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L'invenzione del calcio spagnolo
24 lug 2024
Come una nazionale perdente è diventata una superpotenza.
(articolo)
18 min
(copertina)
Foto di IMAGO / Bernd König
(copertina) Foto di IMAGO / Bernd König
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La statistica ha circolato molto: dal maggio del 2001 le squadre spagnole (nazionali e di club) hanno affrontato squadre non spagnole in 22 finali importanti (Champions League, Europa League, Coppa del Mondo ed Europei). E la squadra spagnola ha vinto tutte e 22 le finali. «La Spagna non gioca solo bene, è una squadra che conclude il lavoro» ha scritto Jim White sull’Independent.

È un dato che fa impressione, pur essendo aneddotico. È un periodo temporale così ampio, e che tiene insieme realtà e squadre così diverse, che è difficile trarne una lezione coerente. Se non che il calcio spagnolo è il più vincente della storia recente.

Tutto è iniziato da Aragonés, detto "il Saggio di Hortaleza". Un allenatore anziano, che aveva passato una vita intera nel calcio spagnolo. È stato una leggenda dell’Atlético di Madrid (per anni il miglior marcatore di ogni epoca, appena superato da Griezmann) e poi allenatore per una decina di squadre diverse. In panchina si era dimostrato un allenatore pratico, che preferiva costruire squadre reattive.

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Eredita una Spagna ai minimi storici, che agli Europei del 2004 era stata eliminata dal girone giocando molto male. Dopo il Mondiale 2006 prende una decisione forte che all’epoca genera polemiche e segna il futuro stesso di Aragonés come ct: fare a meno del totem Raúl e impostare una squadra che fa gioco di posizione dando le chiavi a Xavi. Bisogna ricordare che Raúl era il giocatore spagnolo più forte e riconoscibile all’epoca, il totem della nazionale dal Mondiale 1998; Xavi invece era considerato un giocatore monodimensionale, neanche titolare nel Barcellona di Rijkaard che aveva appena vinto la Champions League. Si parlava addirittura di una sua cessione in estate.

Per questo Aragonés va in rotta di collisione con la stampa e quando arriva agli Europei del 2008 sa già che sarebbe andato via in ogni caso. Aragonés si dà il compito di trovare un’identità per il calcio spagnolo e lo fa andando contro sé stesso. Il Barcellona di Rijkaard stava riscuotendo successo con un gioco offensivo che faceva convivere giocatori tecnici tra loro, e allora sceglie quella strada.

Abel Rojas su Ecos del Balon scrive: «Sotto la guida di Xavi, i passaggi corti e il possesso sono stati al centro dell'attenzione, ma con delle sfumature. La storia ha fatto di quella squadra del 2008 qualcosa di direttamente collegato al famoso “tiqui-taca”. Quello è arrivato dopo. Quella Spagna non aveva problemi a cedere il pallone per qualche minuto e ad aspettare difendendosi con una formazione 4-1-4-1».

Guardando oggi quella Spagna ci si accorge che non è troppo lontana da quella attuale. Non c’era il pressing, certo, ma l’idea di avere un gioco di posizione contaminato con molta verticalità non è distante da quella contemporanea. La Spagna di Del Bosque, quella del 2012, era un’altra cosa.

Xavi si muove per ricevere dietro la linea e serve l’assist per lo splendido gol di Fernando Torres che dà la vittoria dll’Europeo del 2008 alla Spagna. Un manifesto dell’impostazione verticale di quella Spagna.

Aragonés è riuscito a imporre un canone prima inesistente. Rispetto a quanto siamo abituati a pensare fuori dalla penisola iberica, quello spagnolo è storicamente un calcio fatto di stili eterogenei, come eterogenee sono la geografia e la popolazione del paese. Storicamente il carattere regionale ha avuto nel calcio una certa predominanza rispetto a quello nazionale. A calcio si gioca uno stile diverso tra squadre dei Paesi Baschi e squadre dell’Andalusia; la differenza che corre è la stessa che ci potrebbe essere tra calcio inglese classico e calcio turco.

