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Il dibattito sulle regole nel calcio femminile
10 ago 2023
Perché ancora oggi si parla di adattare il regolamento per le donne?
(articolo)
30 min
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IMAGO / Sports Press Photo
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Ciclicamente nel calcio femminile riaffiora nel dibattito pubblico un tema capace di accendere gli animi: c’è bisogno di regole diverse per le calciatrici, o va bene continuare a giocare così, cioè con le stesse regole dei maschi? Una questione che c'era già quattro anni fa, durante i Mondiali di Francia, e che c'è ancora oggi che si stanno giocando quelli di Australia e Nuova Zelanda; fa parte della storia del calcio femminile e probabilmente dovremo farci i conti ancora a lungo, anche perché va a toccare in molti paesi - Italia in testa - il nervo scoperto del pregiudizio di genere, quello per il quale «il calcio non è sport per signorine»: quindi, volessero giocare, lo facessero con regole “da signorine”, appunto, non da veri uomini. Ciò detto, c’è da scavare un po’ meglio, visto che soprattutto negli ultimi anni, con l’affermazione globale sportiva, mediatica e di conseguenza anche economica del calcio femminile, in questo dibattito si sono introdotti nuovi elementi che hanno cambiato parzialmente i connotati classici della discussione. Soprattutto, rispetto alle origini, sono cambiati gli attori, o meglio le attrici, giacché ora se per molte donne resta un argomento tabù, offensivo per principio, per altre un cambiamento delle regole non sarebbe una cosa negativa.

Regole del calcio femminile, for dummies

Nel 2016 l’inviata delle Iene Nadia Toffa intervistava nello spogliatoio del PSG l’allora azzurra Sara Gama, sottoponendola ad una serie di domande for dummies sul calcio femminile. Alcune riguardavano proprio il regolamento: «Ma il campo da calcio è grande come quello degli uomini o è più piccolino?» «Il campo è uguale» «La porta anche, non è più piccola...?» «Tutto uguale». Allargando il campo ed entrando in quello attiguo dell’abbigliamento, Toffa controllava i parastinchi di Gama, sincerandosi che fossero identici a quelli maschili, per poi chiedere: «Ci sarà però un... “paratette”?» «Assolutamente no, non esiste».

Una Valentina Giacinti in mezzo ad un campo di patate, fra le chicche del resto del video.

Le domande sul regolamento non sono così scontate, soprattutto qualora provengano da chi conosca bene altre discipline sportive che prevedono varianti per la versione femminile. Si pensi al basket, con la sua palla leggermente più piccola (72,4 cm di circonferenza e 23 cm di diametro anziché 78 e 25), o alla pallavolo, con la rete abbassata da 2,43 m a 2,24 m, e riportata a 2,30 m in caso di partite miste. La pallacanestro, inoltre, si porta dietro il fantasma dello sport parallelo femminile, quel netball abbastanza sconosciuto nel nostro paese ma diffuso in quelli con un passato coloniale inglese (una coppia poi realizzatasi appieno anche da noi con il baseball e il softball). Tutto ciò per rimanere nel campo dei giochi di squadra con palla e senza entrare in quello dell’atletica leggera, dove ad esempio troviamo la differenza di altezza degli ostacoli e delle siepi, quella di peso degli attrezzi per i lanci. O, ancora, l’eptathlon al posto del decathlon: un set di differenze di genere tutto sommato ridotto, soprattutto se pensiamo al passato e alla lunga lotta che le atlete hanno dovuto compiere, dagli 800m alla maratona, per avere accesso a gare identiche a quelle dei colleghi.

«Il calcio dei maschi no! ma il calcio femminile, sì!»

Se oggi le calciatrici giocano con le stesse regole dei loro colleghi, non è sempre stato così, anzi. Non sempre perché lo volessero loro in realtà, ma più per volontà di allenatori e dirigenti maschi forse preoccupati che delle ragazze potessero intrufolarsi nel sancta sanctorum dell’essenza virile, rubando il sacro fuoco e permettendosi di giocare esattamente come i calciatori uomini.

Senza provare a fare una rassegna storica completa che meriterebbe uno studio apposito, proviamo a soffermarci per esempio sulla prima squadra di calcio femminile del nostro paese, il Gruppo Femminile Calcistico di Milano. Le intrepide ragazze che fra il febbraio 1933 e l’inizio del 1934 provarono a emulare Meazza e i loro idoli si diedero sin da subito delle regole adatte a «praticare in una forma femminile il gioco del calcio», come si diceva all’epoca: due tempi regolamentari da 20’ (all’inizio 15’), gioco rasoterra, pallone più piccolo, divieto di «carica», gonne anziché pantaloncini. Dopo qualche partitella di allenamento, si aggiunse un’ulteriore regola «razionale» (aggettivo originale del 1933 che potremmo rendere nell’italiano del 2023 con ‘pensata, calibrata’), ossia l’uso fra i pali non di giocatrici bensì di giovani giocatori maschi. Il filo rosso dell’intera operazione era evidentemente quello di smorzare il carattere eccessivamente aggressivo e fisicamente stressante del calcio maschile.

