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Allenare la complessità
02 set 2021
Una panoramica dei nuovi approcci metodologici all'allenamento.
(articolo)
26 min
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«Nel calcio di oggi si lavora poco sulla tecnica e troppo sulla tattica, bisogna tornare alle basi». Quante volte ci siamo imbattuti in queste parole? Al bar con gli amici, negli studi televisivi, sui quotidiani, è una delle frasi fatte che risuonano più spesso quando si vuole sostenere il declino del talento nel nostro Paese, ma anche quando si vuole dare una spiegazione semplice all’egemonia delle grandi squadre straniere.

Quando non è “una questione di condizione atletica”, la tecnica viene invocata come espressione più pura del pragmatismo, come ancora di salvezza in questa tempesta di correnti moderne che ci starebbero mandando alla deriva con le loro sovrastrutture tattiche e ramificazioni superflue della materia. Ma cosa intendiamo esattamente per “tecnica”?

Anche solo stando al senso etimologico del termine (saper fare) sembra assurdo trovare qualcosa di illuminante in «non si può trascurare la tecnica». Proviamo a tradurlo: «È importante saper fare bene le cose». Non suona ovvio, ai limiti del ridicolo? “Saper fare” presuppone che ci sia qualcosa da fare. Da cosa è determinato questo qualcosa, se non dallo scopo?

Queste parole nascono spesso da un modo schematizzato – e superato – di intendere il gesto all’interno del gioco: una componente a sé, estranea alle scelte e alle situazioni, che può essere affinata a priori, per poi venire “montata” in qualsiasi contesto. Del resto, non sembra esserci troppa chiarezza neanche sul concetto di “tattica”, a volte utilizzato come sinonimo di strategia, altre come connotato positivo – “nel campionato italiano le partite sono più tattiche” – altre ancora negativo, come nell’esempio all’inizio. Potremmo dire, piuttosto, che la tattica è un insieme di scelte, individuali e collettive. Tecnica e tattica del calcio sono interdipendenti: un calciatore deve saper eseguire una scelta all’interno di un contesto di scelte.


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«Il problema nel calcio è che si impara a giocare nel modo sbagliato, al contrario: prima l’esecuzione, poi la scelta e solo per ultima la percezione».


Raymond Verheijen, preparatore atletico e metodologo olandese, offre questa interpretazione del gesto tecnico: «Nella ginnastica la tecnica è l’esecuzione di una tecnica, nel calcio la tecnica è l’esecuzione di una decisione». Nella ginnastica, l’esecuzione tecnica è l’obiettivo stesso dello sport; il ginnasta riceve una valutazione in base alla sua ricerca della riproduzione del gesto tecnico ideale. Nel calcio, però, la tecnica è l’esecuzione di un gesto finalizzato a uno scopo, che ha luogo attraverso uno scambio di informazioni con compagni, avversari, ambiente. Bisogna anche tenere presente che nel calcio la stessa identica situazione non si presenterà mai due volte: un passaggio nello spazio non è lo stesso gesto di uno sulla figura, ma neanche due passaggi sulla figura tra gli stessi due giocatori avranno la stessa identica organizzazione motoria. Dribblare per progredire verso l’interno del campo o per tirare, saltare per anticipare un attaccante o per fare una sponda: nel calcio, la tecnica è solo il mezzo per operare una scelta, per raggiungere uno scopo, all’interno di un contesto intrinsecamente caotico.

La scuola di pensiero tradizionale non ritiene possibile allenare al meglio l’esecuzione senza scorporarla dal contesto e, più precisamente, che sia necessario seguire una progressione lineare standardizzata (dal “semplice” al “difficile”) ricercando una ideale precisione della gestualità prima di andare a inserirla in una dimensione di gioco: se vi è la necessità di migliorare la precisione di un gesto bisogna costruire un allenamento che lasci l’atto in “purezza”, spogliandolo delle influenze del contesto, o comunque eseguirlo entro certi canoni all’interno di un contesto specifico. Ma ha davvero senso allenare il gesto tecnico partendo dalla ricerca di una forma identificata come “riproduzione ideale”, e per di più decontestualizzandola, se nel calcio non esisterà mai una situazione identica a un’altra, e se l’esecuzione tecnica non è l’obiettivo finale, ma uno strumento?

