Domenica 16 settembre, cielo nuvoloso, 19°C.
1.
Sto scrivendo mentre ascolto Radio 1 Sport. Sono in corso il Gran Premio di Baku di Formula 1 e il secondo tempo di un Genoa-Roma che vede la squadra di De Rossi in vantaggio per 1 a 0 grazie al gol dell’ucraino Dovbyk. Sto scrivendo di questa domenica pomeriggio soleggiata e dall’animo preautunnale disidratata di adrenalina da campo. E non so cosa ne uscirà. Probabilmente: un viaggio breve e forse caotico, che durerà tre ore circa e che si concluderà con la stesura della prima bozza di questo breve racconto. Ora spegnerò il computer, andrò in cucina e mi gusterò un caffè, saluterò Deborah, le mie figlie e uscirò di casa. L’orologio segna le 14.15.
2.
Ma sì Ricky, ma stai tranquillo, ti sento già con una voce diversa. Nel calcio le cose cambiano dall’oggi al domani. Tu l’importante è che hai risolto sta cosa che non hai rescisso perché sai a volte prendi delle decisioni che possono essere anche rischiose. Però tu adesso ti alleni, hai il contratto, fai tutto quello che devi fare e vedi come va. Non hai nulla da perdere. Non ti abbattere, poi vedi anche a gennaio, magari ti tengono magari rinnovi, magari vai via. Le alternative sono infinite.
Audiomessaggio inviato.
Mentre cammino ascolto Car Wash Hair, EP dei Mercury Rev datato 1991, una sorta di disco di b-sides del loro primo vero album, Yerself is steam. Non indugio sulla title-track e vado dritto a Chasing a Bee-4-track demo, una versione più acustica e nebbiosa di quella presente nel loro esordio dove alla voce non c’è lo stralunato David Baker ma il chitarrista e leader della band Jonathan Donahue. Questa versione dura 9 minuti e 6 secondi. Arrivano due notifiche che si palesano con un icona sulla parte alta dello schermo del cellulare. Scorro con il pollice verso il basso: il Genoa ha pareggiato e la partita è terminata, sono disponibili le formazioni di Torino Lecce. Bypasso tutti e due gli avvisi e continuo a camminare a buon ritmo superando un semaforo.
Proseguo, attraverso Corso Inghilterra e il Giardino “del tribunale” e noto sulla mia destra, sotto l’ombra di un albero, un senzatetto magro e senza scarpe che rifinisce i suoi baffi con un rasoio. Chiude gli occhi e si concentra sull’ esecuzione del gesto con la mano destra. Sembra quasi di sentirla quella lama sottile che spezza filamenti, ragionamenti, molecole e pensieri, atomi e parole. Come quando sei temporaneamente senza obiettivi e ti capita di girovagare in un andirvieni di pensieri senza capo né coda. Dietro ad essi, penso, c’è pur sempre uno schema. Ignoto. Ma c’è.
Un cesto della spazzatura straborda di bottiglie di birra vuote. Il Palazzo di Giustizia apre le porte a Coney Island Cyclone 4-track-demo stravolta in una versione acustica dove il violino (o violoncello, non sono in grado di decifrare l’identità del suono) descrive traiettorie lineari e, aggiungerei, quasi delicate. Ma è solo un’impressione. E giungo in un niente a quell’avamposto multietnico che su Google Maps è l’Eurolines Bus Stop, un lungo terminal di autobus diretti verso luoghi lontani nella penisola. Autobus facili, economici, sfiancanti, nulla che abbia a che fare con la comodità e funzionalità degli autorevoli mezzi della Serie A italiana che sembrano sfondare il televisore quando si avvicinano alle telecamere nel pre-partita. Pullman comodi, puliti e spaziosi. Di per sé luccicanti. Mentre intercetto sguardi di varia natura, appare il ricordo di uno dei miei primi giorni come collaboratore nell’Under 17 del Torino. Stavo proprio qui in piena estate. Su queste mattonelle, borsa in spalla, diretto ad un allenamento mattutino. Al tempo, sulla mia Moleskine scrissi poche parole.
Tutto torna indietro di 20 anni, zaino e borsa, pendolare, T.P.N., metro per Porta Susa, scale mobili, incrocio qualcuno in bicicletta, pedoni, città, traffico ma non troppo. Grattacielo. Giardino con cani, io al telefono con Deborah. Passo la strada, linea bus, mi invade l’umanità che incontro, vociare, fidanzati Flixbus, sguardi, lingue, trolley attraverso la banchina, mi riempie il cuore di gioia. Sono quasi commosso, caldo ma non caldissimo.
