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Il calcio è ossessionato dal divertimento
19 set 2024
19 set 2024
Riflessioni su alcune tendenze recenti.
(copertina)
Foto Imago / Eibner
(copertina) Foto Imago / Eibner
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In un pezzo pubblicato dal The Guardian, la giornalista ed editor Rebecca Nicholson scrive delle difficoltà di fruizione sperimentate dal pubblico all’ultimo festival di Glastonbury. Pochissimi eventi musicali hanno fatto registrare un incredibile affollamento, mentre il resto dei palchi è rimasto pressoché deserto. Nicholson ha utilizzato un termine sportivo, ha parlato di una “heatmap” del festival: caldissima in alcune zone ristrette; estremamente diradata altrove. Una spiegazione è che la distribuzione del pubblico, così radicalmente diversa da quella degli altri anni e fortemente polarizzata, potrebbe essere l’effetto di una più generale standardizzazione dei gusti musicali.

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Oggi la maggior parte della musica è fruita attraverso le piattaforme di streaming, che non si limitano a distribuire musica. Con un meccanismo che è ormai arcinoto, contribuiscono a formare il gusto degli utenti. Le playlist intelligenti, generate automaticamente e che non fanno altro che proporre “more of the same”, contenuti simili a quelli già ascoltati da altri utenti, spingono verso l’omologazione. Lo stesso accade con Netflix o Amazon Prime, con i social e gli aggregatori di notizie: le nostre homepage, le timeline, i “raccomandati per te” sono invasi da musica, film, libri, notizie che sono popolari in quel momento, perché fruiti da utenti che, secondo l’algoritmo, hanno gusti più o meno come i nostri. Ciascuno è in una bolla d’intrattenimento, le cui pareti si rimpiccioliscono ogni giorno di più.

Si può affermare che sta accadendo qualcosa di simile nello sport in generale, e nel calcio in particolare?

In questo determinato periodo storico, si ha l’impressione che le squadre di calcio subiscono una spinta verso un gioco standardizzato, se non nell’implementazione dei meccanismi che si vedono sul campo, quantomeno in certi principi che ormai sono largamente condivisi. Questo pezzo non vuole riaccendere un dibattito vecchio quanto il gioco, su quali siano gli elementi costitutivi del giocare bene, e se basta essere belli per vincere le partite. Vorrei invece sottolineare alcuni elementi comuni nella proposta della maggior parte delle squadre del calcio europeo oggi, per guardare alle ragioni di questa omologazione da un punto di vista laterale.

Costruzione del gioco dal basso; riaggressione dopo la perdita del possesso; il dominio del calcio posizionale, sono i punti cardinali di ogni squadra che vuole definirsi europea, moderna, offensiva, propositiva. Questa sensibilità diversa dal passato è tangibile persino nel discorso calcistico nazionale, dove fino a poco tempo fa per “tattica” si intendeva il complesso di strategie difensive; e dove “l’equilibrio”, la necessità di non esporsi troppo, era il mantra di tutti gli allenatori. Oggi in Serie A c’è una nuova ondata di allenatori giovani, tutti con le idee chiare su come vogliono far giocare le loro squadre. Idee per molti aspetti simili tra loro.

Rispetto a vent’anni fa, l’età media dei mister delle venti squadre del campionato si è abbassata di un anno e mezzo; se consideriamo solo i top team, la differenza è anche più ampia, quasi quattro anni. I giovani allenatori vogliono vincere giocando in maniera aggressiva, creando molte occasioni, accettando i rischi connaturati con un gioco offensivo. In breve: vogliono vincere divertendo.

Se qualcuno chiedesse agli allenatori perché vogliono che le proprie squadre giochino secondo determinati principi, tutti risponderebbero semplicemente che è più redditizio così: se si producono più occasioni, sul lungo periodo si vincono più partite. Nessuno ci sta a perdere, figurarsi in Italia, dove il risultato orienta la maggior parte dei discorsi dei commentatori e delle scelte degli addetti ai lavori. Ma se rivolgessimo la stessa domanda ai direttori sportivi, ai presidenti che hanno messo sotto contratto quegli allenatori, darebbero la stessa risposta? È una determinata proposta di gioco a garantire maggiori possibilità di vittoria o c’è una certa quota di marketing, di come una società vuole essere percepita dagli sponsor e dai media, nella scelta di un allenatore?