C’è una citazione di Cruijff che è sempre di moda: «Giocare a calcio è semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che esista».

Dentro questa frase, curiosamente utilizzata come slogan sia dai sostenitori della «supremazia della tecnica sulla tattica» che dai presunti oppositori, si nasconde un argomento finora poco esplorato: la concordanza tra l’accettazione della complessità del gioco e l’accettazione della naturalità e dell’importanza del gesto. Le due cose vengono spesso messe in contrapposizione, soprattutto da chi afferma che il calcio è semplice perché «se si ha la tecnica si può fare tutto» (leggere: «il calcio è semplice, basta saper fare le cose»). In realtà, l’importanza della qualità dell’interpretazione delle situazioni, e quindi dell’esecuzione tecnica, può benissimo essere riconosciuta anche se si concepisce armonicamente il Calcio come fenomeno complesso.

Vivere e giocare nella complessità

Complesso deriva dal latino cum plexum, cioè con nodi o intrecciato, ma viene anche assimilato al verbo complector, che ha molteplici significati inclusivi: abbracciare, circondare, avvolgere, legarsi, intrecciare, associare e così via. Un concetto, insomma, ben diverso dal significato che comunemente gli si attribuisce. Complesso viene spesso utilizzato in contrapposizione a semplice, cioè con la funzione di complicato, la cui etimologia latina è invece cum plicum, cioè con pieghe. Una cosa complicata è una cosa che necessita di una “spiegazione”, di una scomposizione, per essere compresa. Una cosa complessa, invece, è una cosa composta da diversi elementi intrecciati tra loro attraverso delle relazioni. Un sistema complesso è un sistema dinamico che interagisce con l’ambiente, essendone parte integrante, adattandosi e cambiando attraverso l’esperienza.

Il grado di complessità di un sistema è dato dalla varietà e dalla quantità di relazioni tra gli elementi al suo interno. Una condizione necessaria affinché un sistema possa essere definito “complesso” è che queste relazioni siano di natura non lineare. Un sistema complesso, quindi, è incomprensibile se lo si vuole analizzare prendendo singolarmente le parti che lo compongono e senza considerare il valore delle relazioni. Sulla complessità è nato un intero ramo epistemologico, di cui il filosofo Edgar Morin è uno dei massimi pensatori. Morin sostiene, tra le altre cose, che «Nei sistemi complessi l’imprevedibilità e il paradosso sono sempre presenti ed alcune cose rimarranno sconosciute».

Possiamo intendere che il Calcio e tutte le sue componenti, dal singolo calciatore al gruppo squadra, dall’allenatore e il suo staff al gruppo dirigenziale, le società nella loro globalità, la partita stessa, siano sistemi dinamici complessi?

Non esistono elementi per dire di no: il Calcio è un sistema complesso innanzitutto perché è l’essere umano stesso, in quanto organismo, a essere un sistema complesso, così come gran parte delle attività e cose che lo riguardano. Il gioco del Calcio è complesso perché è un’integrazione di più elementi, connessi tra loro, che si influenzano reciprocamente attraverso le loro stesse relazioni, e che interagiscono con l’ambiente di cui fanno parte, modificandolo e modificandosi. È il valore delle interazioni-relazioni che ci permette di dire che «il tutto è maggiore della somma delle parti». Una differenza enorme rispetto a un «sistema complicato», come per esempio una calcolatrice o un treno, in cui le singole parti che lo compongono si limitano a operare in maniera distinta all’interno di un assemblamento puramente meccanico. Acquisire questa visione porta con sé un problema: per comprendere un sistema complicato lo si può scomporre, mentre per un sistema complesso questo non è possibile, perché esso ha delle proprietà di sistema che non sono comprensibili se osserviamo separatamente i singoli elementi che lo compongono. Il tutto è maggiore delle singole parti e diverso da esse.

