco e di venire ascoltata troppo, le parole dei calciatori sui calendari sono praticamente cadute nel vuoto. «Nessuno ci chiede cosa ne pensiamo se vengono aggiunte nuove partite», si è lamentato Alisson. «Sembra che il denaro parli più forte delle voci dei calciatori», gli ha fatto eco De Bruyne.

Alisson e De Bruyne probabilmente si riferivano alle autorità sportive, in primo luogo alla FIFA, che l’anno prossimo vorrebbe inaugurare un nuovo Mondiale per club che per il Manchester City, per esempio, potrebbe significare tra le tre e le sette partite in più tra la metà di giugno e la metà di luglio. Eppure mi sembra che a coprire le voci dei calciatori sia in primo luogo quella del pubblico che vede le partite, dei tifosi, che in questo tipo di argomenti sono il più grande alleato dei presidenti delle proprie squadre, e delle stesse organizzazioni che vogliono che si giochi sempre di più. Insomma, i giocatori che ho citato hanno tutti stipendi da milioni di euro, e i tifosi percepiscono i soldi della propria squadra come i propri soldi: è naturale che anche loro vogliano i calciatori zitti e a lavorare, cioè a giocare e possibilmente a vincere per la propria squadra. Alla fine è anche ciò che vuole il cosiddetto pubblico neutrale: anche io preferisco vedere una partita di Champions League con De Bruyne e Alisson rispetto a una senza.

Forse è per questo che in questi mesi anche i giornali, spesso propensi a dare ai propri lettori esattamente ciò che vogliono leggere, più che le parole dei calciatori abbiano fatto risuonare i distinguo che spesso sorgono come funghi in questo tipo di discussioni. Slalom, la newsletter giornaliera di Angelo Carotenuto, sul tema per esempio ha ripreso il 25 settembre un articolo di Jonathan Liew sul Guardian, secondo cui uno sciopero dei calciatori non sarebbe possibile perché il calendario congestionato è un problema che riguarda solo una minima frazione di essi, tra l’altro quella pagata meglio. «Ce li vedete Rodri e Haaland con i cartelli in mano mentre sfilano per le vie del centro, un qualunque centro, per chiedere meno partite, meno calcio, loro che di partite e di calcio vivono?», ha scritto Carotenuto all’inizio della sua newsletter. Allo stesso modo, alcune testate italiane hanno ripreso in queste settimane uno studio del CIES (il Centro Internazionale di Studi sullo Sport) pubblicato all’inizio di agosto, secondo cui in realtà il minutaggio dei giocatori più impiegati in Europa nell’ultimo decennio starebbe scendendo anziché salendo, come dimostra il fatto che nella top ten delle stagioni con più minuti di gioco ci sia un solo un giocatore dopo il 2013 (cioè Bruno Fernandes nella stagione 2022/23, al sesto posto). Insomma, le lamentele dei giocatori sarebbero infondate, e il fatto che arrivino da quelli pagati meglio dovrebbe avervi già fatto capire tutto, sembrano dire questi articoli.

Per tutti questi argomenti si può scendere nel merito (e proverò a farlo già in questo spazio), ma è illusorio pensare di poterne uscire con una risposta definitiva e inequivocabile. Lo stesso report del CIES che dovrebbe smentire le preoccupazioni dei calciatori di élite spiega, per esempio, che il calo del minutaggio dei giocatori più impiegati (che spesso sono anche i migliori) potrebbe essere dovuto all’allargamento delle rose e all’aumento delle sostituzioni da tre a cinque, che ha parzialmente spalmato il carico di lavori all’interno delle squadre. Più che diminuito, insomma, il minutaggio potrebbe essere stato redistribuito, e infatti il CIES ha registrato un aumento del 51.1% nei minuti giocati dalle riserve da quando sono state introdotte le cinque sostituzioni. Sembra passata una vita già, ma non serve un grande sforzo di memoria per ricordare che questa innovazione nel regolamento è stata introdotta per permettere alle stagioni calcistiche interrotte dalla pandemia di potersi concludere nelle poche settimane estive rimaste. Si diceva che sarebbe stato un cambiamento temporaneo in un momento di emergenza in cui il calcio era costretto a giocare sempre ogni tre giorni, ma in poco tempo sia la norma che permetteva le cinque sostituzioni che la prospettiva di giocare sempre ogni tre giorni è diventata la normalità.

