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Come il calcio russo ha reagito alla guerra
21 giu 2022
Nell'indifferenza generale il calcio in Russia sta continuando tra non pochi problemi.
(articolo)
17 min
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Mentre in Ucraina il calcio, per ovvie ragioni, è stato costretto a fermarsi subito dopo il 24 febbraio, in Russia si è continuato a giocare, (quasi) come se nulla fosse. Lo Zenit, dall'impronta sempre più brasiliana, ha vinto il suo quarto titolo consecutivo nel disinteresse generale: nessuno tra i più importanti siti sportivi italiani ha riportato la notizia. Boicottato persino da portali come Livescore, il campionato russo - che già prima della guerra non era un torneo particolarmente mediatico - rischia ora di rimanere sempre più isolato dal resto del mondo calcistico.

Benché sia stato inevitabilmente falsato dalle sanzioni dei principali organi sportivi, tra squadre che hanno perso quasi tutti i giocatori stranieri che avevano in rosa e altre che si sono ritrovate senza obiettivi una volta che l'UEFA ha deciso di escludere tutti i club russi dalle coppe europee anche per la prossima stagione, la Russian Premier Liga ha regalato comunque un finale al cardiopalma, con la clamorosa retrocessione del Rubin Kazan. Così come avrebbero meritato maggiore visibilità il sorprendente secondo posto conquistato dal Sochi, la squadra che ha espresso il miglior calcio del torneo, e la rinascita della Dinamo Mosca, trascinata dai giovani talenti Zakharyan e Tyukavin. O la classifica cannonieri vinta da Gamid Agalarov, centravanti classe 2000 nato in Daghestan, i cui 19 gol non sono comunque bastati a evitare la retrocessione all'Ufa nel playoff contro l'Orenburg.

Tutto ciò, inevitabilmente, è passato in secondo piano. Del resto è innanzitutto il futuro del calcio russo a essere a serio rischio: per quanto tempo le squadre non potranno partecipare alle coppe europee? E la Nazionale, già esclusa dagli spareggi mondiali e dalla Nations League, quando potrà tornare a giocare? Se le cose non dovessero cambiare, la Federcalcio russa farà davvero domanda per trasferirsi in Asia? Tanti quesiti ai quali, oggi, è impossibile dare una risposta. Gli stessi calciatori russi si ritrovano in una posizione scomoda: delusi e amareggiati per essere stati esclusi dalle più importanti competizioni internazionali, ma allo stesso tempo intimoriti dall'accoglienza che potrebbero ricevere qualora decidessero di trasferirsi all'estero.

Tempi duri anche per le squadre di club che, oltre a pagare i pesanti effetti economici delle sanzioni (tanto per fare un esempio, Leonid Fedun, proprietario dello Spartak Mosca e vice-presidente del colosso petrolifero Lukoil, ha perso buona parte del suo patrimonio), sono stati abbandonati dagli sponsor e non potranno più contare sugli introiti delle coppe europee fino a chissà quando. La regola speciale introdotta dalla FIFA a marzo, secondo la quale tutti i giocatori stranieri sarebbero stati liberi di sospendere il contratto con le rispettive squadre russe di appartenenza almeno fino al termine della stagione, ha rappresentato un'ulteriore mazzata per le ambizioni e le casse dei club. Anni e anni di investimenti svaniti in un amen.

Prendete il Krasnodar: a gennaio aveva cambiato allenatore e investito circa 20 milioni di euro sul mercato in giocatori che poi non avrebbe mai impiegato. Beffato pure il Rubin, che sperava di scatenare in estate un'asta intorno al suo gioiellino Kvaratskhelia, dalla cui cessione al Napoli rischia invece di non intascare neanche un rublo. Insomma, un danno tecnico ed economico senza precedenti, con il peggio che con ogni probabilità deve ancora arrivare.

La (parziale) fuga degli stranieri

Poiché la FIFA aveva autorizzato gli stranieri a lasciare la Russia (e l'Ucraina), si temeva una fuga di massa dal campionato locale, che in realtà è avvenuta solo in parte. La diaspora degli stranieri ha infatti riguardato principalmente le squadre del Sud, quelle più vicine al confine con l'Ucraina. Le altre, in un modo o nell'altro, sono riuscite a cavarsela. A cominciare dallo Zenit, il club politicamente più compromesso essendo di proprietà della Gazprom. Anche le squadre di Mosca sono riuscite a trattenere i propri migliori giocatori, mentre hanno avuto invece più difficoltà con gli allenatori di nazionalità estera. Il tedesco Markus Gisdol ha lasciato la Lokomotiv subito dopo l'invasione del 24 febbraio, insieme all'intero staff scelto da Rangnick in persona (prima di cedere alle lusinghe del Manchester United).