Detto questo, viene spontaneo mettere in discussione l’approccio riduzionistico su cui si è basato l’allenamento sportivo (e dunque calcistico) per decenni: secondo la tradizione, la prestazione è il risultato della somma delle singole capacità, che vanno allenate separatamente e poi combinate. Insomma, il sistema giocatore e il sistema squadra vengono scomposti e poi rimontati alla ricerca del miglioramento supremo. Come se fossero sistemi complicati e non complessi.

Alla luce di questa consapevolezza, nell’allenamento bisognerebbe piuttosto stimolare le varie capacità dell’individuo all’interno della complessità, aiutandolo a trovare i mezzi per viverla dal suo interno, secondo delle risposte di adattamento uniche che ogni singolo soggetto trova autonomamente. Accettare la complessità significa anche accettare l’unicità di ogni individuo. Ma come si fa ad apprendere, trasferire concetti, migliorare dentro la complessità?

Per avere un’idea di come l’umano possa trovare risposte e agire nella complessità, ci vengono in soccorso gli studi delle neuroscienze, e in particolar modo la scoperta dei neuroni specchio. Contrariamente a quanto il nome possa suggerire, i neuroni specchio non servono a “riflettere” i movimenti esterni, ma legano un’azione motoria al suo scopo, ne riconoscono, cioè, la ragione. I neuroni specchio si attivano in presenza di un atto motorio finalizzato, regolando il movimento in base allo scopo per cui quel gesto motorio viene richiesto. I nostri neuroni specchio si attivano in maniera pressoché identica sia se svolgiamo un movimento finalizzato in prima persona, sia se lo stiamo immaginando, sia se lo stiamo vedendo prodotto da un’altra persona. È grazie a ciò che il nostro cervello può comprendere le intenzioni e le emozioni di un altro.

Il cervello sonda e codifica lo spazio circostante in base alla nostra possibilità di azione al suo interno, e vi sono livelli differenti di consapevolezza dell’atto motorio in base alla pressione temporale a cui il sistema è sottoposto. Se mentre sto apparecchiando la tavola colpisco accidentalmente una bottiglia di vetro con un braccio e questa si proietta verso il pavimento, ma riesco di scatto ad afferrarla prima che si rompa, potrei credere di aver percepito consciamente il pericolo e aver agito per evitarlo. In realtà, grazie agli studi di Benjamin Libet, sappiamo che tra l’azione che segue lo stimolo e la “realizzazione” consapevole di ciò che accade c’è un ritardo medio di 350ms. Il corpo può agire prima che il cervello capisca. Agiamo perché percepiamo, mentre percepiamo e agiamo. In questi casi non siamo consapevoli, la consapevolezza arriva dopo.

Le neuroscienze ci dicono dunque che l’organizzazione del movimento è sempre legata allo scopo del movimento e che la consapevolezza in determinati casi arriva persino dopo l’esecuzione motoria. Una partita di calcio è composta da una miriade scelte eseguite in pochissimi istanti, ognuna delle quali cambia la dinamica degli eventi. Se anche buona parte delle azioni che compiamo su un campo da calcio sono sottoposte a questi processi di scelta inconscia (pensiamo in particolar modo a quelle in prossimità del pallone, dove la compressione temporale è più alta), ha ancora senso, in quelle situazioni, parlare di calciatori “pensanti”? Ha senso l’idea di un giocatore che pesca coscientemente dal mazzo delle sue abilità preconfezionate quella giusta per l’azione che sta per eseguire?

Se una partita è complessa, e dunque gli scenari di gioco non sono prevedibili e riproducibili a livello microscopico, per un calciatore il modo migliore per abituarsi ad agire in maniera efficace all’interno della complessità è quello di sperimentarla il più possibile, di farne esperienza.

Intervenire sull’ambiente per migliorare i giocatori

Ogni scelta deriva dalla percezione e dall’esperienza, e dunque dalla relazione con l’ambiente circostante. Tra i tanti lavori, vi sono due capisaldi che ci permettono di prendere atto dell’influenza dell’ambiente nello sviluppo umano.

