La finale di Champions League è la partita di cartello dell’anno calcistico, quella che anche chi non segue il calcio quotidianamente è spinto a vedere. In teoria, dovrebbe essere il meglio del meglio del calcio contemporaneo. Ma è anche il punto più alto dell’epica delle squadre partecipanti, perché vincere o meno la coppa dalle grandi orecchie è la vera linea di demarcazione tra l’entrata o meno nei libri di storia. Lo sa bene il Real Madrid, che il proprio nome nella storia di questo gioco l’ha già scritto più volte, ma lo sa bene anche l’Atlético, che ci era andato vicino già due volte prima di sabato. E questo tipo di presupposto rischia di entrare in conflitto con quello precedente, e cioè che la finale di Champions League debba essere “il meglio del meglio”.
Impossibile non notare l’influenza che la finale di Lisbona di due anni fa proiettava sulla partita di sabato: il Real ha preparato la gara convinto di poter battere l’avversario, nonostante sulla carta i rapporti di forza durante la stagione fossero stati invertiti; l’Atlético non giocava solo contro l’avversario ma contro la storia stessa che la sfida si portava dietro, senza neanche la spinta motivazionale e la sicurezza di partire da underdog. Simeone ha dovuto preparare la rivincita da favorito, o quanto meno partendo alla pari, e alla voglia di vendetta si univa la paura sottile di perdere di nuovo. Alla volontà di non scoprirsi del Real Madrid, invece, si aggiungeva il cinismo e il fatalismo di chi sa di avere gli dei del calcio (e qualche campione che può fare la differenza) dalla sua.
La prima regola di una finale di Champions League: non perdere una finale di Champions League.
Con una posta in palio così grande, sul prato di San Siro, come spesso succede, ha prevalso la necessità di non perdere. Il risultato è stato una brutta partita, incapace di rendere giustizia al titolo che la competizione metteva in palio, inferiore alle potenzialità delle due squadre sotto tutti i punti di vista: tecnico, tattico, psicologico.
L’Atlético è stato carente proprio nei suoi teorici punti di forza, quelli della preparazione tattica e della determinazione. Il Real si è limitato a mettere in campo il suo talento, accontentandosi del minimo indispensabile una volta appurato il vantaggio psicologico sui rivali. Ed è stata anzitutto una brutta prestazione per i due allenatori, che dal punto di vista tattico hanno inciso soltanto nei cambi dei giocatori in corsa. Tanto Zidane quanto Simeone sono risultati incapaci di alterare la dinamica della partita: il Real Madrid che ripiega dopo aver segnato il gol e che Zidane giustifica come “una cosa fisiologica”, l’Atlético che entra in campo senza la normale voglia di spaccare il mondo, che Simeone non riesce a trasmettere neanche nell’intervallo.
Una Champions League che ci aveva regalato sfide epiche, quella tra Bayern e Juve, quella tra lo stesso Atlético e il Barcellona, e che si è conclusa con una partita dal livello decisamente mediocre. Un peccato soprattutto per l’Atlético, che una volta al centro del palcoscenico, non ha fatto vedere nulla di quello che l’ha portato lì. Dal punto di vista mentale non ha mai scalfito le sicurezze del Real Madrid imponendo il proprio contesto. Da quello tattico ha portato in campo la peggiore versione possibile del proprio pressing e del proprio attacco posizionale.
Quindi, per colpa soprattutto dell’Atlético Madrid, incapace di cambiare il contesto imposto dal Real, le emozioni si sono ridotte a due gol estemporanei e a un rigore sbagliato. Certo anche il Real, considerando il valore dei giocatori a disposizione, avrebbe potuto e dovuto fare qualcosa di più. Ma tutte le strategie che portano alla vittoria, a posteriori, sono quelle giuste. Ecco quindi gli elogi a Zidane, che al limite ha avuto l’umiltà per capire che la squadra che lui stesso allena non è allenata abbastanza bene da poter battere un avversario più organizzato.
Pigrizia primaverile?
Entrato in campo con il consueto 4-4-2, con Koke e Saúl esterni e Griezmann e Torres in attacco, l’Atlético ha cominciato con la sua consueta strategia di gioco, ma è stata l’esecuzione a lasciar a desiderare: contrariamente alle premesse il Real (in difficoltà persino contro il pressing disordinato del City di Pellegrini) è riuscito a mantenere il controllo.
Da quanto si è visto nei primi 25 minuti l’idea di Simeone, indeciso se attaccare i difetti del Real Madrid in fase di costruzione o proteggersi dal pericolo della BBC (a fine partita non è stato fischiato neanche un fuorigioco a favore dell’Atlético, a parziale dimostrazione di come la copertura della profondità fosse prioritaria) ha portato la sua squadra a una pressione incerta. L’Atlético è sembrato spezzata a metà, indeciso se prendersi il pallone o guardarsi alle spalle, timoroso delle conseguenze di un’eventuale accelerazione di Cristiano e Bale o di un taglio riuscito di Benzema.