Il numero di minuti in campo, poi, racconta solo una parte del carico fisico e mentale a cui i giocatori sono sottoposti. Per un calciatore sudamericano, per esempio, anche fare la riserva della propria Nazionale significa comunque sobbarcarsi un viaggio intercontinentale di andata e ritorno, con ripercussioni a cascata sul recupero e sulla preparazione della partita successiva una volta tornato in Europa. Anche senza scendere in campo (e abbiamo visto che anche per le riserve è sempre meno probabile) più partite significa più tempo passato sull’aereo e quindi meno sonno, meno allenamento e di conseguenza rischi più alti di incorrere in un infortunio, con tutto ciò che ne consegue.

Lo scorso 5 settembre FIFPro, il sindacato globale dei calciatori, ha pubblicato un report sul carico fisico e mentale sempre più pesante che devono sopportare i calciatori d’élite, in cui si fa l’esempio piuttosto impressionante di Julian Alvarez. Il centravanti argentino nella stagione 2023/24 tra club e Nazionale è stato convocato per una partita ben 83 volte, almeno 6 in più di chiunque altro, giocando la cifra mostruosa di 75 partite e trascorrendo in viaggio ben 204 ore della sua vita. Al di là dei numeri, le notizie che escono fuori dal suo caso sono almeno due: la prima è che c’è un calciatore che è stato in viaggio persino più di lui (cioè Cristian Romero, che ha totalizzato 211 ore di viaggio e quasi 163mila chilometri percorsi); la seconda è che Alvarez non è nemmeno lontanamente quello ad aver accumulato più minuti nella scorsa stagione (tra quelli di movimento: Phil Foden, Federico Valverde, John McGinn, Virgil van Dijk, Granit Xhaka e Declan Rice sono andati tutti oltre i seimila minuti di gioco in stagione, mentre Alvarez si ferma a “soli” 5364).

Certo, quello di Julian Alvarez è un caso limite, ma il punto che stanno sollevando i calciatori oggi è che già a partire da questa stagione non lo sarà più, e il limite verrà spostato ulteriormente. La riforma delle coppe europee, e in particolare della Champions League (che ha aggiunto due partite nella fase a gironi più una eventuale ai sedicesimi di finale), l’introduzione del nuovo Mondiale per club a 32 squadre alla fine di questa stagione, e l’allargamento a 48 squadre del Mondiale per Nazionali a partire dal 2026 porterà a un graduale aumento delle partite giocate dai calciatori più impiegati. Secondo il report FIFPro, parliamo di almeno 15 partite in più a stagione per i top club europei, e per i loro calciatori più impiegati di almeno 80 partite a stagione da giocare (il giocatore più impiegato nella stagione 2023/24, cioè Julian Alvarez, come detto ne ha giocate 75).

Ovviamente i numeri di per sé dicono poco, ed è difficile che riescano a convincere quelli che ancora sollevano dubbi sulle correlazioni tra il numero di partite giocate (e in particolare le cosiddette back-to-back, cioè quelle giocate consecutivamente con un recupero dalla precedente inferiore ai cinque giorni, su cui il report FIFPro cita diverse prove e opinioni autorevoli) e gli infortuni dei calciatori o il deteriorarsi della loro salute mentale, e ancora meno quelli per cui determinati stipendi giustifichino qualsiasi condizione di lavoro. Se questi numeri avessero davvero un potere in questo dibattito la si smetterebbe immediatamente di discutere sul quando molte partite diventano troppe partite, dimenticandosi che i calciatori che vivono questa situazione in prima persona l’hanno già detto in mille modi diversi, e ci si concentrerebbe su chi lo decide, che è ciò che rende quella dei calciatori d’élite una rivendicazione sindacale a tutti gli effetti.