Urie Bronfenbrenner, nel 1979, ha pubblicato L’ecologia dello sviluppo umano presentando la sua Teoria Ecologica, con cui mirava a studiare l’influenza del contesto sullo sviluppo dei bambini. Bronfenbrenner ha individuato l’esistenza di quattro sistemi (più uno aggiunto successivamente) interconnessi tra loro, in ciascuno dei quali inseriva famiglia, contesto sociale, momento storico, e così via. Relazionandoci con questi ecosistemi, noi umani modifichiamo costantemente il nostro modo di essere. Discipline come la psicologia o la sociologia non hanno potuto ignorare la teoria ecologica, e così nelle varie branche dell’apprendimento si iniziò a considerare essenziale indagare gli effetti dell’ambiente (e delle sue modifiche) nell’apprendimento.

I cinque sistemi ecologici di Bronfenbrenner (Fonte Wikipedia)

Nello stesso anno James Gibson, nel suo Un approccio ecologico alla percezione visiva, utilizzò la definizione “affordances”, grossolanamente traducibile in “offerte”, in riferimento alle “relazioni funzionali che si formano tra l’atleta e l’ambiente circostante”. Questo concetto fa luce sul rapporto tra l’atleta e le possibilità di movimento/gioco nello spazio di azione. Gibson dice: «Poiché un’affordance è una proprietà di relazione tra atleta ed ambiente, possiede sia caratteristiche oggettive che soggettive». Le affordances, dunque, sono “inviti ad agire offerti dal contesto”. Anche il pallone stesso, in quanto oggetto di interazione, ha delle affordances. Ma due giocatori possono avere, all’interno del medesimo ambiente, delle affordances differenti: basti pensare, per esempio, a Lionel Messi che vede il modo di passare in uno spazio strettissimo fra tre giocatori o ai passaggi illuminati di Pirlo o alle scivolate perfette di Nesta. Tipicamente si riconducono a questi gesti dei valori puramente fisici tangibili o riconoscibili, come la “sensibilità del piede” o l’agilità, a volte si tirano in ballo il tempismo o la visione. Tutti elementi probabilmente che si può includere nel risultato finale, che però ha radici più profonde, nella relazione tra giocatore e ambiente.


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L’interazione tra organismo, ambiente e scopo, per avere come risultato una performance fisica, attraversa un processo di percezione e azione non lineare, non sequenziale. (immagine da Davies, K., Glazier, P., Araujo, D. & Bartlett, R. (2003). Movement systems as dynamical systems: the functional role of variability and its implications of sports medicine. Sports Medicine 33(4). Pp: 245-260.) .


Secondo l’approccio riduzionista, per ricercare un dato risultato occorre allenare, e quindi concepire, separatamente tutti quegli elementi. Secondo un approccio sistemico ed ecologico, invece, bisogna cercare di modulare la complessità a seconda delle necessità e lavorare sulle relazioni, con l’ambiente e con gli stimoli.

Per migliorare la capacità di un giocatore di agire e percepire all’interno del contesto di gioco è quindi necessario creare ambienti che possano favorire comportamenti, situazioni, scelte che potrebbero avvenire in partita. Più precisamente, bisognerebbe allenare il processo di scelta per generare risposte di auto organizzazione e interpretazione, con lo scopo di affinare l’intelligenza collettiva attraverso i principi di gioco. All’interno di questi ambienti, poiché i giocatori e le squadre sono sistemi complessi, si verificano i cosiddetti “comportamenti emergenti”, che sono una delle proprietà fondamentali del sistema complesso. Si tratta di comportamenti non previsti che generano interpretazioni peculiari di una data situazione. La loro lettura è fondamentale: può consentire all’allenatore di prendere consapevolezza dell’originalità di ogni giocatore e delle dinamiche relazionali, e di misurare con quale grado questa libertà espressiva possa integrarsi all’interno del sistema squadra per raggiungere l’efficienza desiderata, ma possono (o dovrebbero) anche contribuire a sviluppare il modello di gioco.