Una volta fiutata la paura dell’avversario, il Real Madrid ha fatto la cosa che solo una squadra dalla sua caratura tecnica può fare: giocare al gatto col topo. Gli undici di Zidane non hanno mai provato a forzare la giocata, Kroos e Modric giocavano più larghi del solito per consolidare il possesso a distanza di sicurezza dal blocco centrale dell’Atlético, allargandone la linea del centrocampo. Nella prima mezz’ora di gioco il Real Madrid non aveva nessun giocatore al centro del campo in pianta stabile, toccando solo 4 palloni nella trequarti centrale offensiva.
La scelta di Zidane limitava la pericolosità del Real Madrid agli strappi palla al piede di Bale sull’esterno, ma tanto è bastato per andare in vantaggio, grazie anche alla netta superiorità sui calci piazzati (ottimi saltatori + ottimi piedi sono spesso altrettanto efficaci degli schemi provati e riprovati in allenamento). Contrariamente a quanto era vero due anni fa, questa versione dell’Atlético ha due soli giocatori realmente padroni del gioco aereo: Godín e Saúl. Così, il Real Madrid aveva dalla sua anche la sicurezza di poter trovare un’occasione con ogni calcio da fermo battuto: la prima vera azione della partita è arrivata da calcio piazzato, quando Oblak ha salvato con il piede un tiro ravvicinato di Casemiro, e così è arrivato il gol di Sergio Ramos su quello che forse era uno schema (spizzata di Bale per prolungare la palla verso il portiere).
Con zero sforzo il Real Madrid si è trovato da subito in vantaggio, pensando poi di abbassare ancora di più il ritmo della partita, attenuando la velocità di circolazione e portando qualche metro indietro il proprio baricentro. Nel nuovo contesto l’Atlético si ritrova, suo malgrado, a dover fare la partita.
L’Atlético come un pesce fuor d’acqua
La seconda metà del primo tempo è stato forse il momento di maggior sofferenza per i tifosi dell’Atlético che vedevano la propria squadra incapace di organizzare un attacco posizionale degno di questo nome. Simeone stringe i suoi esterni, Koke e Saúl, portando il primo tra le linee al centro del campo, e chiedendo al secondo di alternare movimenti in profondità. L’ampiezza veniva data dai due terzini e la palla era gestita ad inizio azione da Gabi, che la faceva circolare verso l’asse sinistro per provare a trovare alle spalle di Bale il solo Carvajal, chiuso nella coppia tra Koke più centrale e Filipe Luis più esterno. La produzione offensiva però rimane nulla, la palla gira orizzontalmente e le due punte sono costrette a venire molto incontro per toccarla.
Fernando Torres in questo contesto è risultato totalmente inutile, se si esclude la prima fase di pressing. Molto più associativo del compagno spagnolo, Griezmann si è fatto carico di muoversi sulla trequarti e, insieme a Koke, pareva l’unico ad avere un’idea di come attaccare la difesa del Real. In una fase di apparente ripresa, l’unica vera parata di Navas è su una conclusione di Griezmann. Per il resto il portiere del Real Madrid non ha dovuto mai sporcarsi i guantoni.
L’Atlético è incapace di fare male e il Real Madrid non ha intenzione di modificare una situazione che lo vede in vantaggio di un gol. Anche perché nell’aria esiste sempre la silente minaccia di poter trovare la verticalizzazione giusta contro una squadra stranamente lunga, incapace di proteggere la linea di difesa nel caso di perdita del pallone.
Il Real però si ferma alle minacce: i migliori in campo in quel momento sono Sergio Ramos, esaltato dagli anticipi su Torres, con Griezmann lontano a non potergli dare fastidio, e Casemiro, che in un contesto di questo tipo si trova perfettamente a suo agio, inseguendo la palla che circola in orizzontale. Il brasiliano non deve neanche impegnarsi nel tackle (ne tenta solo 8), gli basta muoversi dove sta andando la palla per recuperarlo (con 15 recuperi è il migliore) o anche solo per costringere gli avversari a cambiare lato.
Le piccole scosse di Griezmann e Isco
Il secondo tempo si apre con la decisione di Simeone di far entrare subito Yannick Ferreira Carrasco al posto di Augusto Fernandez, spostando Koke al centro del campo. Il belga ha un impatto emotivo e tecnico immediato, portando determinazione e coraggio nel rischiare anche la giocata individuale. L’infortunio di Carvajal che costringe Zidane a inserire Danilo aiuta ulteriormente l’Atlético che a quel punto può alternare il gioco sulla trequarti per Griezmann con quello sull’esterno per Carrasco, che ogni volta che parte in progressione con la palla sembra poter creare un pericolo.
