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Il calcio è davvero un'industria importante per l'Italia?
31 gen 2024
L'impatto del calcio sul PIL italiano e dell'abolizione del Decreto Crescita sui conti dei club.
(articolo)
14 min
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Andrea Staccioli / Imago
(copertina) Andrea Staccioli / Imago
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Il calcio è una delle principali industrie del Paese. Quante volte, tra siti, tv e giornali, ci è capitato di leggere questa frase? Non poche e non di rado, specie negli ultimi anni, dove tra emergenza Covid e manovre, il calcio italiano è finito spesso in argomenti politici, più che sportivi.

L’ultimo, ormai, lo conosciamo bene: quel Decreto Crescita che prevede agevolazioni fiscali sugli stipendi dei cosiddetti "impatriati", ovvero soggetti che spostano per almeno due anni la loro residenza dall’estero in Italia. Dal primo gennaio 2024, questi vantaggi non sono più applicabili per i contratti sportivi e di conseguenza, i club della Serie A si ritrovano nel pieno del mercato invernale senza un aiuto che diverse volte, nelle scorse stagioni, ha reso possibili ingaggi di calciatori da campionati stranieri.

La mancata proroga per il nuovo anno ha riaperto il dibattito su quale sia la considerazione del calcio da parte della politica, specie su temi di natura economica e fiscale: è davvero una delle industrie più importanti in Italia o il suo impatto resta nettamente inferiore rispetto agli altri settori produttivi del Paese? E il risparmio ottenuto grazie alle agevolazioni del Decreto Crescita, per i club di Serie A, a quanto ammonta realmente?

Decreto Crescita: cosè e come funziona

Partiamo dalla base: cos’è il Decreto Crescita. Quello che formalmente è noto come DL34/2019 è stato convertito in legge (n. 58) il 28 giugno 2019 e si riferisce a "misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi". Tra queste, quella rivolta letteralmente al "rientro dei cervelli" all’articolo 5, ovvero le misure fiscali da adottare per i soggetti non residenti in Italia che si impegnano a trasferire la residenza in territorio italiano per almeno due anni. Nata per incentivare scienziati e ricercatori italiani a tornare nel Bel Paese, questa norma è diventata subito una sorta di legge Beckham all’italiana. Ricordate quando il governo spagnolo approvò un regime tributario speciale per i lavoratori stranieri in Spagna oltre una certa soglia di reddito? Ecco, anche in quel caso, la norma nacque con propositi diversi rispetto a quelli che si sono effettivamente concretizzati, ovvero aprire le porte ai David Beckham del caso per trovare nel Real Madrid e nel resto della Liga contratti più vantaggiosi rispetto ad altre mete europee.

Se il boom dei meme avesse travolto il web già dagli anni 2000, probabilmente ne avremmo visto qualcuno col volto di Adriano Galliani che sottolinea con insistenza l’iniquità della fiscalità spagnola (che dal 2010 non prevede più tali vantaggi). Non aveva tutti i torti, l’allora amministratore delegato del Milan, che ha spesso indicato le differenze fiscali tra Italia e Spagna come una delle difficoltà in sede di mercato per competere con i club della Liga. Alla fine, però, è stato proprio il calcio di casa nostra a godere di una soluzione simile.

Con il Decreto Crescita i calciatori provenienti dall’estero hanno potuto usufruire di una minore tassazione sui propri ingaggi, trasferendosi per almeno due anni in Italia: i loro stipendi "concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50 per cento del loro ammontare", a cui aggiungere "il versamento di un contributo pari allo 0,5 per cento della base imponibile" da riassegnare a un fondo per il potenziamento dei settori giovanili. In Italia, superati i 50 mila euro di reddito, l’aliquota IRPEF è del 43%. Per chi rientra nei parametri previsti dal decreto, invece, si dimezza, aggiungendo un contributo dello 0,5%. A parità di stipendio netto, un calciatore proveniente dall’estero costa in assoluto di meno rispetto a un calciatore proveniente dall’Italia e questo permette ai club di fare offerte più competitive (leggasi: ingaggi netti più alti) per poter convincere giocatori stranieri - o giocatori italiani emigrati - a trasferirsi.

Il valore dellindustria calcistica in Italia

Prima di addentrarci sull’effettivo peso di queste agevolazioni nei club di Serie A, è però il caso di fare una deviazione e concentrarsi su quanto valga realmente il calcio italiano nell’economia nazionale, dato che la mancata proroga degli sgravi ha riportato in auge il tema sull’importanza data al settore calcistico.