Per sbloccare nuovi gradi di libertà motoria, e dunque nuove soluzioni efficaci, non si può però prescindere da un uso sapiente dei vincoli. Di fronte a una situazione di completa libertà il giocatore rischia di accomodarsi su quello che gli è più congeniale, auto-limitando le proprie possibilità. Se le sue possibilità di comportamento vengono incanalate dai vincoli, l’individuo è costretto a trovare nuove soluzioni e percepire nuove affordances che prima non considerava. Quando poi il contesto tornerà libero si ritroverà quelle nuove abilità. Variando l’ambiente si variano le possibilità. Ed è qui che l’accettazione della complessità deve trovare la sua traduzione pratica. Gli studi del prof. Wolfgang Schöllhorn tra la fine degli anni 90 e l’inizio dei 2000 andarono proprio in questa direzione.

L’incompatibilità dell’approccio tradizionale con la complessità, e le rivoluzioni metodologiche

Dallo studio del sistema dei neuroni specchio, sappiamo l’apprendimento all’interno di un ambiente avviene in due modi: per imitazione o per errori. Per imprimere un cambiamento nel nostro sistema occorre dunque sperimentare la ripetizione. Ma se nessuna situazione è identica a un’altra, che senso può avere la ripetizione? Proprio quella di ricercare l’errore, di provocare l’instabilità. La discriminante è nel modo in cui la ripetizione viene intesa.

Nell’approccio tradizionale, la ripetizione è il mezzo chiave dell’allenamento. Si ripete uno schema motorio o un comportamento collettivo finché l’allenatore non è soddisfatto, ricercando una riduzione, un annullamento degli errori. Insomma, si pensa che per migliorare le qualità finali l’unico modo sia quello di riprodurre alla perfezione le attività richieste. È lecito chiedersi se così facendo si aiuti davvero il giocatore a gestire l’imprevisto e la complessità del contesto gara, oppure se lo si alleni solo a compiere alla “perfezione” quel determinato gesto entro certi limiti.

I gesti motori di un calciatore, in quanto esso sistema dinamico complesso, sono soggetti all’effetto farfalla: variazioni minime nelle condizioni di riproduzione del gesto possono produrre un risultato completamente diverso da un’esecuzione all’altra. Attraverso l’esperienza dell’errore, il giocatore può arrivare a ridurre queste fluttuazioni, o meglio, a riuscire ad ottenere il risultato desiderato nonostante le fluttuazioni, il più spesso possibile. Ma ricercare un gesto “ideale” attraverso una ripetizione che non tiene conto dell’instabilità, può essere nocivo.

Il primo a mettere in dubbio l’allenamento basato sulla ripetizione del gesto fu Nicolai Bernstein, più di 60 anni fa.

Tutti questi concetti sono stati elaborati da Wolfgang Schöllhorn nello sviluppo del Differential Learning (DL), un metodo di allenamento il cui principio base è favorire la “ripetizione senza ripetizione” già indagata da Bernstein. Il criterio è quello di non ricercare il miglioramento attraverso la ripetizione della stessa soluzione a un problema motorio, ma di riprodurre il processo di ricerca della soluzione aumentando l’instabilità di partenza attraverso ciò che viene chiamato rumore, così da raggiungere un livello superiore.

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Thomas Tuchel ha incontrato Schöllhorn nel 2009, mentre cercava un modo di migliorare le prestazioni di velocità dei suoi giocatori, e da lui è stato introdotto all’apprendimento differenziale, da lì in poi utilizzandolo regolarmente nelle sue esperienze. Attraverso la manipolazione degli spazi di azione (la forma del campo), degli obiettivi o altri vincoli – giocare con una pallina da tennis in mano, con un pallone di taglia 1, trasmettere in delle mini porte poste in posizioni strategiche, ecc. – Tuchel ha l’obiettivo di sviluppare l’interpretazione dei suoi giocatori.

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In questa intervista Tuchel racconta di come sia passato dall’utilizzare cicli di allenamento che prevedevano un alto numero di ripetizioni della stessa cosa “perché ci avevano insegnato così” ad allenare i giocatori in circostanze che contengono un numero ancora più alto di ripetizioni ma di cose differenti, in contesti complessi.

Risulta evidente la contrapposizione con l’approccio classico, che cerca di eliminare l’errore nelle ripetizioni, mentre il DL punta a lavorare sul processo di ricerca della soluzione creando instabilità al giocatore. Imparare attraverso le differenze.


