Nonostante il 1920 viene ricordato anche in Italia come l'anno terribile della cosiddetta influenza spagnola, che da noi fece circa 600mila morti, per il campionato italiano di calcio rappresenta in realtà un anno di rinascita, quello cioè della stagione (la 1919-20) della definitiva ripresa dopo l'interruzione dovuta allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ad essere precisi bisognerebbe dire che a interrompere il calcio in Italia non era stata la Grande Guerra ma l'entrata in guerra dell'Italia, dato che il campionato fu sospeso il 23 maggio del 1915. A dirla tutta, la Prima Guerra Mondiale per certi versi fece quasi bene al nostro calcio, almeno per quanto riguarda la diffusione in tutta la penisola. Sotto le armi, infatti, le differenze sociali e le distanze geografiche si accorciavano e grazie anche alle numerose partite giocate fra i soldati al fronte, il calcio riuscì a diffondersi al di là di quelle classi borghesi e cittadine del triangolo industriale che lo avevano già adottato alla fine dell’Ottocento, conquistando anche le masse contadine del centro-sud e iniziando quel percorso che nei decenni successivi lo avrebbe portato ad affermarsi come lo sport nazionale.
Già allora, in ogni caso, il mondo del calcio era segnato da un’elevata litigiosità e da una profonda partigianeria. Se nelle scorse settimane siete rimasti basiti dai conflitti tra FIGC, Lega Calcio, CONI, governo e club di fronte all’avanzare dell’emergenza coronavirus, forse vi sentirete un po’ sollevati dal sapere che nemmeno i nostri avi diedero grande prova di sé quando per causa di forza maggiore il campionato venne sospeso.
Lo scoppio della guerra
Nell’agosto del 1914, sebbene fosse già scoppiata la guerra, la FIGC, guidata dal piemontese Carlo Montù, decise di cominciare comunque il campionato, chiarendo però in un comunicato di essere pronta a «sospenderlo se le condizioni politiche del paese lo dovessero richiedere».
Montù aveva fatto il Risorgimento, giocato nel primo campionato di calcio del 1898, ottenuto una medaglia al valor militare per esser stato ferito sul suo aereo durante la guerra di Libia, collezionato poltrone di istituzioni sportive ed era stato deputato liberale nel Parlamento.
Nonostante l’Italia fosse inizialmente rimasta fuori dal conflitto, lo scoppio della Prima guerra mondiale vide comunque l’esercito regio mobilitarsi, costringendo numerosi calciatori, allora dilettanti (o almeno mascherati come tali, dato che il professionismo era ancora illegale), a delle autentiche peripezie per riuscire a giocare la partita domenicale. Spulciando la memorialistica su quegli anni, vengono alla luce ricordi, magari un po’ romanzati, in cui si racconta di calciatori che, per non arrivare in ritardo alla partita, si spogliavano della divisa militare per indossare quella di gioco nel vagone treno, suscitando imbarazzo e clamore fra gli altri viaggiatori.
Negli anni Quaranta Vittorio Pozzo, futuro CT della Nazionale ma allora semplice trainer del Torino F.C., sulle colonne del Calcio Illustrato, raccontò così la penultima giornata del girone finale del campionato settentrionale: «A Milano, contro l’Inter, per un miracolo ci presentammo sul campo quasi al completo. L’avversario cercò tutte le scuse per ritardare l’ora d’inizio, poi venne a chiederci di aspettare, da buoni italiani – che arrivassero dal Veneto i militari mancanti. Si trattava di Fossati sicuramente e di Caimi, mi pare. Aspettammo più di un paio d’ore, pur pronti come eravamo, e quando finalmente potemmo giuocare, perdemmo per 1 a 2: la sola sconfitta subita nella stagione di campionato».
Al di là dei semplici problemi logistici, comunque, la stampa sportiva era schierata in gran parte sul fronte interventista e la sospensione dei campionati, mano a mano che si andava avanti con le partite, era nell’aria. Come spesso accade in Italia, l’interruzione arrivò quando non era più rimandabile, proprio nel momento clou del campionato. E cioè quando nel girone settentrionale (quello da cui, per i valori in campo, usciva regolarmente la vincitrice della finalissima con quello centro-meridionale) mancavano da giocarsi solo Genoa-Torino e Milan-Internazionale.