La novità di questi ultimi mesi infatti non è tanto il progressivo ingolfarsi del calendario, che va avanti praticamente da quando le partite hanno iniziato ad essere trasmesse in TV, quanto il fatto che forse per la prima volta i calciatori più ricchi e teoricamente tutelati vogliano dire la loro su un tema che fino ad oggi era stato di proprietà esclusiva delle televisioni, per mezzo delle federazioni e delle altre autorità calcistiche. Lo ha ricordato proprio ieri anche Carlo Ancelotti, nella conferenza stampa prima della partita di Champions League contro il Lille, con la solita significativa pacatezza. «Ci sono troppe partite, ma i protagonisti non sono quelli che decidono. I calendari sono decisi da leghe e federazioni e questo complica molto».

I calciatori sono passati dalle parole ai fatti già quest’estate, lo scorso 13 giugno, quando FIFPro, insieme ai sindacati dei calciatori inglesi e francesi, ha deciso di fare causa alla FIFA per aver stabilito “unilateralmente il Calendario Internazionale delle Partite” e per aver deciso "di creare e programmare la Coppa del Mondo per Club FIFA 2025”. Significativo, oltre alla mossa in sé, è stata anche la motivazione giuridica data dai sindacati dei calciatori. Non solo la presunta violazione da parte della FIFA dei “diritti dei giocatori e dei loro sindacati garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” ma anche del “diritto della concorrenza”. Vi ricorda qualcosa? Se a venirvi in mente è il caso Superlega davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il cosiddetto “abuso di posizione dominante” da parte - in quel caso - della UEFA, avete fatto centro, e infatti il comunicato con cui FIFPro ha annunciato la sua causa lo cita esplicitamente. “I sindacati dei giocatori ritengono che, alla luce della sentenza della CGUE sulla Superlega, tali decisioni unilaterali e discrezionali costituiscano ‘restrizioni della concorrenza per oggetto’ ai sensi dell’Articolo 101 TFUE”. Persino lo studio legale che difenderà i sindacati in questa causa, il Dupont-Hissel, è lo stesso che ha difeso il progetto Superlega e anche quello che portò alla storica sentenza Bosman nel 1995.

È qui che questa storia si ingarbuglia notevolmente, perché se nel conflitto per la Superlega c’erano sostanziali dubbi che la FIFA fosse dalla parte difesa da Dupont (e il nuovo formato del Mondiale per club sembra confermarlo a posteriori), in questo caso se lo ritrova contro. Chi di abuso di posizione dominante ferisce di abuso di posizione dominante perisce si potrebbe dire, e il quadro politico è presto fatto. Da una parte per l’appunto la FIFA, che dal canto suo ha accusato i suoi nemici di "ipocrisia commerciale" (non senza un fondo di ragione, visto che parte del carico sulle spalle dei calciatori deriva anche dalle amichevoli estive e dai tour in giro per il mondo che i club sono ben felici di organizzare); dall’altra i sindacati dei calciatori insieme all'organizzazione che riunisce le leghe europee, affiancati silenziosamente dalla UEFA, che ha trovato modo per utilizzare le armi che l’avevano ferita nel caso Superlega contro l’organizzazione guidata da Gianni Infantino.