L’energia di Carrasco in qualche modo riesce a far dimenticare il momento più buio della partita dell’Atlético: l’errore dal dischetto di Griezmann, che a inizio secondo tempo ricorda a tutti la differenza che c’è tra tifare Atlético e Real Madrid, e cioè giocare contro squadre più forti e contro qualche maledizione.
L’impatto di Carrasco va a minare sicurezze nel Real Madrid e porta Zidane ad apportare per la prima volta una modifica tattica rispetto al piano iniziale, facendo entrare prima Isco per Kroos e poi Lucas Vazquez per Benzema. Il secondo cambio ha l’effetto evidente di portare un esterno puro nella fascia di Carrasco così da aiutare un disastroso Danilo in fase difensiva. Ma il cambio di Isco è quello con maggiore influenza sulla gara, perché riesce ad avere, se pur a modo suo, un impatto positivo speculare a quello avuto da Carrasco e ristabilendo un sostanziale equilibrio. Dopo 70 minuti di gioco sull’esterno, il Real ha finalmente qualcuno per far circolare il pallone sulla trequarti: l’andaluso si muove liberamente e corre per due, tenta dribbling e combinazioni veloci contro giocatori quasi inibiti da tanta determinazione.
Il purgatorio del calcio moderno
Ma neanche Isco e Carrasco sono bastati perché la partita si accendesse. Il gioco delle due squadre è rimasto legato all’impatto estemporaneo dei nuovi entrati e lo stesso gol di Carrasco arriva con un’azione che, per quanto bella, è giocata a ritmi quasi amatoriali. L’Atlético si ritrova a pareggiare la partita con la prima vera azione ben riuscita e da lì, contento del risultato, sprofonda in modo definitivo nel limbo che lo porterà ai rigori.
Col passare dei minuti la condizione fisica cala drasticamente (e pensare che c’è un Europeo da giocare tra una settimana!) e forza Simeone, che aveva speso un solo cambio nei novanta minuti, a fare gli altri due cambi: Filipe Luis e Koke escono per fare posto a Lucas Hernandez e Thomas, azzerando in modo definitivo la proposta offensiva della sua squadra. I tempi supplementari dell'Atletico sono una mezz’ora di nulla intervallata da giocatori a terra per i crampi. La proposta del Real, ancora una volta, non è di molto migliore, ma almeno prova a giocare stabilmente nella metà campo avversaria e qualche occasione sporchissima con cui vincerla se la ricava pure.
Cristiano, “ectoplasmico” per lunghi tratti a quel punto cammina per il campo come un fantasma, si tocca la coscia forse infortunato, ma poi con la palla tra i piedi ha provato comunque un paio di accelerazioni inutili. Bale non scatta più e Griezmann ha perso influenza sulla sua squadra. Carrasco continua a far ammattire Danilo ma dopo il fallo di Sergio Ramos che blocca un potenziale 3 contro 1 a pochi secondi dal termine non procura vere e proprie occasioni. Torres, da parta sua, non è mai entrato veramente in partita e la fatica non ha certo migliorato il suo gioco.
Persino i rigori sono stati all’altezza di una partita con poca qualità e pathos. Oblak, bravo durante la gara, è uno dei portieri più lenti tra quelli d’élite e non si avvicina neanche a prenderne uno. A Navas basta allungarsi dalla parte giusta perché Juanfran colpisca il palo: davvero il minimo indispensabile.
Vecchia storia
L’Atlético ha perso per la terza volta la finale di Champions League e questa volta nel modo peggiore: perché non ha provato neanche a giocare, perdendo contro un avversario che a sua volta non ha dimostrato di meritare di più. Ecco la cosa più dolorosa: presentarsi all’appuntamento con la storia nella peggiore versione di sé stessi. E non è un caso se a fine partita Simeone ha detto di dover riflettere, dopo aver cambiato l’inerzia di una squadra perdente trasformandola in una delle migliori del continente per competitività e organizzazione deve scontrarsi con il dato reale che il suo enorme lavoro non è bastato per portare a casa il trofeo più importante. È difficile capire dove finisse l’influenza di Simeone e cominciasse la fatica che ha portato l’Atlético ad un certo punto ad accontentarsi dei rigori, ma Simeone più di chiunque altro esce dal campo con l’evidenza dei propri limiti.
La finale di Milano fa anche riflettere sul peso che la fortuna ha avuto nella vittoria del Real Madrid: solo in finale la squadra di Zidane ha trovato un avversario alla pari, e non è neanche riuscito a batterlo nell’arco dei 120 minuti. Questo Real non verrà ricordato come uno dei migliori degli ultimi anni, eppure vince l’undicesima Champions League. La fortuna, evidentemente, non premia solo gli audaci. E la storia se ne infischia dello spettacolo.