Un altro tecnico tedesco, Sandro Schwarz, si è a lungo scontrato con la federazione del suo paese, che aveva invitato tutti i connazionali a lasciare la Russia, decidendo di concludere la stagione alla guida della Dinamo Mosca. Situazione simile per l'italiano Paolo Vanoli, a lungo assistente di Antonio Conte, approdato lo scorso dicembre sulla panchina dello Spartak, la squadra più blasonata del Paese. Nonostante il pressing dell'ambasciata italiana, per mesi Vanoli aveva ribadito di non avere alcuna intenzione di lasciare Mosca, ma in seguito alla conquista della Coppa di Russia è stato costretto a ritornare sui suoi passi, ufficialmente per motivi familiari. Nessun ripensamento, invece, per Luca Cattani, il direttore sportivo dello Spartak, convinto a proseguire la sua avventura in terra russa.

La stessa "operazione speciale", come l'invasione russa dell'Ucraina viene ipocritamente definita dal Cremlino, in fondo non è stata ovunque recepita nello stesso modo. Se le federazioni europee hanno cercato in tutti i modi di spingere i propri connazionali a lasciare la Russia, non si può dire lo stesso, per esempio, di quelle appartenenti alla CONMEBOL. Infatti, la maggior parte dei giocatori sudamericani ha deciso di restare in Russia, una volta appurato che la loro sicurezza personale non fosse in pericolo. È il caso della colonia carioca dello Zenit, a cui non è mai passato per la testa di lasciare San Pietroburgo. Un contesto che, però, potrebbe presto cambiare in caso di prolungamento della squalifica da parte dell'UEFA: passi per un anno senza coppe europee, ma già due stagioni di fila comincerebbero a essere troppe. In quel caso, l'esodo degli stranieri dalla Russian Premier Liga, con un ulteriore impoverimento tecnico del torneo, diventerebbe inevitabile.

E gli ucraini? È dal 2014, anno dell'annessione russa della Crimea, che i giocatori ucraini trasferitisi in Russia vengono trattati alla stregua di traditori della patria. Il caso più eclatante, in tal senso, ha riguardato Yaroslav Rakitskyi, bandiera dello Shakhtar Donetsk che nel gennaio del 2019 decise di trasferirsi allo Zenit. Da quel momento non è stato più convocato in nazionale, nonostante fosse stato per lungo tempo il più forte difensore ucraino della sua generazione. Lo stesso Rakitskyi, nel frattempo divenuto uno dei leader dello spogliatoio della squadra pluricampione di Russia, pochi giorni dopo l'inizio del nuovo conflitto ha rescisso il contratto di comune accordo con la società. Al contrario, Anatoliy Tymoschuk - in passato capitano dello Zenit, ora nello staff tecnico di Semak - è rimasto nella città degli Zar, senza mai condannare pubblicamente la guerra d'invasione. La reazione del comitato etico della Federcalcio ucraina è stata durissima, con tanto di revoca di tutti i premi e le licenze ottenute nel corso della sua gloriosa carriera. Una vera e propria damnatio memoriae per quello che, ancora oggi, è il recordman di presenze nella nazionale ucraina, in tre occasioni eletto anche calciatore dell'anno. Un'altra leggenda del calcio ucraino, l'ex attaccante Andriy Voronin, a inizio marzo ha lasciato la Dinamo Mosca, dove ricopriva la carica di vice-allenatore, motivando così la sua scelta: "Non potevo più lavorare nel Paese che sta bombardando la mia patria". Altri giocatori ucraini, come il difensore Ivan Ordets (a sua volta costretto a dire addio alla nazionale in seguito al trasferimento in Russia) e il centrocampista Dmytro Ivanisenya, pur senza lasciare i rispettivi club, in segno di protesta si sono rifiutati di scendere in campo, almeno fino a quando la situazione non fosse tornata alla normalità.

Per quanto possibile, la Federazione russa ha cercato di tenere il più possibile separati il calcio e la guerra, rimanendo così in un qualche modo coerente con l'appello rivolto più volte a FIFA e UEFA secondo cui "lo sport dovrebbe essere separato dalla politica". Qua e là è comparsa qualche Z sugli spalti, ma almeno per il momento il calcio in Russia non è ancora diventato quel formidabile veicolo di propaganda che era stato in passato.