Ogni postazione degli autobus ha un cartello giallo numerato: Stallo 1, Stallo 2, Stallo 3… C’è odore di cibo, kebab, Stallo 6. Alla mia sinistra, oltre alle recinzioni, dietro i teloni verdi che nascondono il campo da calcio, sento il suono di palloni calciati dai ragazzi. Leggo la scritta Fu-ck su un cestino della spazzatura. Il suono dei palloni mi stimola a ragionare sulle loro proprietà, sulla qualità del loro cuoio, sulla loro durezza o morbidezza. Soprattutto sulla fisionomia e sulle traiettorie emotive che quei palloni imprimeranno a Torino-Modena, categoria Under 16, prima partita della stagione 2024/2025 girone A. Entro.
3.
8 euro il costo del biglietto. Quale spensieratezza nell’assistere a un incontro di calcio giovanile, slegato da qualsiasi vincolo professionale, in una splendida giornata di sole. La mente vaga e divaga, libera di agire in una realtà dai piani sovrapposti e sui quali il solo concedersi per qualche attimo consente di cercare collanti che fanno del presente un corpus unico da apprezzare nella sua variegata e multiforme unicità. Due ragazze sedicenni aspettano i “calciatorini” che hanno appena disputato la partita precedente. Oltrepasso la lunga tribuna dove a gruppi sparsi sono disposti genitori e amici. Incontro all’altra estremità mister La Rocca (lo scorso anno nell’Under 18 del Toro), chiacchieriamo. Gli chiedo come sta e nel mentre si avvicina il responsabile del settore giovanile granata Ruggero Ludergnani. Parlando al telefono mi saluta con un cenno. A quel punto le squadre stanno per entrare in campo, saluto il mister e prendo posizione. Mi siedo su un seggiolino poco comodo all’altezza della metà campo con una visuale disturbata dal parapetto e dal suo tubo color rosso che lama il campo in due. Non è granché ma me lo faccio andar bene.
Il centro sportivo del Cit Turin è una struttura un po' così, interessante dal punto di vista architettonico, bar, metallo e spogliatoi, linee dal futurismo azzardato, rosso e verde senza respiro con il centrale in sintetico valido e gli altri campetti dall'usura conclamata. Il ricordo più acceso, a proposito dei “campetti usurati”: una partita tra due fazioni di extracomunitari con a seguito tifosi che avevano trasformato quell’isola sportiva logorata dal tempo in una bolgia dal chiasso infernale dove se le davano di sana pianta. Calcio di strada e fumo, gomitate e trombe sugli spalti. E puoi sentire l’odore del sudore, della sfida, della vita sospesa in una maglia da gioco.
Ora sono a pochi metri dal match analyst granata che riprende con l’Ipad la partita assieme ad una signora munita di tablet che svapa con controllato nervosismo. Il suo lavoro consiste nel riprendere per novanta minuti la gara che poi verrà analizzata dall’allenatore sotto i vari aspetti tecnico-tattici.
Aperta parentesi. Essendomi prestato in isolate occasioni a riprendere la partita - ad Alessandria ero un collaboratore tecnico - so cosa significa dover manovrare un dispositivo come quello. Per quanto banale possa essere, ti ritrovi, se non sei allenato, a dover seguire il gioco senza riuscire ad “esserne veramente dentro”: la modalità grandangolo impostata nella videocamera, che consente di riprendere quasi sempre tutti e 21/22 giocatori presenti sul terreno di gioco, non garantisce di poter seguire la partita in un continuum fluido. E di conseguenza devi spesso assicurarti che il tutto venga filmato senza distrazioni. La pupilla, a quel punto, inizia una serie di navette oculari che passano dalla modalità “live” – occhi sulla partita – alla modalità “controllo registrazione” – occhi sulla videocamera. Su e giù. Su e giù. Su. E giù. Per 90 minuti. La mente, almeno la mia, lavora con interruzioni intermittenti e fastidiose: la fluidità di quello che sto vedendo è squartata, i ragionamenti e le osservazioni invece sono frammentate minuziosamente in briciole da cestinare. Ma se sei un match analyst e il tuo lavoro è registrare la partita sicuramente sarai allenato a fare questo. E non ti pesa granché. Cinematograficamente parlando ne esce un piano sequenza pessimo e noioso con qualche zoomata nel quale si possono apprezzare quasi sempre i dettagli tattici, i vari posizionamenti dei giocatori, le linee di attesa e di aggressione. Chiusa parentesi.
Al fianco altre due signore, questa volta sedute, conversano senza prestare interesse alla partita. Saranno presenti sì e no una cinquantina di persone circa tra genitori, ragazzi e dirigenti. L’arbitro non ha ancora fischiato l’inizio e dalla tribuna si sollevano le prime indicazioni tattiche. Aspetta a venir dentro… Guardalo… Il Torino in completo granata attacca alla destra degli spettatori, il Modena, gialloblù, alla sinistra. Il numero 3 del Modena che bazzica la fascia sinistra me lo trovo lì sotto a pochi metri. Ha una capigliatura pressoché identica a quella di Cucurella, il terzino sinistro del Chelsea neo campione d’Europa con la Spagna. Poi ci sono gli altri 21.