È chiaro che, nella gestione di un club, presidenti e direttori tengono in gran conto moltissimi aspetti, e tra questi gli aspetti economici hanno un peso predominante, specialmente in un periodo di scarsa liquidità come questo. Un allenatore giovane o con poca esperienza rappresenta una voce di costo con un impatto minore sui conti del suo club.

La ricerca di un manager nuovo, giovane, con poca o addirittura con nessuna esperienza, non è una fascinazione recente. Nel 2008 Pep Guardiola ha fatto il suo esordio alla guida del Barcellona e nella prima stagione ha vinto tutto ciò che c’era da vincere, diventando il più giovane allenatore a conquistare la Champions League. Il suo Barcellona – e di Iniesta, di Xavi, di Messi, di Henry, di Eto’o, fior fior di giocatori – non era solo una squadra efficace, che sapeva vincere. Era anche bella da vedere, piacevole per gli occhi. Di fatto quella squadra ha cambiato non soltanto il gioco, inteso come complesso di strategie per arrivare alla vittoria, ma proprio l’approccio di tutti, giocatori, allenatori, presidenti e tifosi, con il calcio. Nel 2003/04 e nel 2006/07, stagioni precedenti all’esordio di Guardiola sulla panchina del Barcellona, è stata registrata la media gol a partita più bassa della storia della Champions League, 2,47; nelle ultime otto stagioni, la media della massima competizione europea si è sempre aggirata intorno alle 3 reti a partita. Un calcio dove si segna di più si vende meglio. Nel 2007 la vendita dei diritti televisivi della Champions League raccolse 820 milioni di euro; due anni fa i diritti sono stati aggiudicati a una cifra vicina ai 3,5 miliardi di euro.

Tanti club d’élite, dopo l’intuizione vincente del presidente del Barça Joan Laporta, hanno provato l’azzardo dell’esordiente in panchina. In Italia, nella stagione 2009/10, la Juventus si affidò a Ciro Ferrara, appena fresco di certificazione a Coverciano, e l’amministratore delegato del Milan Adriano Galliani lanciò il 4-2-fantasia di Leonardo. Qualche anno più tardi, anche l’Inter tentò l’avventura dell’allenatore fatto in casa con Andrea Stramaccioni. Azzardi per l’appunto, fiches lanciate sul panno verde del gioco del calcio, perché il rischio valeva forse la pena di essere corso.

Oggi, più di un decennio dopo, le scelte fatte per le panchine dovrebbero essere più mature e consapevoli, ma non sempre è così. Ci siamo abituati al guardiolismo, abbiamo capito meglio, e di più, quali sono state le componenti che hanno reso l’avventura di Guardiola al Barcellona, e poi al Bayern Monaco e al Manchester City, così bella e vincente. Lo stesso allenatore catalano, per restare a lungo al vertice, ha dovuto cambiare la propria ricetta, ibridando la scuola spagnola con quella tedesca, e inserendo degli adattamenti per resistere alla freneticità tutta inglese. Guardiola fa il Guardiola: dotato con un Q.I. calcistico fuori dal normale, studia, prova, rielabora, rimedia, vince.

Chi non può permettersi le prestazioni di Pep si adegua, cercando scorciatoie. Per esempio affidandosi ai suoi accoliti, ex giocatori del mister catalano o componenti del suo staff, gente che per qualche stagione ha respirato la stessa aria, ha vissuto il calcio alla stessa maniera. Mikel Arteta è stato paracadutato sulla panchina dell’Arsenal, e alla prima esperienza assoluta come manager ha vinto una FA Cup e due Community Shield. Ora è il turno di Enzo Maresca al Chelsea e di Vincent Kompany al Bayern Monaco, proiettati alla guida di due potenze calcistiche, dopo le prime, brevi esperienze al Parma e al Leicester, per il primo; all’Anderlecht e al Burnley, per il secondo. Il curriculum non è più un buon viatico verso le panchine dei top club: oggi contano le idee e l’attitudine. Maresca e Kompany hanno fatto bene in Championship, certo, ma un tempo sarebbe bastato per garantirgli panchine di livello così alto?