L'accademia del Krasnodar

La prima squadra colpita dalle sanzioni è stato il Krasnodar, il cui progetto virtuoso è probabilmente il più interessante emerso in Europa dell'Est nell'ultimo decennio. In attesa del primo trofeo ancora da conquistare, questo club fondato nel 2008 è ormai diventato una splendida realtà del calcio russo (e non solo: nel 2020 fece una buona figura anche nella fase a gironi della Champions League) grazie agli investimenti mirati di Sergey Galitskiy, un presidente illuminato in grado di ribaltare un po' tutti gli stereotipi sugli oligarchi. A lui si deve la creazione dello stadio più avveniristico dell'intero Paese e di un centro d'allenamento degno di un top club europeo, ma soprattutto la nascita di un'accademia all'avanguardia, che sforna talenti a getto continuo. E nel momento del bisogno è stata proprio l'accademia - il fiore all'occhiello della sua gestione - a salvare il Krasnodar.

Ancora prima che la FIFA si pronunciasse in merito, infatti, Galitskiy - pesantemente colpito dagli effetti delle sanzioni - aveva deciso di lasciare liberi tutti i giocatori stranieri per correttezza nei loro confronti, dal momento che non avrebbe potuto garantire il pagamento degli stipendi. Alcuni elementi importanti hanno direttamente rescisso (è il caso di Cabella, Claesson e del neoacquisto Botheim, mai impiegato), altri sono stati ceduti in prestito in Europa (Krychowiak, Vilhena) o in Sudamerica (Júnior Alonso, Wanderson), altri ancora hanno deciso di interrompere temporaneamente il contratto secondo le indicazioni della FIFA (Kaio, Cristian Ramírez, Jhon Córdoba, quest'ultimo pagato 20 milioni di euro la scorsa estate). E ad andarsene è stato pure il nuovo tecnico, il tedesco ex Norwich Daniel Farke, durato meno di due mesi, senza aver neanche disputato una gara ufficiale.

Invece di farsi prendere dal panico, Galitskiy ha offerto l'opportunità della vita ai ragazzi del vivaio - che si erano già fatti le ossa nel Krasnodar-2, da qualche anno una presenza fissa nella serie cadetta - promuovendoli tutti in prima squadra, assieme al tecnico Alexander Storozhuk, classe '81. E i risultati sono andati oltre ogni più rosea aspettativa: il Krasnodar è addirittura riuscito a migliorare la sua posizione in classifica, centrando un sorprendente quarto posto. La soddisfazione più grande Galitskiy l'ha raccolta al termine della sfida con il CSKA nella penultima giornata, vinta per 1-0 dai neroverdi, che hanno concluso l'incontro con undici giocatori tutti cresciuti nel vivaio: un evento storico che non si era mai verificato prima in Russian Premier Liga. Scelte peraltro in controtendenza con la politica attuata a inizio stagione dal Krasnodar, che si era privato di due suoi allievi prediletti come il centrocampista Utkin (autore di una super stagione a Grozny) e la promessa finora non mantenuta Shapi Suleymanov (così così in Turchia). Certo, una favola che forse non sarebbe stata possibile senza la presenza di veterani esperti come Martynovich, Gazinskiy e Ionov, o giovani già affermati come il portiere della nazionale Safonov e il fantasista armeno (nato però in Russia e cresciuto proprio nel Krasnodar) Spertsyan, ma che rimane uno dei pochi motivi di speranza a cui può appellarsi il calcio russo oggi. Il Krasnodar, puntando forte sul proprio settore giovanile e dando fiducia ai suoi ragazzi più dotati, ha indicato la via per sopravvivere: ora sta agli altri club russi adeguarsi.

Le intuizioni di Karpin

A causa della posizione strategica di Rostov sul Don, praticamente al confine con l'Ucraina, era inevitabile che la guerra avesse forti ripercussioni anche sul più importante club locale, il Rostov appunto. Negli ultimi anni si era costruita una bella colonia multietnica nel più grande centro della Russia meridionale: tanti giocatori scandinavi (tre svedesi, due norvegesi, più svariati nazionali islandesi nel recente passato), qualche africano e persino un giapponese. Della rosa cosmopolita del Rostov è rimasto però ben poco dopo l'invasione russa in Ucraina: tralasciando un centrocampista armeno e uno bielorusso (non più considerati come stranieri in RPL, al pari dei kazaki e dei tagiki), l'attaccante del Gambia Ali Sowe, cresciuto in Italia nel Chievo, è di fatto l'unico superstite. A differenza del vicino Krasnodar, il Rostov sembrava destinato a uno scenario ben più apocalittico, non potendo contare né sulla solidità economica di una proprietà forte né su un settore giovanile particolarmente sviluppato. Inoltre, a preoccupare i tifosi del club gialloblù - rivelazione europea della stagione 2016-17, nel corso della quale aveva ottenuto scalpi illustri in Champions (Anderlecht, Ajax e PSV Eindhoven), oltre allo storico successo contro il Bayern di Ancelotti - era soprattutto la precaria posizione di classifica, con il rischio concreto di essere inghiottiti nella lotta per non retrocedere.