Torino: 3-4-2-1. Chinellato; Savant Ros, Traversi, Pierro; Cai, Mukerjee, Scibilia, Antonelli; Di Rienzo, Cammarota, Marangon.
Allenatore: Vegliato.
Modena: 4-3-3. Bosi; Leprai, Medici, Ricci, Graus; Motta, Fontana, Obasuyi; Ricciardi Farioli, Osmani.
Allenatore: Fontanesi.
4.
I primi quindici minuti sono giocati a cento all’ora. Gli animi dei giocatori ribollono. Non si vede realmente, quel cento all’ora, ma si percepisce. Nel loro giocare e nella voglia frenetica di penetrare minuti per sintonizzarsi immediatamente nel cuore della gara, della stagione. Le prime di campionato sono sempre così: una ricerca del centro emotivo più o meno elaborata. Ne esce quindi un primo quarto dove il Torino cerca il dominio territoriale grazie a un fraseggio ragionato mentre il Modena sfrutta qualche errore in fase di disimpegno per rendersi pericoloso attraverso scambi e combinazioni più libere e creative. Si possono distinguere le voci dei due allenatori dare indicazioni tecniche e tattiche ben precise e chiare. Sono lì, davanti le proprie panchine dal lato opposto a quello della tribuna. Quindi, proprio davanti a noi.
Tatticamente appare evidente lo scaglionamento dei granata che in fase di costruzione adottano un 3-2-5 ad alto tasso offensivo con i due esterni pronti ad alzarsi sulla linea di difesa avversaria mentre il Modena, senza troppe menate e conscio del leggero divario tecnico, tende a sviluppare la manovra allargando le due ali sulle linee laterali. Mi rendo conto che queste osservazioni, abbastanza superficiale e per certi versi inutili, lasciano il tempo che trovano e dirottano l’analisi a un esercizio di cronaca che non rende l’idea globale dello spettacolo al quale sto assistendo. Perché di spettacolo ce n’è eccome. E di conseguenza, dopo aver disegnato X e O sul taccuino solo per avere un idea dell’impianto tattico installato nel software del match do uno sguardo a ciò che mi circonda.
Le due signore continuano a chiacchierare, alla mia destra si è seduto un uomo. Mi accorgo solo ora che sopra la mia testa sono posizionati dei tifosi modenesi dalle origini campane: uno di questi, dopo aver visto il portiere della propria squadra uscire per infortunio esclama con pacata rassegnazione: bisogna benedirli. Il signore che sta al mio fianco svapa. Una. Due volte. La partita è divertente, si creano potenziali occasioni da una parte e dell’altra e verso il venticinquesimo minuto segna il Torino con una azione molto ben manovrata e veloce dopo una transizione che ha scoperto la difesa modenese.
È lineare, quasi armonica, la serie di passaggi che dalla corsia di destra taglia in diagonale il campo facendo trovare a Cai, il laterale di fascia sinistra, il pallone buono per metterla sotto l’incrocio alla destra del subentrato Ugwu. Calcia molto bene, molto meglio di come calciavo io alla sua età. Gol, esultanze da una parte, sguardi bassi dall’altra. Non credevo di arrivare ed essere così preso dalla partita. Anche perché le sorprese non mancano: viene ammonito un dirigente modenese colpevole di aver ecceduto nelle proteste verso l’arbitro Tinetti della sezione di Ivrea che, soprassedendo sul fallo di un difensore granata nei confronti della punta Ricciardi, ha fatto infuriare tutta la panchina. Nello specifico parliamo di un fallo che è fallo e non lo è. Una situazione limite che scontenterebbe qualsiasi parte punita. Perciò lo immagino, lo sento dentro di me quel nervosismo tracotante che si trasforma in esternazione verbalmente inappropriata mentre la pezza di cuoio indifferente a qualsiasi evento rotola, lentamente, verso il fondo del campo. Lei è lì, silenziosa, che attende solo di essere raccolta, mentre una cinquantina di metri più in là si aizza un fuoco di paglia pronto a spegnersi nel giro di qualche secondo. Dicevo di qualche disimpegno ad alto tasso di rischio della squadra granata. È da uno di questi che nasce un’ottima occasione per il Modena che, pressando ferocemente Chinellato, il numero 1 della squadra di Vegliato, non la butta dentro di poco. Mancano una manciata di minuti alla fine del primo tempo e, escludendo quest’ultima fase che fa traballare trame promettenti, il dominio è stato, più o meno, in favore del Torino. Duplice fischio.