Quando non c’è la disponibilità di un uomo della corte di Guardiola, si cerca quantomeno un allenatore giovane, che giochi un certo tipo di calcio. Come se l’età sia un fattore positivo in sé e la stella polare un gioco in qualche modo attraente. Il calcio oggi è un affare estremamente complesso da maneggiare, molto più di una volta, è una partita a scacchi con pedine da muovere anche quando sono finite fuori dalla scacchiera. Oltre alla pressione dai media e dal pubblico, è aumentata anche la pressione posta sugli allenatori dai calciatori stessi, il cui livello di professionalità è aumentato a dismisura rispetto agli anni passati. La carriera di un calciatore è piuttosto breve, ciascuno vuole massimizzare le proprie opportunità di vincere trofei o di firmare contratti vantaggiosi. I calciatori fanno di più e chiedono di più al manager e al club che li ha a disposizione per un tempo limitato. Come in ogni altra relazione lavorativa, anche nel calcio professionalizzato di oggi avere un capo in grado di tirar fuori il meglio dalle risorse umane è diventato un aspetto fondamentale. Di José Mourinho, di anni 61, si è detto che la parabola discendente della sua carriera è iniziata quando non è più riuscito a essere in sintonia con i calciatori più giovani, quando non è stato più capace di creare empatia nello spogliatoio (e non è un caso che lo stesso Mou, durante il periodo alla Roma, ha battuto spesso sul tasto dell’empatia da creare tra calciatori e staff tecnico). Nel suo discorso ai laureandi di Stanford nel 2005, il fondatore di Apple Steve Jobs disse: «La Morte è probabilmente la migliore invenzione della Vita. Spazza via il vecchio per fare spazio al nuovo». Meglio della morte, nel calcio funziona l’essere giovani. O meglio, l’essere nuovi.

È chiaro che l’età di per sé non basta. Certe squadre giocano bene, sono belle da vedere. Quanti, lo scorso anno, hanno visto una partita di Bundesliga per la prima volta, solo perché incuriositi dalle clip del Bayer Leverkusen di Xabi Alonso? Per certi versi, potremmo dire che le squadre che giocano un bel calcio sono fabbriche di highlights.

Il calcio deve piacere, è un requisito indispensabile. I presidenti dei top club, come Florentino Perez e, ai tempi, Andrea Agnelli, hanno più volte sottolineato di non essere in competizione tra loro, ma con Netflix, Disney+ e gli altri player sul mercato dell’intrattenimento. Questa è la parola chiave: intrattenere. Lottare per l’attenzione di un utente distratto da mille sirene.

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Nella testa dei presidenti, la panacea è l’intrattenimento a tutti i costi: un calcio veloce, offensivo, attraente per le nuove generazioni. Un calcio che crei costantemente contenuti, che sia facile da spingere attraverso i social. L’invadenza dei social è mastodontica, nello sport come nella vita di tutti i giorni. Prima le società di calcio cercavano, attraverso la vetrina dei social, di promuovere il loro modo, personale e unico, di fare sport. Oggi, con un paradigma che sembra esattamente all’opposto, si prova a fare sport nel modo più gradito a un pubblico potenziale, che può così avvicinarsi, fidelizzarsi, diventare un nuovo cliente. I grandi club hanno creato dipartimenti appositi per la generazione dei contenuti, i calciatori-attori sono filmati e intervistati tutti i giorni, perché la fornace dei social ha bisogno continuamente di combustibile. E i contenuti prodotti entrano in un circolo – virtuoso o vizioso, lascio a voi il giudizio – per il quale altri soggetti fanno la loro fortuna: molti utenti generano “contents on contents”, contenuti dai contenuti degli altri, assorbendo la propria quota di notorietà e restituendo al creatore originario un margine di visibilità ulteriore.