L’impatto del calcio professionistico sul PIL italiano, nel 2022, è stato dello 0,63%. Questo è quanto riportato dalla FIGC nel suo annuale Reportcalcio, citando un’analisi curata da Standard Football, che ha sviluppato per conto della federazione la stima del contributo diretto, indiretto e indotto del calcio italiano all’interno dell’economia del Paese. In termini assoluti, l’impatto sul PIL è stato di 11,1 miliardi di euro nell’anno in questione: è un dato positivo per il sistema calcio, perché per la prima volta si superano i dati pre-pandemici e si va oltre la soglia dei dieci miliardi.

Per quanto riguarda la spesa diretta del calcio professionistico (dunque Serie A, Serie B e Lega Pro), il dato è di 5,7 miliardi di euro, anche in questo caso in leggero rialzo rispetto al 2021. Il valore della produzione, invece, è di 3,43 miliardi di euro e risente ancora degli effetti nefasti dell’emergenza sanitaria, dato che nella stagione 2018/19 si arrivò a quasi 3,9 miliardi di euro. Nella banca dati online di ISTAT non è presente il dato relativo al 2022, ma nel 2021 alla voce "attività sportive, di intrattenimento e di divertimento", il dato aggregato riguardante la produzione e il valore aggiunto è stato di 5,76 miliardi di euro. Nell’intero panorama sportivo nazionale, in quell’anno, il calcio ha prodotto il 63% di valore totale, senza tener conto di indotto e di produzione indiretta.

Il calcio, dunque, è trainante se si parla di impatto nello sport, ma questo è un dato di fatto che nessuno oserebbe contestare anche senza mettere sul piatto le cifre del PIL italiano. Se si vuole però fare un paragone con tutte le componenti del prodotto interno lordo, la differenza è evidente. Ancora una volta, basta accedere alla banca dati ISTAT: nel 2022, per produzione e valore aggiunto, non c’è un solo settore che vada al di sotto dei dieci miliardi e il calcio, a undici miliardi, ci arriva considerando la produzione indiretta e l’indotto. Il settore agroalimentare, secondo quanto scrive ISTAT, nel 2022 ha inciso per il 3,8% sull’economia italiana: il settore primario ha contribuito per il 2,2% e l’industria alimentare per l’1,6%. Per produzione e valore aggiunto, un altro settore fondamentale per l’economia italiana come quello dell’industria manifatturiera ha registrato nel 2022 una somma pari a 290,6 miliardi di euro, ovvero il 16,6% del PIL. Queste sono però aree strategiche impossibili da paragonare allo sport tutto, figurarsi al "solo" calcio, per quanto produca più di tutte le altre attività sportive messe insieme. Il confronto si può fare con la fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, che per produzione e valore aggiunto ha contribuito al PIL italiano nel 2022 per poco meno di 6,4 miliardi di euro.

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Stilare una classifica per capire dove piazzare il calcio tra le attività produttive italiane è difficile e forse anche inutile, ma di certo non rientra tra le prime: quando si indica un impatto pari allo 0,63% del PIL nel 2022, infatti, non si prende come dato di riferimento il valore della produzione (3,4 miliardi di euro), bensì il contributo diretto, indiretto e indotto di 11,1 miliardi di euro. Ciò significa che in questo 0,63% del PIL rientrano anche 12 settori merceologici coinvolti nella "catena di attivazione del valore" del calcio italiano, così elencati nel Reportcalcio: comunicazione e social media, medicina sportiva e farmaceutica, trasporti, cultura e istruzione, food e beverage, consumi e servizi, turismo e accommodation, scommesse sportive, abbigliamento sportivo, televisioni e pubblicità, videogiochi e gaming, impiantistica sportiva. Tutte attività che senza il calcio produrrebbero di meno? Sì, ma che appartengono ad altre aree nella suddivisione del PIL annuo. È una situazione che si ripete anche per altri settori, a dirla tutta. Basti pensare al turismo, "il petrolio dell’Italia", giusto per rilanciare un’altra frase fatta. Riprendendo un articolo del 2021 di Pagella Politica, spesso viene riportato un impatto del settore turistico nel PIL italiano superiore al 13%, ma su tale dato incide - e non di poco - l’indotto derivante da altri settori che non dipendono solo dal turismo. Secondo i dati del Conto satellite del turismo per l’Italia, infatti, l’impatto reale nel 2017 è stato di 93 miliardi di euro, pari al 6% del PIL.