Rintracciare un carattere nazionale, un modo per definire come si vuole giocare a calcio in Spagna non era possibile nel XX secolo: non c’erano caratteri comuni tra lo stile di gioco, le tipologie di giocatori scelti e quello che cercava il pubblico tra due grandi squadre come il Real Madrid e l’Athletic Club, per esempio. C’era una forte caratterizzazione tra come giocavano i club: il Real Madrid, il Barcellona, l’Atlético di Madrid o l’Athletic Club. Questi caratteri, però, erano quasi agli antipodi. Cruyff disse che la Spagna non aveva un'idea di gioco perché non aveva un'idea di nazione. I giocatori spagnoli venivano generalmente riconosciuti come tecnici, bravi nel passarsi il pallone, anche perché così erano i giocatori spagnoli più forti e riconoscibili, come Luis Suarez. La cosa si fermava lì.

Le Furie Rosse, insomma, erano un contenitore senza una vera e propria identità. Il soprannome nasce dall’idea di un gioco offensivo e aggressivo, per lo più immaginario e legato alla propaganda della stampa in epoca franchista. Basta vedere una partita della Spagna negli anni ‘70 o ‘90: definirla proattiva, offensiva, coraggiosa è impossibile. Nella realtà si prendevano i migliori giocatori dalle migliori squadre e poi in campo lo stile di gioco dipendeva molto dal ct, che doveva preoccuparsi di gestire ed evitare litigi tra fazioni diverse. La Spagna era una nazionale perdente, una delle più perdenti. Arrivava con grandi aspettative in ogni torneo e usciva puntualmente attorno ai quarti di finali, mai superati nei campionati del mondo giocati nel XX secolo.

Poi è arrivata la Spagna della Generazione d’Oro, il calcio spagnolo ha trovato il suo termine di riferimento nel “tiqui-taca” e tutto è cambiato. Se a livello di club la competitività era rimasta alta fin dagli anni ‘80, con la Generazione d’Oro anche la Nazionale ha aperto un ciclo vincente. Un ciclo nato prima dell’arrivo di Guardiola sulla panchina del Barcellona e che si è spento dopo 6 anni di dominio incontrastato.

La generazione che doveva ereditare la Nazionale vincente è rimasta schiacciata dalle aspettative: parliamo della nidiata che ha vinto l’Europeo under 21 nel 2013, quella di Isco, Thiago Alcantara e Morata. Una squadra che non ha mai superato gli ottavi di un torneo internazionale. Questo, però, è un momento interessante. Gli scarsi risultati potevano causare un ripensamento a livello federale e invece la rotta è rimasta immutata. Qualcuno diceva che si potesse fare quel calcio solo con i giocatori della Generazione d’oro, con la loro quantità di talento e col loro stile di gioco; ma questi discorsi sono stati ignorati.

Ma davvero si poteva vincere solo grazie ai fenomeni?

Le scelte forti della federazione

Le delusioni in sequenza dell’Europeo 2016 e del Mondiale 2018 avevano causato l'accantonamento immediato dei nuovi giocatori. L’arrivo di Luis Enrique ha causato un grosso cambiamento generazionale, che ha portato in Nazionale i giocatori dell’Under-21 campione nel 2019, allenata da Luis de la Fuente. Ha invertito il trend con la semifinale raggiunta a Euro 2020 e posto le basi per la vittoria del 2024. Dell’undici campione solo Dani Carvajal e Morata erano presenti nella squadra titolare del 2018, quella da cui Lopetegui fu cacciato a due giorni dal Mondiale. Ne scrivevamo così dopo l’eliminazione ai rigori contro la Russia agli ottavi: «Tutto il lavoro di Lopetegui per rendere la Spagna competitiva rispetto alle versioni precedenti è stato bruciato in poche ore. Quella vista in Russia è una squadra più vicina all’Europeo 2016 che alle qualificazioni per questo Mondiale. Doveva essere una squadra fluida, brava a recuperare il pallone e con a disposizione un piano B, quello della verticalità, in caso di difficoltà. È stata una squadra conservatrice, che ha inchiodato i giocatori alle loro posizioni e non ha sfruttato le alternative coerenti aperte da Lopetegui».