Possiamo anche giustamente storcere il naso di fronte a queste regole de-virilizzanti e infantilizzanti, che non a caso coincidevano quasi per intero con quelle in vigore in quella stagione 1933/1934 per i pulcini maschi sotto l’egida della FIGC. Ma nell’Italia fascista dell’epoca, con tutta la retorica maschilista tipica del regime, c’erano solo due alternative: o provare a inventarsi una versione femminile socialmente accettabile del calcio, o rinunciare del tutto all’idea. Le «proponenti» del GFC continuavano a battere su questo punto, nelle loro accorate lettere ai giornali sportivi dell’epoca, e fu questa versione «razionale» che Leandro Arpinati, il ras di Bologna allora a capo della FIGC e del CONI, approvò inaspettatamente a fine marzo 1933, aggiungendo di proprio pugno che, visto il carattere di «esperimento», «ogni attività deve però svolgersi in privato, cioè su campi cintati e senza l’ammissione di pubblico».

Anche dopo il lasciapassare, le giocatrici e i dirigenti del GFC ripeterono fino allo sfinimento che il loro obiettivo non era quello di scimmiottare i calciatori. Ancora nell’agosto del 1933 (poco prima cioè che Starace, detronizzato Arpinati, mettesse fine all’«esperimento» milanese), il presidente Ugo Cardosi rispondeva così alle critiche di un giornale: «Il calcio dei maschi no! ma il calcio femminile, con pallone piccolo, gioco raso terra, e 2 tempi di 20 minuti, portiere maschio, sì!».

Una soluzione sperimentale, quella del GFC, che non poteva durare a lungo, non solo per motivi esterni (gli appoggi politici che vennero a mancare, fondamentali in un dittatura), ma ancor prima per motivi interni, tant’era stata tutta costruita su un sottilissimo crinale. Così, ad esempio, se si rivendicava che la regola del portiere maschio «non superiore ai quindici anni» (limite d’età evidentemente pensato per evitare relazioni amorose con le calciatrici, di solito più grandi) fosse stata «consigliata da tecnici e medici», ecco arrivare l’immediata critica da parte della stampa avversaria: «orbene che le donne facciano anche il foot ball passi, ma nel momento in cui chiamano un ragazzo e non una ragazza e lo mettono in porta a difendere una rete femminile, proprio in quel momento le signorine calciatrici confessano che il gioco del calcio ha un sesso: quello maschile!».

Due foto pubblicate nel 1933 da “Il Calcio Illustrato”: quando ancora le donne (Luisa Boccalini) giocavano in porta, e i ragazzini scelti per sostituirle fra i pali

Il lungo cammino verso la parità regolamentare

Con la fine del fascismo e della guerra, le calciatrici d’Italia poterono nuovamente scendere in campo: ma con quali regole? Arduo, rispondere. Se già sono scarne le notizie sui risultati del calcio femminile in Italia nell’immediato Secondo Dopoguerra, quelle sulle regole sono rarissime. Sappiamo ad esempio che a Messina, nel 1950, la rappresentativa della Venezia Giulia e quella romana giocarono un’ora, non si sa se 60’ filati oppure divisi in 2 tempi di 30’ l’uno, come è invece documentato che fecero 9 anni dopo, nella stessa Messina, la squadra di Napoli e quella di Roma.

Per fortuna, le ricche pagine della recente storia della Nazionale femminile italiana di Giovanni Di Salvo ci permettono di osservare, lungo gli anni successivi, l’affastellarsi confuso e confusionario di regole per le pioniere nostrane del calcio. Se già nel 1962 nel profondo Friuli le due squadre locali delle Furie Rosse e delle Indomite giocavano due tempi da 30’, non cambiò molto nel 1968, con l’istituzione del primo campionato nazionale femminile: i tempi vennero aumentati di 5’ a tempo, raggiungendo così i 70’ totali. All’inizio del 1971, mentre il movimento calcistico femminile nazionale cadeva nel caos a causa dell’esistenza di federazioni e quindi di campionati diversi e concorrenti fra di loro, la romana FFIGC varava un campionato allieve riservato alle ragazzine dai 12 ai 14 anni, tutto quanto basato sulle indicazioni di un Collegio Medico Federale presieduto dal professor Aldo Magrini. Questo l’esito del consesso degli illuminati, significativamente non molto diverso da quello del 1933 in orbace: «esse potranno giocare solo nella bella stagione e previa scrupolosa visita medica. Inoltre la partite saranno da due tempi di 15’ o massimo 20’ l’uno, e dovranno usare scarpe senza tacchetti e un pallone di tela gommata».