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Per la verità, questo è un caso di “contents on contents on contents”

L’altro aspetto dell’intrattenimento sono i videogiochi, da sempre concepiti per essere un mezzo di promozione del calcio. Il virtuale replica in tutto e per tutto il suo corrispettivo reale usando modelli 3D dei corpi degli atleti, scansioni facciali, rendering degli stadi in giro per il mondo. Le potenti console di oggi generano grafica ad alta definizione, al punto che il virtuale è adesso quasi più vero del reale. Sulle piattaforme come Dazn o Amazon Prime, accanto alle dirette delle partite di calcio dei vari campionati, compaiono i box dei tornei di EA Football trasmessi in diretta. Cioè l’intrattenimento ha fatto un salto carpiato ed è diventato sport, proprio nel momento in cui lo sport cerca di diventare intrattenimento.

E se finissimo per spingerci troppo in là, se iniziassimo a confondere i due piani? È normale pensare a un percorso che parta dalla passione per il calcio giocato e abbia nei videogiochi un punto d’arrivo. E se invece, a un certo punto, la rappresentazione superasse per interesse il suo corrispettivo reale? In fondo le piattaforme di contenuti on demand confezionano due prodotti in un modo molto simile. E se una parte sempre più consistente di pubblico iniziasse a preferire il virtuale al reale? Se fosse più veloce, più divertente, privo di tempi morti un match di EA Football, chi avrebbe più bisogno del calcio giocato? Le software house potrebbero iniziare a costruire fenomeni in proprio, inventarsi nuove squadre e stadi in cui farle giocare, senza avere bisogno di alcuna connessione con il mondo reale. Sembra fantascienza, ma è già successo: nel 2015, Internet è stato invaso dal racconto dei successi sportivi di Ivica Strok, un regen comparso in una partita di Football Manager di un videogiocatore inglese. Insomma, lo sport che diventa intrattenimento, in fondo, è ancora da considerarsi sport?

Per nostra fortuna, l’intrattenimento perfetto, se esiste, non può essere al 100% appagante, lo ha scritto David Foster Wallace in Infinite Jest (Fandango, 2000): «Era tecnicamente splendido, il Lavoro, si vedeva che le luci e le angolazioni erano studiate prima delle inquadrature. Ma era stranamente vuoto, senza un senso di avvicinamento drammatico – non c’era un movimento narrativo verso una vera storia; non c’era un movimento emotivo verso il pubblico». Il più realistico dei videogiochi non può appassionare quanto la realtà. Però social e esports saranno sempre più ingombranti per le società di calcio, che presto non potranno più farne a meno. Secondo il Report Calcio 2024, appena pubblicato dalla Figc, il valore prodotto sui social dalle squadre di Serie A nel 2022 è stato di 116 milioni di euro, un +122% rispetto a due anni prima, ed è destinato a crescere. I ricavi da esports nello stesso anno ammontano a 20 milioni di euro e si prevede che nel 2027 supereranno i 42 milioni.

Il Report Calcio 2024 sottolinea anche come sta cambiando la fruizione del calcio, soprattutto tra i ragazzi della Gen Z. Il 69% del pubblico giovane non guarda eventi sportivi in diretta. Preferisce consumare gli highlights, quando può, preferibilmente dallo smartphone. E il 77% tra loro non va allo stadio. Alcune società stanno già lavorando per provare a sopravvivere al cambiamento. Il Fortuna Düsseldorf ha aperto lo stadio a tutti, gratis, in tre occasioni durante la scorsa stagione. Grazie a questa iniziativa, oggi la squadra tedesca vede aumentare gli abbonamenti sottoscritti in ogni settore, così come sono incrementate le vendite di magliette e prodotti ufficiali.

Iniziative del genere basteranno a garantire al calcio un pubblico domani? Se sta cambiando la fruizione dello sport, dal vivo come in tv, presto o tardi qualcuno nelle stanze dei bottoni penserà di modificare lo sport e le sue regole, per andare incontro ai gusti del nuovo pubblico. Speriamo solo che lo cambino in meglio.

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