Sull'orlo del baratro, il Rostov necessitava disperatamente di un salvatore della patria, materializzatosi nella figura del C.T. russo Valery Karpin, già alla guida della squadra tra il 2017 e il 2021, rimasto senza impegni in seguito all'esclusione della Sbornaya dagli spareggi per i Mondiali in Qatar. Grazie al suo innato carisma, l'ex centrocampista di Celta Vigo e Real Sociedad è riuscito a traghettare la squadra verso una tranquilla (e per nulla scontata) salvezza. Un traguardo raggiunto compattando il gruppo, sfruttando la vena realizzativa di un mai così prolifico Poloz (secondo nella classifica marcatori con 14 reti) e lanciando una serie di ragazzini di belle speranze. Karpin - che da Commissario Tecnico aveva rilasciato dichiarazioni forti come «non posso biasimare le federazioni di Polonia, Repubblica Ceca e Svezia se non vogliono disputare lo spareggio mondiale con noi: al posto loro, farei altrettanto» - dal nulla è riuscito a dar vita a un reparto difensivo dall'età media bassissima, smontando tutti i luoghi comuni secondo cui per salvarsi bisogna puntare sui giocatori di esperienza. Con la sua mentalità aperta e positiva, e con una visione di ampio respiro, ha dato una lezione all'intero movimento.

L'incubo del Rubin Kazan

Le pesanti sanzioni inflitte al calcio russo, inevitabilmente, non hanno generato soltanto storie a lieto fine. Un'autentica tragedia sportiva si è compiuta a Kazan, in una piazza che sognava in grande a inizio stagione. Dopo diverse annate anonime, con l'approdo di Leonid Slutskiy in panchina il Rubin era finalmente tornato ad alti livelli, concludendo nel 2021 il campionato al quarto posto e conquistando una qualificazione europea che mancava dalla stagione 2015-16. A un organico di per sé già competitivo, con l'astro nascente georgiano Kvicha Kvaratskhelia come ciliegina sulla torta, la dirigenza tatara la scorsa estate aveva aggiunto ulteriori elementi di spessore, come gli esterni d'attacco Dreyer e Hakšabanović, praticamente quanto di meglio potesse offrire il mercato del Nord Europa. Insomma, c'era di che essere fiduciosi. Eppure, fin dal principio, si percepiva che qualcosa non stesse andando secondo i piani prestabiliti.

Il Rubin, sulla carta una delle squadre meglio attrezzate in Conference League, era stato infatti clamorosamente eliminato al primo turno dai polacchi del Raków Częstochowa, con tanto di rigore sbagliato nell'ultima azione dei tempi supplementari (un refrain che si ripeterà nel corso della stagione, con esiti ancora più drammatici). E anche in campionato, nonostante un promettente avvio, la squadra si era presto inceppata. Un rendimento deludente che, tuttavia, non lasciava certo presagire a quanto sarebbe successo nell'infausto 2022. Una volta ritrovatosi senza stranieri - eccezion fatta per il difensore tunisino Montassar Talbi e per il centrocampista danese Oliver Abildgaard - il Rubin è rovinosamente crollato, perdendo tutte le sue certezze e inanellando una serie impressionante di risultati negativi (nove sconfitte nelle ultime dodici giornate, con punteggi tennistici come il 6-1 subito dal CSKA e addirittura l'umiliante 0-6 a domicilio contro il Sochi).