L’Italia di quegli anni, tuttavia, va ricordato, era uno dei centri propulsori del calcio femminile europeo, e quindi mondiale, come dimostrato dall’organizzazione della prima Coppa del Mondo (non riconosciuta dalla FIFA), disputatasi nel nostro paese nel 1970 con la sponsorizzazione della Martini. Visto lo sviluppo impetuoso e privo di direttive uniche di quegli anni, potevano capitare situazioni bizzarre, in occasione di confronti fra Nazionali con tradizioni diverse. Così accadde ad esempio nel 1972 alla Nazionale italiana della FFIUAGC, guidata nientepopodimeno che da Amedeo Amedei, in trasferta a Zagabria contro la Jugoslavia. Come spiegato da Di Salvo, «poiché il calcio femminile non era regolamentato a livello internazionale, si giocò adottando le regole locali, ovvero la partita durava 80 minuti ed erano permesse quattro sostituzioni oltre alla portiera». Quando, dopo un mesetto, le jugoslave vennero in Italia per la rivincita, si giocò con le regole locali, cioè con due tempi da 35’.

Da lì a poco, cioè nel febbraio 1973, la federazione con base a Roma (chiamata ora FFIUGC) fece passare la durata degli incontri da 70’ a 80’, ammettendo anche 2 sostituzioni oltre a quella dell’estremo difensore. In quello stesso anno, durante la Coppa Europa disputata a Roma, si decise di giocare, in caso di pareggio al 90°, due tempi supplementari di soli 5’ l’uno, come accaduto per altro in occasione della finale Italia-Inghilterra. Quando 11 anni dopo, nel 1984, la UEFA si degnò finalmente di dar vita al primo Europeo “ufficiale”, fece durare i tempi delle partite solamente 35’, facendo utilizzare alle giocatrici un pallone n. 4: uno strumento di gioco, questo, che nelle memorie delle calciatrici di quegli anni (come le capitane inglesi Gillian Coultard e Carol Thomas) assurge a simbolo del dominio maschilista sul loro gioco.

La partita inaugurale di Messico 1971, il secondo e ultimo Mondiale non riconosciuto dalla FIFA: le porte dipinte di bianco e rosa non furono modifiche di regolamento, ma una mossa di marketing, come sottolineato dalla storica Jane Williams.

L’entrata in campo della FIFA come governing body non solo del calcio maschile ma anche di quello femminile portò inevitabilmente ad una omogenizzazione dei regolamenti nazionali, e ad un progressivo avvicinamento delle regole femminili a quelle maschili, con qualche iniziale riserva. Sia nell’International Women’s Tournament di Cina 1988 (una specie di prova generale della manifestazione in programma tre anni dopo) sia nella prima edizione del Mondiale femminile organizzato dalla FIFA (Cina 1991) si disputarono incontri di 80’ anziché di 90’, «allo scopo di proteggere le giocatrici», alle quali fu per fortuna risparmiato all’ultimo momento di utilizzare un pallone di grandezza 4 anziché 5.

I tempi tuttavia erano ormai cambiati: stava nascendo una coscienza battagliera fra le calciatrici, decise a voler ottenere, da dirigenti maschi ancora troppo timorosi, di giocare con le stesse identiche regole dei colleghi. Ci bastino le parole di April Heinrichs, capitana della Nazionale USA vincitrice del torneo, interrogata sull’anomala durata di 80’: «C’avevano paura che ci cadessero le ovaie se fossimo arrivate a giocare 90’ interi». Una citazione da cui cogliamo subito il cambio di rotta: ci sono loro che dettano le regole, e noi che giochiamo. Da lì a poco, nella stagione 1993/1994, la FIFA decise definitivamente di equiparare la durata degli incontri femminili, portandola a 90’: di conseguenza, in Italia, fece lo stesso la Lega Nazionale Dilettanti (LND), che all’epoca gestiva i campionati femminili.

Al termine della finale della Coppa del Mondo del 1991, quindi all’80° e non al 90°, il signor Vadim Zhuk fischia, e le statunitensi possono festeggiare la loro vittoria per 1-2 sulle norvegesi, frutto della doppietta di Michelle Akers.

Che la conquista dei 90’ sia stata vissuta dalle calciatrici degli anni Ottanta e Novanta come una questione di principio ci è testimoniato da Giancarlo Padovan, per anni allenatore e dirigente del calcio femminile italiano. In alcune pagine del suo Storia reazionaria del calcio (scritta con Massimo Fini) Padovan prima elenca una serie di differenze legate alla diversità corporale fra calciatori e calciatrici (piedi più piccoli, bacino ridotto, gambe più corte, articolazioni più esposte agli infortuni), per poi difendere comunque l’identità delle regole. Il perché è presto detto: «C’è stato un periodo, nella storia del calcio femminile, in cui i tempi di gioco erano di quaranta minuti e il pallone leggermente più piccolo. Un’assurdità. Le donne hanno dimostrato fin dall’inizio di avere la stessa attitudine dei maschi per il gioco, in qualche caso una tecnica allo stesso livello, in altri, più rari ma non unici, addirittura superiore. Dove non competono, perché non possono, è nella forza e nella velocità».