A quest’ultimo fronte si è aggiunto, a partire dal 23 luglio, anche l’AIC, l’Associazione Italiana Calciatori, ovvero il sindacato italiano dei calciatori professionisti. Per questa ragione ho sentito per questo lavoro il suo presidente, Umberto Calcagno, che mi conferma che la discussione sul calendario e il benessere dei calciatori è intrinsecamente legato a quella su come il calcio genererà profitti in futuro, se continuerà cioè a crescere economicamente nei prossimi anni come ha fatto negli ultimi. Molti dei giocatori che si lamentano perché le partite stanno diventando troppe, d’altra parte, lo fanno non solo per difendere il proprio benessere, ma anche perché secondo loro a risentirne sarebbe lo spettacolo, ovvero l’attrattività commerciale del calcio. È quello a cui si riferiva per esempio lo stesso Rodri quando diceva che nella sua esperienza «40-50 è il numero massimo di partite che un giocatore può giocare al suo livello migliore», o lo stesso Ancelotti sempre nella conferenza stampa di ieri: «Ci sono più infortuni e soprattutto ne risente la qualità. Con qualche partita in meno si può vedere uno spettacolo migliore». Una posizione che nasconde un po’ di furbizia nel mostrarsi comprensivi nei confronti interessi delle televisioni, o forse è vero che questi due discorsi sono davvero inestricabili.

«Oggi preservare la salute del calciatore significa preservare la parte migliore del nostro spettacolo, che poi è strettamente collegata al valore del prodotto», mi dice esplicitamente Calcagno, «siamo l’unica azienda che per massimizzare i ricavi nell’immediatezza rischia di vendere un prodotto nel medio periodo più scadente». Il presidente dell’AIC mi fa un esempio interessante a cui non avevo mai pensato. «Le partite più importanti sono a fine stagione. Ho visto i dati fisici, almeno quelli resi pubblici, dei supplementari della finale del Mondiale tra Francia e Argentina - dati che poi si sono anche riprodotti nello spettacolo e che si possono verificare solo a novembre, dicembre. La stessa partita giocata a luglio non avrebbe dato quello spettacolo, perché i supplementari sarebbero stati probabilmente gestiti in maniera differente».

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Il rischio, dice Calcagno, è che, per questa ragione, le nuove competizioni che si disputeranno alla fine della stagione, come il Mondiale per Club, non siano così attraenti per le televisioni come si immaginerebbe oggi. Perché non ci saranno i calciatori più importanti, o perché saranno troppo stanchi per produrre partite davvero spettacolari. «Secondo te è possibile che i calciatori, dopo aver finito il campionato ed essere andati in Nazionale dal primo al 10 di giugno, il 15 di giugno abbiano già la prima partita per il Mondiale per club? Una competizione che, per le squadre europee che probabilmente andranno più avanti delle altre, finirà non prima della seconda settimana di luglio, con il campionato che inizierà a cavallo di ferragosto perché poi ci saranno i Mondiali l’anno dopo… Secondo me chi non sta comprando quei diritti si sta dicendo: che tipo di spettacolo sto comprando? Non è che mi ritrovo delle partite scadenti?». Ovviamente che questo sia davvero il motivo è opinione di Calcagno ma è un fatto che, arrivati ai primi giorni di ottobre, la FIFA non sia riuscita ancora trovare un acquirente per i diritti TV del nuovo Mondiale per Club, che alle squadre partecipanti promette premi faraonici (almeno 50 milioni di euro, solo per essere dentro). Una difficoltà su cui potrebbe pesare anche la competizione con altri sport in ascesa, come il tennis, che in quella stessa finestra di calendario presenta il suo torneo più importante, cioè Wimbledon (e forse non è un caso che anche nel tennis si sia iniziato a parlare di troppe partite e troppi infortuni).