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Da “The Nonlinear Nature of Learning – A Differential Learning Approach” (W. I. Schöllhorn, P. Hegen, K. Davids). Per ogni ripetizione vi è un grado di differenza. Mentre l’approccio classico punta a eliminarla, il DL punta a incrementarle.


Gli studi di Schöllhorn si fanno strada velocemente anche negli ambienti in cui la metodologia tradizionale è stata messa in discussione dalla seconda metà degli anni 90. In questa intervista, oltre a spiegare le origini e le logiche del DL, Schöllhorn parla dei suoi incontri e confronti con altri studiosi, delle sue interazioni con esponenti della scuola portoghese come Diogo Coutinho, ma anche del suo rapporto con Paco Seirul-lo, preparatore e metodologo del Barcellona, inventore del Metodo Strutturato e della teoria degli Spazi di Fase. Anche alla base delle teorie di Seirul-lo c’è l’accettazione della complessità, della variabilità e della non linearità. Seirul-lo mette al centro di tutto l’individualità del giocatore partendo dalla sua correlazione con l’ambiente, e cercando il modo di allenare senza scindere le strutture complesse che lo formano (condizionale, socio-affettiva, coordinativa, ecc.).

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Un esempio degli spazi di relazione dinamici teorizzati da Seirul-lo. In base alla distanza dal centro (la posizione del pallone) si formano le zone di intervento, di aiuto reciproco e infine di cooperazione. Il grado di relazione con il centro del gioco, e dunque di percezione e consapevolezza, è differente in base allo spazio di fase.


Il metodo di Seirul-lo punta in particolare sulla sfera emotiva, e fa in modo che le risoluzioni dei problemi di gioco abbiano un valore emozionalmente significativo per il calciatore, favorendo così un imprinting più profondo delle opportunità di gioco. Dagli scambi con Schöllhorn sembra che entrambi abbiano tratto nuovi elementi e integrato i rispettivi studi.

Insomma, al di là delle differenze sostanziali, alla base delle principali rivoluzioni metodologiche del calcio contemporaneo c’è l’accettazione della complessità e la ridiscussione profonda dei canoni dell’apprendimento, sulla base di conoscenze interdisciplinari.

Allenare con un approccio sistemico ed ecologico: un esempio pratico

Tutte queste evidenze scientifiche stanno portando sempre più allenatori e preparatori italiani, dai settori giovanili alle prime squadre, dal dilettantismo al professionismo, a mettere quantomeno in discussione decenni di convinzioni profondamente radicate sull’apprendimento motorio sportivo. Le soste forzate dalla pandemia sono state un’occasione di incontro e scambio, con i soliti mezzi di contatto in remoto, e hanno arricchito la rete di contenuti che accendono i confronti e, contemporaneamente, dimostrano come vi sia in Italia una voglia forte di andare oltre le spiegazioni convenzionali sul miglioramento della prestazione, di indagare nuove strade, di condividere e confrontarsi anche con una certa interdisciplinarità. Anche questo potremmo definirlo come comportamento emergente, dal basso, un’auto-organizzazione che risponde all’instabilità del momento. Argomenti che sono stati affrontati e approfonditi anche da professionisti con una lunga carriera ad alti livelli come Filippo Galli o Domenico Gualtieri.

Qualche esempio di conversione pratica di queste conoscenze possiamo trovarlo sul canale YouTube dell’allenatore della Primavera del Perugia, Alessandro Vittorio Formisano. Il Perugia U19 è allenato con un approccio sistemico, ecologico e differenziale abbastanza radicale.

Tre esempi di allenamento in tre spazi di consapevolezza differenti: dal subconscio, alla percezione, all’intelligenza collettiva di squadra.

In questi allenamenti possiamo ritrovare tutti gli elementi di cui abbiamo parlato: la ripetizione senza ripetizione, l’interpretazione libera all’interno di un contesto funzionale, il ruolo del subconscio nell’apprendimento e la non linearità.


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I due allenamenti del Perugia U19 prima della partita contro la Fermana del 20/03. Elementi di differential attraverso vincoli e modifica degli spazi, ma soprattutto non linearità: gli esercizi non sono infatti sequenziali, ma vengono svolti in ordine sparso, talvolta anche tornando sul precedente, a seconda di quanto emerge. Persino i calciatori vengono a volte coinvolti nella scelta dell’esercizio successivo.