Andrebbe poi considerato un ulteriore elemento, legato non tanto al genere, quanto allo specifico dello sport del calcio, cioè la scarsissima disponibilità anche maschile a modificare le regole, viste da molti come una sorta di intoccabile Decalogo. Tutti ci ricordiamo le alzate di scudi in occasione dell’introduzione di regole nel calcio quali il divieto per il portiere di prendere il pallone con le mani in retropassaggio (primi anni Novanta), o il più recente uso della VAR da parte del direttore di gara. Un atteggiamento a tal punto atavico da essere stato studiato da un antropologo quale Bruno Barba, che ha scritto: «Per tanti, il calcio è il regno dell’arcaicità - la vulgata tramanda: “è il gioco più bello del mondo, perché le regole non cambiano mai” ; e questo è vero soltanto in parte: […] qualche regola, seppur molto lentamente, è cambiata. I “parrucconi” dell’International Board rappresentano, quasi caricaturalmente, questa polverosa archeologia intellettuale».

Al contrario, altri sport si sono mostrati, sia al maschile sia al femminile, più disponibili al cambiamento di regolamento, soprattutto quando alla disperata ricerca di fondi. La pluriscudettata palleggiatrice azzurra Manù Benelli ricorda in questi termini cosa comportò, nel 1989, l’introduzione del tie-break, e soprattutto le preoccupazioni sue, delle colleghe e dei colleghi maschi come Toffoli e de Giorgi. Col senno di poi, «posso dire che la formula del tie-break ha invece permesso di esaltare il mio gioco, dettato più dall’istinto e dalle “sensazioni”, anche se è stato introdotto negli ultimi anni della mia carriera. Sono finite così le partite eterne, perché per muovere il punteggio non è più necessario mettere a segno due azioni vincenti consecutive, e ogni palla giocata diventa un punto». La palleggiatrice commenta positivamente l’introduzione o il cambiamento di alcune regole del volley, come la presenza del libero, «che ha rivoluzionato sia tatticamente sia tecnicamente la seconda linea».

La ravennate non nasconde che questa ventata di novità sia nata soprattutto per esigenze televisive, «che vedevano i palinsesti TV spesso prigionieri dei match di volley che si allungavano oltre le tre ore, penalizzando altre trasmissioni o troncando il match stesso sul finale. Senza il cambio palla il volley è certamente più avvincente e divertente da vedere per il pubblico».

Schermaglie pre-Mondiali all’ISEF di Bologna

Facciamo un altro salto temporale, ed arriviamo alla vigilia del Mondiale di Francia 2019, spostandoci nelle aule della Facoltà di Scienze Motorie (la nuova denominazione del vecchio ISEF) dell’Università di Bologna, dove le studiose di sport femminile Gioia Virgilio e Silvia Lolli nell’aprile del 2019 dialogano con gli studenti locali.

Uno studente maschio, dunque, prende la parola e dice: «Vorrei ribaltare il discorso, visto che si parla di calcio femminile, che non riesce ad essere spettacolare. Perché non si cambia il format come per altri sport? Perché non cambiare le regole di gioco, fare il campo più piccolo, fare una porta più stretta, in modo che il calcio femminile possa diventare uno sport spettacolare, in maniera “ridotta”, anziché emulare gli uomini nel voler fare gli stessi gesti atletici? Cambiamo il format, facciamolo diventare uno spettacolo, e poi lo mandiamo in onda nelle trasmissioni televisive dedicate al calcio».

All’intervento dello studente non risponde tanto Silvia Lolli, presente, la quale puntualizza spiegando che «questo avviene già nella pallavolo, dove c’è la rete più bassa o nel basket dove il pallone è n. 6», quanto una studentessa di Scienze Motorie. Nella filigrana della sua risposta possiamo apprezzare l’approccio di una giovane sportiva del Terzo Millennio, nella cui mentalità la pratica sportiva e il femminismo sono giunti (al contrario di quanto accaduto nell’Italia del XX secolo) al punto di fusione: «è esattamente uno degli esempi per cui diciamo che esiste sessismo nello sport [....]. Anziché cambiare culturalmente le persone che partecipano nella società, allora cambiamo lo sport per renderlo appetibile, questo è sessista. A livello specifico, pratico uno sport che è appannaggio maschile. È uno sport di lotta, in cui la donna vive sicuramente il fatto di essere relegata in uno spazio di non protagonismo. Vi assicuro che non mi sento meno divertente e spettacolare da guardare rispetto ai miei colleghi maschi».