Non trovate che la descrizione delle intenzioni pre-Mondiale 2018 sia vicina a come potremmo descrivere lo stile di gioco della Spagna campione oggi? Perché effettivamente la Spagna del possesso puro, quella del tiqui taca o tikinaccio per capirci, finisce con il ciclo di Del Bosque nel 2016. Dal suo addio la Federazione ha imposto un riassestarsi dello stile di gioco verso un ritorno al gioco di posizione più marcato a livello giovanile e nelle scelte dei ct: Lopetegui, Luis Enrique e de la Fuente.

La Federazione aveva assecondato la scelta di Del Bosque di discostarsi dal gioco di posizione puro per abbracciare quello puramente associativo; una scelta dettata dall'idea di esaltare il tipo di talento della Generazione d’Oro. Una scelta risultata vincente e brillante nella versione della Spagna con 6 centrocampisti in campo all’Europeo 2012. Il calcio però aveva preso delle contromisure e ciò che andava bene nel 2012 è sembrato inadeguato nel Mondiale 2014 e nell’Europeo 2016.

Le avversarie hanno preso contromisure che la Spagna non ha saputo risolvere, mentre a livello di club restava vincente, con Barcellona e Real Madrid su tutte. Appena Del Bosque ha lasciato è arrivato il cambio di rotta della Federazione per rispondere meglio alle nuove esigenze portate dall’influenza di Guardiola e Klopp sulle nazionali.

Il Mondiale del 2018 e l’interregno di Hierro sono stati un incidente ma, anche quando non sono arrivati i risultati, la Spagna ha sempre mostrato idee coerenti a tutti i livelli

Queste idee possono essere sviluppate meglio o peggio, ma le linee guida restano le stesse; un aggiornamento del piano plasmato e messo in moto da Luis Aragonés nel 2006. La Spagna gioca in un certo modo e cerca allenatori che sviluppino questo stile, che tutti ormai conosciamo. Un flusso che facilita i passaggi dalle squadre giovanili alla Nazionale maggiore. La competitività poi passa dal fatto che dalle giovanili escano giocatori più o meno forti, ma la formazione a livello federale segue una metodologia costante.

La Spagna a livello di calcio giovanile è sempre stata una delle nazionali più di successo, ma in questo secolo ancora di più: con l’under 21 ha raggiunto 5 finali dell’Europeo vincendo 3 volte, con l’under 19 ha raggiunto 8 finali vincendo 7 volte, con l’under 17 ha raggiunto 6 finali vincendo 3 volte. L’aspetto più importante, però, è che con il metodo attuale c’è trasmissione diretta tra le squadre che vincono a livello giovanile e la nazionale maggiore.

I tre grandi bacini di talento del calcio spagnolo

Fin dalle sue selezioni giovanili la Spagna si nutre soprattutto dai tre principali bacini del calcio spagnolo: quello basco (che comprende anche la Navarra), quello catalano (che comprende Catalogna, Valencia e Isole Baleari) e quello madrileno. I bacini sarebbero di più, aggiungendo quello andaluso, quello asturiano, quello canario e quello galiziano. Ultimamente, però, producono meno, con qualche eccezione - come l’andaluso Isco, il canario Pedri o il galiziano Iago Aspas. In termini generali la grossa parte della Nazionale spagnola, fin dalle sue selezioni giovanili, attinge principalmente dai tre bacini, che corrispondono anche alle tre regioni più ricche della Spagna e quelle dove ci sono le squadre con le migliori infrastrutture e coaching anche a livello giovanile: Athletic Club, Atlético di Madrid, Barcellona, Real Madrid e Real Sociedad. Se si vogliono ricercare le ragioni dello sviluppo del talento in certe aree geografiche, come sempre, non si va lontano dai soldi e dalle risorse materiali.