Col calcio, di fatto, si ripete lo stesso schema: i 12 settori inclusi nell’indotto sarebbero meno produttivi senza? Presumibilmente sì, ma non dipendono solo da esso. Anche volendo tener conto di tutta la produzione, diretta e indiretta, quella che possiamo definire "azienda calcio" incide sul PIL comunque per una misura inferiore all’1%.

Pro e contro del Decreto Crescita in Serie A

E qui si torna al Decreto Crescita e alla sua mancata proroga per i redditi degli sportivi. Una delle prime voci opposte al mantenimento dei vantaggi fiscali è stata quella dell’Associazione Italiana Calciatori, per bocca del presidente Umberto Calcagno, che in una lettera inviata al ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, al viceministro Maurizio Leo e al ministro per lo sport Andrea Abodi, ha esposto le ragioni del "no" sulla base della "necessità di tutelare il talento e il patrimonio sportivo rappresentato dai calciatori italiani". Termini diversi, ma concetto allineato a quello espresso dal deputato della Lega Luca Toccalini: «Gli sconti ai calciatori stranieri che guadagnano milioni sono immorali, i club ora investano su giovani italiani e non su stranieri strapagati che peraltro sono spesso scarsi».

Tralasciando ogni analisi sul livello tecnico di chi è approdato in Italia negli ultimi anni, il dato sulla presenza degli stranieri nella massima serie è il seguente: nel 2022 la Serie A è stata terza tra le 31 leghe di massima divisione in Europa per minutaggio di calciatori stranieri (61,7%) e ultima per utilizzo di giocatori formati nei settori giovanili del proprio club di appartenenza (8,4%), secondo quanto pubblicato nel Reportcalcio. Stando ai dati di Transfermarkt, inoltre, nella stagione 2018/19 sono stati impiegati in campionato 569 calciatori stranieri (il 59,1% dei giocatori scesi in campo); cifra salita a 632 nella stagione 2021/22 (64,5%), mentre nel 2022/23 si è ridotta a 603, ma con un’incidenza maggiore (il 65,8% dei calciatori presenti in campionato non era italiano).

Per la Lega Serie A, la mancata proroga produrrà "minore competitività delle squadre, con conseguente riduzione dei ricavi, minori risorse da destinare ai vivai, minore indotto e dunque anche minor gettito per l’erario", ma soprattutto "non tiene conto dello straordinario ruolo economico, oltre che sociale e culturale, che ricopre questo comparto industriale in Italia". Rieccoci dunque alla visione del calcio italiano come industria, rilanciata anche da Urbano Cairo, presidente del Torino, al termine dell’incontro tra i club di Serie A e il presidente federale Gabriele Gravina dello scorso 10 gennaio: «Per quale motivo si vuole affossare il calcio che è un’industria importante che impiega e dà lavoro a tanta gente che paga le tasse per 1,3 miliardi?». Il riferimento non è solo alla mancata proroga del Decreto Crescita, ma anche ad altri temi caldi per il nostro movimento, legati alle scommesse e agli stadi, ma nell’immediato sono i vantaggi previsti dal decreto a cambiare i piani, specialmente ai club di Serie A. Perché la mancata conferma di tale misura è arrivata il 28 dicembre scorso, col mercato di riparazione aperto a partire dal 2 gennaio. Magari le dirigenze delle 20 società di massima serie non saranno state colte del tutto alla sprovvista, ma quantomeno chi vuole puntare a rinforzi provenienti dall’estero dovrà avere pronto un piano B per rientrare nel budget.

Eppure, di base, la norma prevedeva l’applicazione degli sgravi per chi avesse trasferito la residenza in Italia "entro il 31 dicembre 2023". Non un fulmine a ciel sereno, dunque. Semmai è stato cercato in extremis di prorogare i termini fino al 29 febbraio 2024, in tempo per mettere sotto contratto nuovi calciatori provenienti dall’estero nella finestra di mercato invernale e rinviare lo stop alle agevolazioni dalla prossima stagione. La disposizione era stata inserita nella bozza del cosiddetto Decreto Milleproroghe, da discutere in Consiglio dei Ministri. La discussione, però, non ha portato all’approvazione della modifica e la scadenza è rimasta la stessa, a tre giorni dalla fine dell’anno. Ciò significa che nel mercato di gennaio, i club italiani non stanno usufruendo dei vantaggi avuti nelle ultime sessioni di campagna acquisti (anche se un articolo del Fatto Quotidiano avanza l’ipotesi di un ulteriore tentativo tramite un emendamento): dall’estate 2019 fino all’ultima finestra di calciomercato, ogni nuovo tesserato proveniente dall’estero (con conseguente spostamento della residenza in Italia per almeno due anni) ha pagato all’incirca metà delle tasse sul proprio stipendio rispetto a quelle che avrebbe pagato un collega già residente in Italia, a parità di ingaggio netto. Non solo calciatori: Antonio Conte, per tornare in Italia sulla panchina dell’Inter, ha usufruito di questo vantaggio, così come José Mourinho per approdare alla Roma.