Riprende a questo punto la parola lo studente, che ribatte spiegando che «non sto dicendo che non è divertente il calcio femminile, ma oggi vogliamo offrire un prodotto che non è ancora divertente, perché non mettiamo le donne in condizione di offrire uno spettacolo che sia piacevole. Se nella pallavolo mettiamo la rete a tre metri e le donne fisicamente non riescono a saltare, non può piacere quello sport. Dobbiamo invece favorire gli scambi nella pallavolo come nel basket. Nel calcio, con le regole maschili che ci sono adesso, le donne non possono avere la possibilità di esprimersi al meglio». Anche in questo caso Silvia Lolli glossa l’intervento dello studente, aggiungendo che «dipende da sport a sport, e poi ci possono essere anche campionati misti, come all’estero, a frisbee possono giocare donne e uomini, a livello giovanile ci sono campionati misti, nella scuola si gioca maschi e femmine».

Il guanto lanciato durante il Mondiale di Francia 2019

Se quello del 2019 è stato persino per le italiane il Mondiale della globalizzazione, si capisce come le discussioni sul regolamento siano riemerse all’interno di un’arena molto più ampia, in cui le calciatrici di tutto il mondo si sono trovate ad affrontare le stesse questioni. I primi risultati di Francia 2019, eccessivi per gli standard dei Mondiali maschili, hanno fatto riaprire le danze: su tutti lo "scandaloso" risultato della prima partita delle campionesse in carica, il celebre USA - Thailandia 13-0 che ha polverizzato anche i record maschili (Ungheria - El Salvador 10-1, durante Spagna 1982). Tale disparità di punteggio ripropone un problema a cui sono più abituate le discipline basate su performance legate al tempo impiegato, o alla lunghezza raggiunta, tradizionalmente luogo di “rivincita morale” per gli avversari dello sport femminile, i quali vedono finalmente dimostrata “dati alla mano” la superiorità degli sportivi maschi sulle sportive. Come sottolineato da Mike Messner, se nel diffondere le statistiche sportive i media si ammantano di pari opportunità e di meritocrazia, inavvertitamente però offrono agli spettatori un’evidenza incontrovertibile delle differenze “naturali” fra maschi e femmine.

La partita che diede il via alla polemica: Alex Morgan da sola ne fa 5, in questo USA - Thailandia 13 - 0.

Per quanto negato dalla stessa autrice in un passo, è abbastanza evidente che il risultato di USA - Thailandia sia stato il casus belli della scrittura, da parte di Emma Hayes, manager donna del Chelsea femminile, di un articolo pubblicato dal Times il 13 giugno 2019, provocatorio sin dal titolo: «Richiedere campi e porte più piccoli per le donne non è sessista».

Già dall’introduzione Hayes ribalta il ragionamento à la Heinrichs, accusando di maschilismo le stesse regole del calcio: «C’è un motivo ovvio per cui le donne giocano con campi e porte delle misure attuali, ed è che sono quelle che ci sono state date. Forse nessuno si è mai preso la briga di farsi delle domande sul fatto che avesse un senso, o no». Dopo aver ricordato la diversa misura degli ostacoli femminili e del pallone nel basket femminile, Hayes dichiara sin da subito di essere cosciente che la sua proposta scatenerà un mare di polemiche, visto che tutte quante, quando si tocca l’argomento, si mettono sulla difensiva: «Il dibattito su questo punto viene liquidato a causa di una paura non detta, quella di danneggiare il calcio femminile. Quando ho iniziato a esternare questa mia idea, sono stata accusata di mettere in discussione la parità, e di provare a riportare questo sport indietro, al passato. Gente di un certo calibro mi ha detto “Assolutamente no” ancor prima che ci permettessimo la possibilità di ragionarci sopra».

Volendo adottare un approccio fattuale, Hayes dichiara la sua esigenza di mettere in discussione lo status quo, di chiedersi perché una cosa venga fatta in un certo modo, e se vi sia un’alternativa. Il primo dato di fatto - illustrato anche da un’imperdibile grafica - è che l’altezza media dei portieri maschi in Inghilterra è di 6,3 piedi (1,92 m), quella delle loro colleghe 5,8 piedi (1,76 m), senza parlare poi della numero 1 della Thailandia, Sukanya Chor Charoenying, coi suoi 5,5 piedi (1,67 m): si capisce perché quest’ultima sia stata impallinata 13 volte, in una porta alta 2,44 m e larga 7,32 m, e più in generale perché nella lega inglese la media della distanza di tiro sia più alta di quella della Premier League maschile. Hayes racconta di aver parlato dell’argomento con l’estremo difensore del Chelsea, Carly Telford, la quale sostiene che bisognerebbe avere allenamenti migliori: poco efficace - controbatte Hayes - se non iniziamo a selezionare sin da giovani giocatrici particolarmente alte.