Il campionato si ferma
L’ingresso in guerra venne celebrato il 24 maggio dalla La Gazzetta dello Sport che titolò entusiasta: "Per l’Italia contro l’Austria hip hip hip hurrà".
Il Guerin Sportivo, che di lì a poco avrebbe chiuso i battenti, in un articolo titolato Perché approviamo la sospensione del campionato italiano scrisse: "Riteniamo che la Federazione abbia agito con senno per altre e ben fondate ragioni. Ognuno si sarà potuto rendere conto come le finali non abbiano potuto svolgersi in condizioni regolari. Le squadre avevano necessariamente risentito della situazione politica e militare, molti foot-ballers avendo dovuto rispondere all’appello della Patria prima che a quello della propria Società. Così si verificavano vuoti dolorosi nelle compagini, così molti giuocatori si presentavano stanchi e indeboliti per le fatiche del servizio”.
Alcuni giornali, che pur avevano celebrato l’ingresso in guerra criticarono invece la scelta di sospendere il campionato. Emilio Colombo sullo Sport Illustrato e la Guerra non esitò a parlare di “inconsulta deliberazione della FIGC”. La Gazzetta dello Sport la definì “inutile” in quanto a suo dire: «la prima giornata di mobilitazione non allargava, più di quello che i richiami con precetto personale avessero fatto, i vuoti delle due squadre cittadine». Su Il Football venivano presi in considerazione anche gli aspetti economici e ci si lamentava del fatto che «tanto il Genoa quanto il Milan» avessero «perduto, senza nessuna ragione al mondo, un incasso non del tutto trascurabile».
Anche le squadre coinvolte non tardarono a lamentarsi. Internazionale e Torino si dissero “furenti” perché era “mancata loro la possibilità di colmare la lieve differenza di punti che li separava dal Genoa” ritenendo “che la preferenza è stata usata ai genoani”. I rossoblù invece protestarono nella convinzione che si fosse “voluto usare una grave partigianeria ai suoi danni” e, mescolando fermezza e diplomazia, inviarono alla FIGC un comunicato che venne pubblicato anche sulla Gazzetta dello Sport.
«Il Consiglio direttivo del Genoa Cricket and Foot-Ball Club. Visto l’improvviso deliberato della Commissione Tecnica della Federazione Italiana del Giuoco del Calcio col quale nello stesso giorno della finalissima veniva sospesa la gara, facendo così cadere le aspirazioni legittime del Genoa Club e di quei giuocatori che dopo ben otto mesi di sacrificio attendevano con serena fiducia l’ambito onore del Campionato Italiano, pel quale si erano già portati alla testa delle squadre concorrenti, pur considerando che necessità alcuna, dopo la mobilitazione già da tempo iniziata, non imponeva tale draconiano provvedimento, unanime delibera, di fronte alla imponenza e nobiltà dell’attuale momento patriottico per spirito di fratellanza e concordia colle Società consorelle, di soprassedere per ora a quelle fondate proteste cui in tempo di vita sportiva normale avrebbe dovuto ricorrere». Un esercizio mirabile di gattopardismo, insomma.
Peraltro nel caos comunicativo di quei giorni, i telegrammi inviati dalla FIGC avevano sì sospeso le due partite della I divisione settentrionale ma non tutte le altre previste nella domenica di 23 maggio 1915. La finale di terza categoria Olona-Stelvio, ad esempio, si giocò regolarmente, e allo stesso modo anche Ausonia-Saronno, Pavia-Pro Lissone e U.S. Vercellese-U.S. Genovese nel campionato di promozione. Non si disputarono invece Pro Vercelli-Juventus e Varese-Atalanta.
Nella Coppa dei Presidenti, un torneo di consolazione per le squadre piemontesi eliminate dal Campionato di prima categoria a Casale Monferrato, la confusione generò una situazione surreale. Come riportò La Gazzetta dello Sport: “Non essendosi presentata in campo la squadra alessandrina per disputare l’ultimo match del girone piemontese di consolazione per gli esclusi dal Campionato, il Casale si è aggiudicato la Coppa dei Presidenti. Essendosi però la società casalese rifiutata di restituire il denaro agli spettatori sono successi sul campo battibecchi vivaci e incidenti deplorevoli”.