Secondo Calcagno, comunque, anche i premi che queste competizioni promettono sono parte del problema perché, allargando la distanza tra squadre grandi, medie e piccole, renderebbero sempre meno appetibili i campionati nazionali, pericolo che unirebbe alla causa dei giocatori d’élite anche quelli delle squadre o delle leghe minori, che non giocano le coppe europee e non vengono convocati in Nazionale. «Il problema grande in prospettiva non lo avrà il Frosinone quando va in Serie A, l’Empoli o le squadre davvero piccole… Il problema grande lo avrà il Napoli, la Roma, la Fiorentina, la Lazio perché difficilmente parteciperanno costantemente alla Champions e quasi mai al Mondiale per club, e quindi se i diritti TV del campionato interno dovessero dimezzarsi si creerebbe un gap spaventoso, e non potrebbero essere più competitive nemmeno in Serie A». Ma davvero i diritti TV dei campionati nazionali potrebbero dimezzarsi? «I soldi nel nostro mondo non sono illimitati neanche se si inventano nuove competizioni», mi risponde Calcagno «È fuori di dubbio che queste risorse vengono sottratte - e la Francia è l’esempio più eclatante, più recente che noi abbiamo. Il rinnovo è stato fatto a 500 milioni su un pregresso che andava su un miliardo. Molti che se ne intendono più di me di diritti televisivi dicono che anche la Serie A in proiezione potrebbe valere la metà. Abbiamo visto le difficoltà che la nostra Serie B ha tuttora nella rinegoziazione dei diritti. Un mondo che redistribuisce meglio le risorse a chi non partecipa a quelle competizioni è qualcosa che riguarda società, dirigenti, presidenti, anche calciatori, allenatori, direttori sportivi».

Calcagno mi dice che «oggi l’unica soluzione è non aggiungere nuove competizioni» e mi ripete spesso che bisogna «sedersi ad un tavolo» per trovare un compromesso, ma se nessuna della parti dovesse cedere cosa succederebbe? Uno sciopero è davvero possibile o gli interessi dei calciatori sono davvero troppo divergenti, tra chi guadagna milioni di euro ma è sull’orlo del burnout fisico e mentale, e chi invece potrebbe non vedere mai nemmeno la Serie A? «Sono convinto che i calciatori farebbero fronte comune perché ne parliamo ormai da molti anni tutte le volte che andiamo nelle squadre», mi risponde Calcagno «Fermo restando che poi lo sciopero potrebbe non riguardare le partite di campionato, ma le partite di questi tornei internazionali. Quindi potrebbero essere non direttamente coinvolti, ma anche in quel caso sono convinto che darebbero la loro adesione quanto meno formale a una forma di protesta di questo tipo».

Al di là delle lotte politiche e degli interessi economici, e al di là di come si risolverà questo conflitto, sarebbe comunque positivo se i calciatori riuscissero a trovare una propria voce, e il coraggio per farla contare anche al di fuori delle interviste post-partita. Mi sembra significativo, da questo punto di vista, che nel momento in cui si è iniziato a lavorare per trovarne una unica, si sia iniziato a discutere di temi lontani dal cinismo avido che con un po’ di pigrizia associamo naturalmente ai calciatori. La redistribuzione della ricchezza, il benessere fisico e mentale, l’equilibrio con il proprio lavoro, quello che Calcagno chiama «aspetto umano». «Non è che se sei bravo e fortunato allora non hai il diritto di vivere la tua vita anche al di fuori dell’ambito lavorativo», mi dice «O non hai il diritto di stare con la tua famiglia, di avere i tuoi spazi al di fuori del contesto sportivo. E poi si parla solo dei calciatori ma ci sono anche gli staff, gli allenatori, i direttori sportivi, i tuoi colleghi che seguono le grandi squadre, tipo l’Inter e la Juventus, gli arbitri. Hanno tutti bisogno di staccare».

«Anche io e te, se lavorassimo tutti i giorni, per quanto ci possa piacere il nostro lavoro, per quanto possa essere la cosa che più ci piace fare nella vita, rischieremmo di non apprezzare più quello che stiamo facendo», mi dice Calcagno.

Effettivamente se tutta questa vicenda servisse anche solo a dare a questo pericolo la giusta importanza, e a trattare i giocatori con l’umanità che ne consegue, mi sembrerebbe già una grande notizia.

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