Un secondo dato che fa riflettere la manager è quello legato alla qualità del gioco, meno intensa e meno fisica per le calciatrici: e se ciò fosse dovuto alla grandezza del campo? Con un terreno di gioco più piccolo non si otterrebbe al contrario un gioco più veloce e più tecnico? In tempi non sospetti, cioè nel 1974, l’italiano Paolo Andreoli rifletteva sul fatto che storicamente lo sport femminile sia nato nella società capitalistica dell’Occidente «come imitazione di un unico modo di concepire lo sport: quello maschile, appunto». Al di là dell’attenuazione portata dalle regole “femminili” (divieto di alcune gare, diminuzione delle misure, dei tempi e dei pesi), alla donna sportiva viene richiesto «non di essere se stessa, ma bensì di imitare l’uomo, di assumere le sue caratteristiche e i suoi valori». Tale nascita “sbagliata” ha portato secondo Andreoli ad una conseguenza storicamente assai grave: «il rendimento fisico (tempi, misure, ecc.) risulta inferiore a quello dell’uomo, anche perché [...] tutte le discipline sportive sono pensate come maschili, e la donna deve adattarsi ad esse senza avere la possibilità di manifestare le sue qualità tipiche in prove pensate esclusivamente per lei. In questa situazione, evidentemente, la donna suscita minor interesse del maschio. Le sue “imprese sbalorditive”, i suoi record, risultano inferiori».

Per tornare ad Hayes, nella conclusione del suo pezzo la dirigente inglese cita i primi sorprendenti risultati del Mondiale (fra cui la vittoria della sfavorita Italia contro l’Australia) come segno di una qualità generale delle Nazionali che si sta sempre più alzando. Se tale positivo sviluppo globale del calcio femminile non deve essere sprecato, come può essere ulteriormente incrementato? «Il dibattito, se costruttivo, andrebbe incoraggiato. Non voglio essere tacciata di essere sessista dagli uomini solo perché ho osato discutere della diversità del calcio femminile. La realtà è che esso, per tanti piccoli dettagli, lo è. Dobbiamo essere capaci di discutere sul perché questo fatto potrebbe essere positivo, o negativo».

Due giorni dopo la pubblicazione dell’articolo sul Times, la giornalista del Telegraph Katie Whyatt rilanciava la questione, prendendola inizialmente molto alla larga, mettendosi a fare un confronto con i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nel calcio giovanile inglese, dopo la decisione della Football Association di far giocare a 11 solo a 13 anni, con il pallone n. 5 solo a 15, e 90° pieni solo a 17 anni compiuti. Whyatt prova a buttarla lì: forse essere bambini e giocare in un campo a 11 anziché in uno più piccolo non è un’esperienza che dia molte soddisfazioni, a pensarci bene. La stessa giornalista ricorda di non aver preso propriamente bene, da bambina calciatrice, l’umiliazione di un 16-2 imposto da una squadra che semplicemente colpiva più forte il pallone della propria.

«Il problema non sono i corpi delle donne - l’essere più basse di 12 centimetri, o cose del genere -, ma l’abitudine generale di prendere i corpi maschili come lo standard, in particolare negli studi scientifici», con tutte le conseguenze pratiche del caso, come il fatto che molte calciatrici professioniste indossano scarpe progettate per il piede maschile, non per quello femminile. Così, «l’idea che porte più piccole ostacolino la lotta per la parità è fuorviante. Il mondo è basato sul presupposto che i corpi maschili ci rappresentino tutti e tutte, proprio come un tempo si pensava che bambini di 10 anni fossero capaci di correre lungo un campo pensato per uomini adulti. Ma chi può mai sapere veramente se Hayes ha ragione, o no?».

D’altra parte, è vero che il calcio femminile ha dimenticato per decenni una seria preparazione degli estremi difensori, come risulta evidente da alcuni aneddoti riportati da Whyatt: Carly Telford che ricorda come per anni, da ragazzina, il suo allenamento specifico si limitasse al momento in cui uno dei papà delle compagne di calcio si metteva a lanciarle con le mani la palla; Siobhan Chamberlain (Manchester United) che solo a 12 anni si imbatte nel suo primo allenatore dei portieri.

La risposta delle dirette interessate

La proposta di Hayes sulle porte più piccole è stata rifiutata coralmente da tutte le numero 1 delle Nazionali impegnate in quei giorni in Francia, interpellate dai giornalisti locali. La novità rispetto al passato, superfluo dirlo, è stata proprio il porre la domanda alle dirette interessate, e non a tecnici, medici o dirigenti sportivi. Nel suo già citato articolo Katie Whyatt riporta i pareri della centrocampista gallese Jess Fishlock, secondo cui «non c’è bisogno di cambiare la misura delle porte. Se un portiere commette un errore, è un errore - non è colpa della misura della porta». La numero 1 delle inglesi, Karen Bardsley, si interroga invece sulle implicazioni sociali di un eventuale cambiamento: «Abbiamo combattuto così a fondo per cambiare la percezione globale delle sportive: non penso che questo ci aiuterebbe. Dobbiamo lottare per mantenere la parità». Pure la numero 1 della Nazionale Italiana, Laura Giuliani, interpellata dall’inviata del Corriere della Sera Gaia Piccardi, diceva la sua sull’argomento, (come avrebbe fatto qualche giorno dopo alle telecroniste delle azzurre, dando il via alla polemica linguistica dell’estate, quella sul termine portiera): «abbiamo imparato a giocare così, sarebbe sbagliatissimo cambiare: il calcio, uomini o donne, è uguale per tutti».