Traducendo dal linguaggio formale del tempo: il 23 maggio 1915, per molti tifosi piemontesi, evidentemente privi del tanto celebrato aplomb sabaudo, di fronte a un torto simile non esitarono, proprio nel giorno della dichiarazione di guerra all’Austria, a rivendicare i propri diritti con linguaggio inappropriato e qualche spintone di troppo.
Durante la guerra
Il calcio allora era ancora lontano dal diventare quella passione nazionale capace di unire e allo stesso tempo dividere il paese ogni domenica. Ma nonostante questo nel dicembre 1917, proprio nelle settimane successive alla rotta di Caporetto, quando tutte le energie del Regno vennero utilizzate per evitare la capitolazione, sui pochi giornali sportivi rimasti ancora aperti c’era chi protestava per il perdurare dell’interruzione delle partite a Milano. “Si riaprono i caffè-concerti ma i campi da football no! Un’ingiustizia che deve finire”, tuonò La Gazzetta dello Sport.
Il calcio con i suoi battibecchi continuò ad appassionare persino in quei giorni in cui l’esercito italiano era riuscito ad assestarsi sul Piave e a rispondere all’offensiva austriaca. In particolare, le cronache calcistiche del tempo si dedicarono quasi esclusivamente alle polemiche sorte a seguito di un clamoroso episodio avvenuto durante la Coppa Mauro, un torneo messo in palio dall’allora reggente della FIGC, il milanese Francesco Mauro, il quale faceva le veci di Montù che era stato richiamato sotto le armi.
Il Legnano aveva battuto l’Internazionale per 1-0 grazie alla rete di Malaspina, ma i nerazzurri protestarono per un presunto fuorigioco. Una settimana più tardi, inspiegabilmente, l’arbitro di quell’incontro, Rigoletto Trezzi, ebbe un ripensamento e dichiarò che la rete dei lilla non era da ritenersi valida per la posizione irregolare di un loro calciatore. Incredibilmente, nonostante lo sgomento dei legnanesi e di gran parte della stampa sportiva, la FIGC accolse quel ripensamento e annullò l’incontro. A quel punto, però, il Legnano non aveva la benché minima intenzione di scendere nuovamente in campo per rigiocare una partita che aveva già vinto. E in questo modo l’Internazionale vinse l’incontro 2-0 a tavolino.
Un simile verdetto, ancor più considerando la vicinanza di Mauro all’ambiente neroazzurro (nel 1920 sarebbe persino diventato Presidente dell’Inter per un triennio), fu percepito come una vera e propria provocazione. E così il Legnano non solo si ritirò dalla competizione, ma convinse anche le altre “piccole” partecipanti a quel torneo (Enotria; Nazionale Lombardia; Saronno; Unione Sportiva Milanese;) a uscire dalla Federazione. Mauro fu quindi inizialmente costretto alle dimissioni che poi, secondo un’usanza nazionale, vennero ritirate, e allo stesso modo, dato il particolare momento storico, rientrò anche lo scisma federale.
Dopo l’armistizio di Villa Giusti, firmato il 3 novembre 1918, che sancì la fine delle ostilità con l’Impero asburgico, il calcio prese ulteriore slancio, anche se con qualche artificio. Inizialmente i calciatori, che teoricamente erano ancora arruolati nell'esercito, erano infatti costretti a giocare sotto falso nome per dribblare le severe restrizioni dei comandi militari allora vigenti. Un'anomalia assurda che venne sanata solo il 28 giugno del 1919, con la firma del Trattato di Versailles.
Montù riprese in mano le redini della FIGC e nell’assemblea del 3 aprile 1919 si decise di far ripartire il campionato in autunno. Nel frattempo però erano sorte numerose squadre e fu estremamente complicato trovare un compromesso sulla formula del campionato. I grandi club del nord-ovest si stavano preparando al girone unico e al professionismo, che sarebbe arrivato solo alla metà degli anni venti, mentre le società più piccole non erano disposte a rinunciare agli incassi che garantivano le partite con quelle che oggi chiameremmo "big". Queste insanabili tensioni esplosero nelle stagioni successive, quando si verificarono in rapida successione due scissioni che misero duramente a repentaglio l’unità del calcio italiano. Ma questa è decisamente un'altra storia.
In ogni caso, alla luce di quanto successe a cavallo della Prima guerra mondiale forse si potrebbero quasi rivalutare le polemiche di questi giorni. Sempre che siano finite davvero.