Niente in confronto allo psicodramma che i tifosi tatari avrebbero, però, vissuto nell'ultima giornata. Presentatosi allo spareggio-salvezza contro l'Ufa con due risultati su tre a disposizione, il Rubin era pure passato in vantaggio nel primo tempo, per poi essere raggiunto nella ripresa e infine superato al 90', con un evitabile gol subito in contropiede in seguito a un errore di Talbi (ironia della sorte, proprio il primo straniero che aveva deciso di restare a Kazan). Quello che è successo nei minuti finali, tra legni centrati e un altro rigore fallito all'ultimo secondo, si può spiegare soltanto come un accanimento del fato nei confronti di una squadra che, evidentemente, aveva il destino già segnato. Il povero Slutskiy si è così esposto alle feroci critiche dei suoi detrattori, secondo i quali è ormai diventato uno showman più che un allenatore: il fatto di essersi prestato, con balli e strofe rap improbabili, ai divertenti video realizzati dal Rubin sui social gli si è ritorto contro proprio nel momento più difficile della sua carriera.

I giocatori del Rubin avevano esultato così, con un tragicomico selfie di gruppo, dopo il gol del vantaggio firmato da Lisakovich nella sfida salvezza contro l'Ufa. A fine partita, sarebbe stato lo stesso attaccante bielorusso a condannare il Rubin alla sua prima storica retrocessione dalla massima serie, sbagliando il rigore decisivo a tempo scaduto. Esiste forse una beffa più grande?

Come hanno reagito i calciatori russi alla guerra?

Fedor Smolov, nel frattempo trasferitosi dalla Lokomotiv alla Dinamo Mosca, è stato il primo giocatore russo a esporsi contro la guerra, con un emblematico post su Instagram pubblicato il 24 febbraio che ha ricevuto numerosi apprezzamenti da parte di altri calciatori russi. Nei giorni appena successivi all'invasione, anche i gemelli Alexey e Vasily Berezutskiy - in quel periodo alla guida del CSKA - hanno espresso il loro disappunto, mentre il tecnico dello Zenit Sergey Semak (nato proprio nella regione di Luhansk) ha ammesso di essere preoccupato per i suoi parenti, residenti in buona parte in Ucraina. Sembrava fosse soltanto l'inizio di una lunga serie di prese di posizione contro la guerra e invece, di fatto, non ce ne sono più state. I disperati appelli di alcuni tra i più famosi giocatori ucraini, come Yarmolenko e Zinchenko, che imploravano i colleghi russi ad aprire gli occhi e a schierarsi, hanno paradossalmente ottenuto l'effetto opposto, anche a causa di qualche discutibile insulto gratuito (Mykolenko si era rivolto a Dzyuba, il cui padre è peraltro ucraino, apostrofandolo come "bastardo").

Un silenzio che è stato improvvisamente interrotto, proprio nei giorni scorsi, da Igor Denisov, ex capitano della nazionale e vincitore della Coppa UEFA e della Supercoppa Europea con la maglia dello Zenit. In una lunga e interessante intervista, la prima rilasciata dal 2019 (anno del suo ritiro), Denisov ha definito la guerra in Ucraina «un vero disastro, un orrore da fermare al più presto». Pur temendo per la sua incolumità («Forse mi arresteranno o mi uccideranno dopo queste parole, non lo so, mi limito a dire le cose come stanno»), l'ex centrocampista ha rivelato che aveva già fatto un appello a Putin, girando pure un video che però tutte le televisioni si erano rifiutate di trasmettere, così come i suoi avvocati gli avevano fortemente sconsigliato di pubblicarlo online.

Dal lucido discorso di Denisov emergono altri aspetti cruciali per capire come si sta vivendo la situazione in Russia, a cominciare dalle frequenti incomprensioni familiari causate essenzialmente dalla macchina della propaganda russa: «mia sorella è una persona sicuramente molto più colta e intelligente di me, eppure si rifiuta di credere a quello che sta accadendo in Ucraina. Probabilmente io la penso in modo diverso perché non guardo più la tv da anni». Altrettanto duro il suo atteggiamento nei confronti delle sanzioni inflitte al calcio russo dalla FIFA e dall'UEFA: «Sono a favore del ban. Se tutti i giocatori e gli allenatori russi si fossero opposti alla guerra, sarebbe stato sbagliato applicarlo. Ma dal momento che tutti se ne rimangono in silenzio, è giusto così. State zitti? Bene, allora dimenticatavi delle competizioni europee per i prossimi 10 o 15 anni».

Apprezzata soprattutto per i modi diretti e sinceri dell'intervistato, che già durante la sua carriera da giocatore aveva rivelato una personalità atipica e anticonformista, la dimostrazione di coraggio offerta da Denisov ha già smosso tante coscienze in Russia e potrebbe spingere anche altri sportivi a uscire allo scoperto. Perché, in fondo, anche loro sono delle vittime di questa atroce guerra.

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