La risposta più importante di tutte, però, è stata ovviamente quella della celeberrima Hope Solo, numero 1 della Nazionale USA dal 2000 al 2016, pubblicata il 17 giugno 2019 sul Guardian. Il titolo dell’articolo («La fantastica Christiane Endler mostra come le donne non abbiano bisogno di porte più piccole») fa riferimento alla collega cilena, capace, con la sua bravura, di limitare di molto la scontata sconfitta contro le connazionali di Solo: un 3-0 che avrebbe anche potuto arrivare ad un 8-0, secondo l’americana.

Il Mondiale parallelo di Christiane Endler: Cile eliminato, 5 gol subiti, ma la n. 23 delle statunitensi, Christen Press, che se la sogna ancora di notte.

Hope Solo contesta alla radice il discorso sull’altezza media degli estremi difensori femminili: se si vuole essere seri, bisogna parlare piuttosto dell’eccezione, di una su un milione: «per me, Christiane Endler è quella lì, una su un milione [...], forte, potente e veloce, con un posizionamento eccellente - una combinazione che molto difficilmente si trova in una giocatrice». Piuttosto che parlare di restringere le porte, chi ha veramente a cuore il calcio femminile dovrebbe sottolineare l’esistenza di atlete come Endler, che sono la dimostrazione vivente di cosa è capace di fare una donna tra i pali.

Il motivo del mancato sviluppo di questo ruolo è, secondo Solo, l’incuria nella preparazione, un problema storico per il calcio femminile: lei stessa ricorda di aver avuto pessimi esempi, durante la propria carriera, anche perché di solito il preparatore dei portieri è l’ultimo ad essere assunto, in una squadra femminile (in Italia, ci ricorda Giulia Beghini, la situazione è ancora peggiore). Un secondo problema è quello legato alla selezione delle giocatrici: di solito, le meno talentuose vengono messe fra i pali, mentre fra i portieri maschi ci sono sportivi eccellenti dal punto di vista atletico-motorio.

Una questione di allenamento, e di selezione

Il fatto che il miglioramento degli allenamenti fosse la chiave per uno sviluppo del ruolo è stato confermato tre anni dopo da un articolo del Telegraph che faceva il punto della situazione in occasione degli Europei d’Inghilterra 2022. Secondo uno studio, negli ultimissimi anni il tasso di errore dei portieri della Women Super League inglese si avvicinava sempre più a quello dei colleghi della Premier League. La svolta in corso era dovuta proprio al cambiamento dei sistemi di allenamento.

Molto sinceramente, l’ex numero 1 dell’Inghilterra Rachel Brown-Finnis ammetteva l’esistenza del gap fisico fra uomini e donne fra i pali, spiegando però subito dopo che proprio per questo erano state sviluppate strategie d’allenamento e di gioco specifiche, atte a minimizzare gli effetti del gap: «I portieri del calcio femminile, oggi, si devono impegnare molto per evitare che le avversarie tirino in porta, soprattutto dall’interno dell’area di rigore»; di conseguenza, «bisogna sintonizzarsi con il gioco, supportare la difesa con uscite tempestive, partecipare alla costruzione dal basso». Così facendo, «le ragazze che oggi giocano in porta compiono interventi che dieci anni fa, forse, non avrebbero saputo fare. Per un motivo semplice: nel frattempo hanno potuto esercitarsi molto di più di quanto non avessimo fatto noi». Gli stessi Europei d’Inghilterra 2022 l’hanno dimostrato, con nuove interpreti del ruolo quali la belga Nicky Evrard, l’austriaca Manuela Zinsberger e la ventiduenne olandese Daphne van Domselaar, numero 12 subentrata in corso d’opera alla titolare Sari van Veenendaal.

In ogni caso, per tornare ai Mondiali del 2019, soffermiamoci su un aspetto diverso da quello dell’allenamento: cioè la necessità di selezionare per questo ruolo giocatrici più alte. Lo ha ammesso anche Milena Bertolini, CT di un’Italia che ha messo fra i pali Laura Giuliani, coi suoi 175 centimetri. Intervistata da Emanuele Audisio alla fine di quei Mondiali, l’allenatrice azzurra dichiarava che «ai Mondiali si è vista una situazione diversa, soprattutto nel ruolo di portiere, quello più critico: ragazze più alte, più atletiche. Ormai è una condizione necessaria: perché stai nella stessa porta di Buffon, con il 30% di forza muscolare in meno. Come è cresciuta in certi ruoli la statura nel calcio maschile, così anche nelle donne [...] per il futuro dovrò fare scelte fisiche, al di sotto di certi standard niente, se si vuole essere competitivi».