5.
Il seggiolino non è per niente comodo. Do una sfogliata alle pagine virtuali della Serie A, della Serie B, della Premier League, della Serie C. Inizia il secondo tempo.
6.
Gli ingranaggi della partita si sono già allentati: il Torino che cerca di dettare il gioco, di fare calcio per dirla alla Adani, e il Modena guardingo e per nulla intimorito. L’inizio del secondo tempo, conferma l’impressione degli ultimi minuti della prima frazione. In campo entra il caldo, la stanchezza, la poca lucidità e qualche forza fresca. E il primo quarto d’ora, sebbene conservi l’impronta originaria della gara, denota una forza creativa e imprevedibilità maggiori. Qualche errore da ambo le parti, qualche sbandamento singolo che slega collanti collettivi, sincronie sfasate ed ecco le maglie allargarsi, correre un po' a vuoto e forse un po' a caso. Si crea qualche voragine e diverse opportunità. Azioni che non rimangono embrioni ma che iniziano a crescere fino a che, la promessa di una conclusione è interrotta da un contrasto o un errore di misura. La cura del dettaglio fa la differenza, dicono. La cura del dettaglio.
Dopo quindici minuti nei quali a fatica cercavo di focalizzare l’attenzione su qualche dettaglio, mi rendo conto del quadro generale. Alte recinzioni e la striscia di alberi, le vetrate del Palazzo di giustizia che sembrano inglobare il campo e l’Eurolines Bus Stop: il sottofondo cittadino ad un incontro di calcio giovanile di livello nazionale. Clacson e rumorii di sottofondo, auto che accelerano e qualche urlo lontano in un magma senza melodia che brulica e assomiglia molto ai contorni ambientali di alcuni brani che ascolto. Remaining stretches di Celer, ad esempio. Dall’album Engaged Touches. Ascolto ad occhi chiusi, interrompendo il flusso visivo e godendomi questo sound-break. Basta poco per accorgersi di ciò che non tenevi in considerazione. Sveglia.
Riconosco la voce del direttore Ludergnani. Non lo dice a me ma ai ragazzi che incita vista una difficoltà sempre maggiore dei granata. Non tanto per chissà quale assedio modenese ma per un maggior carico di disattenzione generalizzata. Un angolo. Due angoli. Poi arriva il gol, verso il ventesimo del secondo tempo. Nel flusso dell’azione e nella sua conclusione a lieto fine ciò che balza all’occhio è il doppio contrasto vinto a metà campo da Obasuyi, centrocampista che di nome fa Freedom. Entra con un’ agonismo feroce, pulito e decisivo. Quando vedo questi contrasti – Wow! – l’entusiasmo, quella verve che mi fa fibrillare per qualche decimo di secondo mi insinua una riflessione sulle forze invisibili che indirizzano gli eventi, su come alcuni gesti imprimano, in quella piattaforma immaginaria dove si riversano tutti gli stati d’animo, cariche positive o negative a seconda di chi le trasmette, in un equilibrio che in superficie non si vede ma che “dentro” lo puoi percepire eccome.
È 1 a 1 e la partita diventa: caos. Gli ultimi 20 minuti sono una trama indecifrabile composta da elementi che si contrappongono malamente, come una composizione Lego costruita da un bambino di 6 anni che non ha letto il foglio delle istruzioni. O forse il drip painting di Jackson Pollock rende più l’idea. Una tela a suo modo spettacolare. Errori, ripartenze da una parte e dall’altra, stanchezza conclamata e crampi, dribbling e colpi di testa, la signora che svapava e filmava che scende dal suo avamposto per vedere se, il fascino di intermezzi noiosetti, probabilmente il figlio, altro intermezzo, si è fatto male dopo essere andato a sbattere sui materassini che ricoprono tutto il bordo campo. Altri contrasti violenti, fair-play ovunque, cambi su cambi, correttezze e divertimento percepibile, corse sbiadite e qualche incazzatura dalla panchina, volume sonoro alto e Cucurella c’è, il sole che cala ma ancora è presto, tiri mal fatti ed ombre sempre più lunghe, un fuori campo e la palla che viene rigettata nel catino.
Senza grammatica e logica stabile senza punteggiatura consona ad un discorso calcistico che va e che viene, e che è intessuto se non altro da emozione. O forse è solo la tempesta che svanisce in quella piattaforma immaginaria dove schizzano cariche positive e negative, umori e dissapori, e furore stanco di una partita che inesorabilmente declina al triplice fischio. Il cataclisma creativo che è una partita tra ragazzi. Il caos è divertente e la partita mi ha quasi letteralmente preso. L’arbitro triplica il fischio.
6.
È questa una delle cose che faccio quando non lavoro. Scrivo. E ascolto i Mercury Rev.