Quanto hanno risparmiato i club col Decreto Crescita

In termini fiscali, l’unico dato ufficiale disponibile è quello sulle ritenute IRPEF versate dai club italiani nel 2019 e nel 2020, ovvero un lasso di tempo in cui è oggettivamente impossibile stabilire l’effetto reale del Decreto Crescita, in quanto solo al primo anno di attuazione. In ogni caso, per le 20 società di Serie A si è passati da 693,1 a 573,8 milioni di euro e per tutto il comparto professionistico da 797,3 a 669,6 milioni di euro. Quasi 128 milioni in meno nel giro di un anno, ma «in considerazione principalmente del decremento del reddito da lavoro dipendente», come scrive la FIGC nel proprio report - citando i dati del MEF - e non per altre misure.

Se si vuole fare invece una stima su quanto i club di Serie A hanno risparmiato in sede di mercato, invece, la cifra circolata sui media in questa settimane si aggira sui 140 milioni di euro dall’applicazione della norma fino alla stagione 2022/23, nell’arco di quattro stagioni calcistiche. Quattro stagioni in cui il campionato italiano ha aperto le porte a giocatori come Mathijs de Ligt, Romelu Lukaku e Zlatan Ibrahimovic, ma non solo. In questo periodo sono arrivati futuri campioni del calibro di Victor Osimhen e Rafael Leão, che hanno rinnovato i rispettivi contratti con Napoli e Milan in tempo per continuare a beneficiare dei vantaggi fiscali. Inoltre vanno tenuti in considerazione i calciatori giunti in Italia quest’estate, ma i nuovi tesserati che hanno spostato la residenza dal 2 luglio godranno degli effetti del decreto solo a partire dal nuovo anno (avendo trascorso meno di metà dell’anno solare 2023 in Italia). Quindi, fatto salvo chi è stato ingaggiato tra il 30 giugno e il 1° luglio, la prima metà dello stipendio è tassata senza sgravi fiscali, mentre la seconda rientra nel perimetro delimitato dal Decreto Crescita.

A spanne, si tratterebbe di 21 milioni di euro risparmiati, oltre metà dei quali solo dalle due milanesi. Marcus Thuram, a titolo di esempio, gode appieno della norma essendo ufficialmente un calciatore dell’Inter dal 1° luglio, il che permetterebbe al club nerazzurro di risparmiare circa 3 milioni sul lordo. Stando a quanto riportato dalla Gazzetta dello Sport, lo stipendio netto dell’attaccante francese è di 6 milioni di euro: per un calciatore già residente in Italia, questo equivarrebbe ad un ingaggio lordo di circa 11 milioni, mentre nel suo caso la cifra scende a circa 8 milioni. Non una differenza abissale, ma senza il Decreto Crescita, una società chiamata a rispettare i paletti posti dal settlement agreement con la UEFA avrebbe probabilmente virato su altri obiettivi. C’è però da dire che la maggior parte dei calciatori ingaggiati sfruttando questa norma hanno stipendi meno onerosi.

L’Inter, per quanto riguarda la spesa al di fuori dei confini italiani, in estate non si è limitata al solo Thuram: Bisseck, Klaassen, Pavard e Sommer sono gli altri quattro "impatriati" dell’ultimo mercato alla corte di Simone Inzaghi. Decisamente più ampia la colonia del Milan, con Chukuweze, Loftus-Cheek, Musah, Okafor, Pulisic e Reijnders. Il resto dei nuovi arrivati non presenta ingaggi particolarmente elevati: c’è il ritorno di Lukaku in Italia, alla Roma (che ha preso anche Aouar e Ndicka), con il belga che gode dei benefici acquisiti nei suoi precedenti trascorsi italiani all’Inter, dopodiché Timothy Weah è l’unico acquisto estivo della Juventus proveniente dall’estero, il Napoli ha chiuso il mercato da Campione d’Italia con Cajuste, Lindstrom e Natan, mentre la Lazio ha investito su Castellanos, Guendouzi, Isaksen e Kamada. Gli ultimi nuovi arrivati col sigillo del Decreto Crescita, per la Serie A. A meno di sorprese in Parlamento.

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