Il ruolo dell’allenatore o del formatore in questa metodologia è quello di costruire un ambiente di lavoro funzionale ai principi o ai sotto principi che vuole sviluppare, osservando i comportamenti emergenti e valutandone l’utilità, e adeguando la propria proposta e il modello di gioco alla risposta auto-organizzativa del giocatore, per accelerarne l’esperienza.

Le correzioni dell’allenatore devono, per questo motivo, essere dosate, dando priorità al comportamento emergente e alla libera interpretazione delle situazioni, per poi intervenire in primo luogo sul principio di gioco, e in secondo sulla gestualità. Esempio: in un esercizio che mira a sviluppare la diagonalità dei passaggi si pone prima l’attenzione alle risposte emergenti (come reagiscono i giocatori ai vincoli imposti), poi alla funzionalità delle stesse (la diagonalità si presenta?) e in ultimo all’esecuzione tecnica (la postura del corpo in fase di passaggio e ricezione è funzionale alla scelta?), per poi intervenire con eventuali esercizi di “rinforzo” sulla specifica tecnica, ma togliendo il meno possibile alla complessità. Secondo una progressione tradizionale, invece, si partirebbe dalla (o si tornerebbe alla) tecnica di passaggio o smarcamento in un esercizio analitico (senza avversari/direzione/principi di gioco) per poi andare in contesto globale cercando di applicare quanto appreso con l’aumento della difficoltà dato dalla presenza di avversari e obiettivi di gioco.


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Tre esempi di attività “di rinforzo” extra-seduta. Si lavora sulle specifiche necessità mantenendo tutti i presupposti base della complessità del gioco (compagni, avversari, direzionalità, obiettivo, principi).


Il ruolo dell’allenatore o del formatore in questa metodologia è quello di costruire un ambiente di lavoro funzionale ai principi o ai sotto principi che vuole sviluppare, osservando i comportamenti emergenti e valutandone l’utilità, e adeguando la propria proposta e il modello di gioco alla risposta auto-organizzativa del giocatore, per accelerarne l’esperienza.

Le correzioni dell’allenatore devono, per questo motivo, essere dosate, dando priorità al comportamento emergente e alla libera interpretazione delle situazioni, per poi intervenire in primo luogo sul principio di gioco, e in secondo sulla gestualità. Esempio: in un esercizio che mira a sviluppare la diagonalità dei passaggi si pone prima l’attenzione alle risposte emergenti (come reagiscono i giocatori ai vincoli imposti), poi alla funzionalità delle stesse (la diagonalità si presenta?) e in ultimo all’esecuzione tecnica (la postura del corpo in fase di passaggio e ricezione è funzionale alla scelta?), per poi intervenire con eventuali esercizi di “rinforzo” sulla specifica tecnica, ma togliendo il meno possibile alla complessità. Secondo una progressione tradizionale, invece, si partirebbe dalla (o si tornerebbe alla) tecnica di passaggio o smarcamento in un esercizio analitico (senza avversari/direzione/principi di gioco) per poi andare in contesto globale cercando di applicare quanto appreso con l’aumento della difficoltà dato dalla presenza di avversari e obiettivi di gioco.

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Tre esempi di attività “di rinforzo” extra-seduta. Si lavora sulle specifiche necessità mantenendo tutti i presupposti base della complessità del gioco (compagni, avversari, direzionalità, obiettivo, principi).


L’esempio del Perugia U19 è solo uno degli approcci possibili, tenendo conto di tutto ciò che è emerso dalle conoscenze scientifiche contemporanee. Come sempre, nel calcio non esiste ancora la soluzione definitiva a ogni problema, e proprio per questa ragione iniziare ad accettare la complessità del gioco a ogni livello può essere il punto di partenza per rendere l’esperienza di allenamento più canalizzata verso le reali esigenze del gioco stesso. Per arrivare a una consapevolezza più concreta serve anche affrontare i problemi da nuovi angoli di visione, appoggiandosi a conoscenze multidisciplinari e attraverso il confronto costante anche con punti di vista opposti.