Ci possiamo leggere, col senno di poi, una profezia delle recentissime (e discusse) scelte fatte dalla CT in occasione di questo Mondiale di Australia e Nuova Zelanda 2023? Per quello di 4 anni fa, Bertolini si portò in Francia Laura Giuliani (1,75 m), Chiara Marchitelli (1,70 m) e Rosalia Pipitone (1,78 m), altezza media 1,74. Questa volta, oltre alla confermata Giuliani, Rachele Baldi (1,75 m) e Francesca Durante (1,81 m), che alzano la media a 1,77 m. La quarta, preconvocata ma poi esclusa dalla lista finale delle 23, è stata l’altoatesina Katja Schroffenegger, in effetti la più bassa del gruppo, col suo 1,73 m. Il fatto stesso che nella prima partita contro l’Argentina Bertolini abbia preferito Durante alla titolare storica Giuliani va nella direzione di quella selezione delle più alte che del resto nel corso degli ultimi anni è stata voluta e cercata dalle Nazionali femminili italiane di altri sport, come ad esempio quella di pallavolo, con quel «piano altezza» pensato apposta per alzare la media delle giocatrici, con qualche ragionata eccezione come la palleggiatrice Eleonora Lo Bianco (1,71 m).

Anche al di là delle scelte strategiche dei selezionatori federali, i club italiani di volley hanno seguito a ruota la tendenza: già nel 2015 la squadra più bassa del campionato italiana era il Casalmaggiore, con un’altezza media di 1,82 m. Detto ciò, la recentissima debacle contro la Svezia, coi 5 gol subiti dall’alta (rispetto a Giuliani) Durante su calci piazzati ha riproposto la questione dell’allenamento. Come fatto notare da Carolina Morace in telecronaca (e ribadito con altre parole ma egual significato da Alessia Tarquinio durante il podcast Mondial Casa) saranno mancati dei centimetri alle italiane, ma di sicuro Bonansea e compagne avrebbero dovuto marcare le longilinee avversarie in maniera un po’ più sporca e meno convenzionale, e Durante avrebbe dovuto sgomitare un po’ di più nell’affollata area azzurra, per evitare i colpi di testa dell’ariete di Sölvesborg, Amanda Ilestedt.

Le perplessità di Katia Serra

Nel variegato mondo del calcio femminile italiano, composto non solamente dalle calciatrici attive ma anche da quelle che hanno appeso le scarpe al chiodo rimanendo nell’ambiente con nuovi ruoli, la più decisa sostenitrice del cambiamento delle regole attuali è Katia Serra, per anni sindacalista di categoria in seno all’AIC, ed ora commentatrice televisiva. Già nel 2021, intervistata da Gioia Virgilio e Silvia Lolli, Katia Serra spiegava che grazie all’introduzione di regole specificatamente femminili «alcuni sport sono diventati più spettacolari. (...) Se vogliamo ragionare sulla parità, dobbiamo anche fare riflessioni di questo tipo». L’anno dopo, intervistata da Di Salvo per il suo Azzurre, Serra spiegava quale fosse per lei la mossa successiva necessaria per far ulteriormente sviluppare il calcio femminile: «Ritengo che la FIFA e l’UEFA abbiano l’obbligo di porsi la questione, e di sperimentare dei cambiamenti. È un obbligo non solo morale ma che diventa conseguentemente economico/finanziario».

Ignorare la necessità di migliorare la spettacolarità del calcio femminile porterebbe, secondo Serra, ad uno scenario così descritto: «quando FIFA e UEFA, tra dieci anni, avranno investito 300 milioni e si renderanno conto che il ritorno economico è molto più basso delle aspettative, saranno obbligati a fare delle riflessioni in tal senso. Allora perché non pensarci sin da subito?». Sull’argomento Serra è tornata anche in questo 2023, nella sua recente autobiografia, Una vita in fuorigioco, nel passaggio dedicato alla possibile «valorizzazione delle specificità femminili»: «È inutile continuare a inseguire le prestazioni agonistiche maschili, sarebbe necessario invece trovare un punto di equilibrio attraverso regolamenti ad hoc per il calcio delle donne, come avviene già per altri sport. Continuare a far giocare le ragazze come se fossero ragazzi, per novanta minuti, in un campo sterminato, rischia di dividere il giudizio sulla spettacolarità del gioco, finendo per rendere il calcio femminile un investimento poco attraente».

Serra chiude con un rilancio alle dirette interessate, che in effetti non può che essere la migliore conclusione di questa rassegna: «Ma la palla ora è in mano alle giovani che amano e praticano questo sport. Starà a loro lottare per andare in una direzione o nell’altra». Siamo forse davanti all'emergere di un nuovo atteggiamento, più plastico e possibilista, nel quale intravediamo sia una smorzatura di toni, sia la consapevolezze che un eventuale cambiamento delle regole spetterà proprio alle dirette interessate.

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