Filtrare le conoscenze scientifiche per portare in campo contenuti utili e che aiutino il giocatore e la squadra a essere pronti a rispondere alla mutevolezza del contesto gara. Un’esigenza esistente da sempre, dalle prime categorie dei settori giovanili alle migliori squadre di Champions League. Più si alza il livello della competizione più queste necessità diventano evidenti, però è anche nella formazione dei giovani calciatori che un cambio di paradigma sembra urgente, non solo per regalarci generazioni a venire più ricche di talento. Un approccio differente rispetto alla rigidità dell’allenamento classicamente inteso, e quindi più incentrato sull’aspetto ludico e sull’emozione, potrebbe essere utile a far ritrovare al calcio un po’ di quell’attrattiva che ultimamente sembra scarseggiare tra i giovanissimi, ormai alle prese con un mondo ultra-stimolante che ne ha ridotto la soglia di attenzione e la curiosità verso un universo che gli è sempre meno accessibile, per varie ragioni sociali, economiche, politiche.

È solo attraverso un pensiero complesso che si può operare nella complessità senza complicarla. Il punto di partenza sta nel capire quanto siano determinanti le relazioni e quanto sia effimero il concetto di proprietà (intesa come qualità) individuale all’interno di un ambiente di relazioni. Nel suo libro Helgoland, il fisico Carlo Rovelli ha trattato l’evoluzione della teoria dei quanti e, in particolare, dei risvolti della sua interpretazione relazionale nel nostro modo di considerare la realtà. Forse il modo migliore di chiudere questo breve (e superficiale) sguardo sulla complessità e sulle relazioni è proprio con le sue parole: «Pensiamo il mondo in termini di oggetti, cose, entità […]. Questi oggetti non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, non fanno che agire uno sull’altro. È a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non agli oggetti isolati. Un gatto ascolta il ticchettio dell’orologio; un ragazzo lancia un sasso; il sasso sposta l’aria dove vola, colpisce un altro sasso e lo muove, preme sul terreno dove si posa; un albero assorbe energia dai raggi del sole, produce l’ossigeno che respirano gli abitanti del paese mentre osservano le stelle e le stelle corrono nella galassia trascinate dalla gravità di altre stelle. Il mondo che osserviamo è un continuo interagire. È una fitta rete di interazioni. Gli oggetti sono caratterizzati dal modo in cui interagiscono. Se ci fosse un oggetto che non ha interazioni, non influenza nulla, non agisce su nulla, non emette luce, non attira, non respinge, non si fa toccare, non profuma… sarebbe come non ci fosse. […] Il mondo che conosciamo, che ci riguarda, ci interessa, ciò che chiamiamo «realtà», è la vasta rete di entità in interazione, che si manifestano l’una all’altra interagendo, e della quale facciamo parte. È di questa rete che ci stiamo occupando».

Ringrazio Alessandro Formisano per la condivisione dei contenuti e il confronto, ed Emanuele Tedoldi per gli approfondimenti e i riferimenti scientifici.

Alcuni link, fonti e studi per approfondire:

The coordination and regulation of movements – Bernstein (1967).

The Nonlinear Nature of Learning-A Differential Learning Approach – Schöllhorn, Hegen, Davids. (2012)

Effects of complex movements on the brain as a result of increased decision-making – Schöllhorn, Horst (2019)

Sport Practitioners as Sport Ecology Designers: How Ecological Dynamics Has Progressively Changed Perceptions of Skill “Acquisition” in the Sporting Habitat – Woods, McKeown, Rothwell, Duarte Araújo, Robertson, Davids (2020)

Dynamic patterns: the self-organization of brain and behavior – Kelso (1995)

Ordine e disordine: comportamento collettivo in biologia

La non linearità dell’apprendimento nel gioco del calcio

Calcio Neuroscienze e Complessità e Allenare il giocatore scegliente – Claudio Albertini.

Allenare le affordances, Il fenomeno del Choking, Esistono più modi di ballare il Valzer che di sprintare – Alberto Pasini

Differential learning e Riflessioni sull’apprendimento differenziale

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