Dei 26 giocatori portati all’Europeo dalla Spagna solo 5 non arrivano da questi 3 bacini: Jesús Navas, Pedri, Fabián Ruiz, Ayoze Perez e Joselu. Va aggiunto l’asterisco a Le Normand, passato a 19 anni dalla Francia alle giovanili della Real Sociedad, dove ha completato la formazione ed è diventato professionista. Dell’undici titolare non vengono dal bacino basco, catalano o madrileno solo Fabián Ruiz e Pedri (che poi ai quarti è uscito dai giochi in favore del catalano Dani Olmo). E questo era vero anche per la Generazione d’Oro: l’undici titolare, nel suo apogeo di Euro 2012, era basato interamente sui tre bacini di riferimento, escluso l’andaluso Sergio Ramos.

La continuità tra nazionali giovanili e nazionale maggiore

Le nazionali giovanili lavorano bene e la squadra di oggi ne ha usato il lavoro in modo esemplare. Nico Williams ha fatto tutta la trafila delle giovanili spagnole e in Nazionale Luis Enrique gli ha chiesto di fare le stesse cose che faceva già con l’Under 21. Stessa cosa successa con Lamine Yamal, passato in pochi mesi dall’under 17 alla Nazionale maggiore come nulla fosse. Certo parliamo di un fenomeno, ma i punti di riferimento tattici, le richieste nei suoi confronti, insomma il suo gioco, era lo stesso tra la Spagna under 17 e quella maggiore. Col paradosso che è riuscito a segnare un gol molto simile allo stesso avversario tra Europeo Under-17 ed Europeo, nel giro di un solo anno.

I talenti spagnoli, insomma, crescono e fioriscono su un territorio comune, sviluppano lo stesso linguaggio calcistico e abitano lo stesso ecosistema. Così quando giocano in Nazionale, non cambiandogli i riferimenti, sembrano giocare in modo semplice un calcio complesso.

La nascita dei Lamine Yamal non è possibile da prevedere, è un tipo di talento fuori dal tempo e dallo spazio, ma il percorso di Nico Williams è perfettamente indicativo del lavoro fatto a livello federale. Luis Enrique e de la Fuente lo hanno accompagnato non chiedendogli mai nulla di diverso da quello che faceva col suo club. Fino al 2022 con l’Athletic giocava da ala destra, cercando di arrivare spesso sul fondo, e così è stato schierato nella Spagna anche da Luis Enrique. Quando dal 2023 ha iniziato a giocare a sinistra nell’Athletic Club, a pulire le scelte col pallone e a diventare un giocatore più incisivo in area di rigore (esplodendo nella scorsa Liga), ecco che pure nella Spagna viene spostato a sinistra.

Nico Williams e Lamine Yamal sono stati l’ingrediente principale aggiunto rispetto all’Europeo precedente e quello fondamentale per vincere.

I settori giovanili dei club e il rapporto con la Nazionale

Mentre la Spagna vince l’Europeo la Liga sta vivendo una flessione. Il campionato ha perso potere di acquisto nei confronti della Premier League e solo il Real Madrid oggi ha una squadra per competere per vincere la Champions League. Dei 26 convocati della Spagna campione ben 11 fanno parte di squadre esterne alla Liga. I migliori allenatori spagnoli usciti negli ultimi anni oggi lavorano all’estero (Guardiola, Arteta, Xabi Alonso, Unai Emery, Luis Enrique, Iraola, Mendilibar). Un panorama ben diverso da quello vissuto dalla Spagna durante la Generazione d’Oro.

L'impoverimento della Liga ha finito per generare paradossalmente degli effetti positivi. Nell’ultimo periodo le squadre impoverite economicamente hanno dovuto prestare più attenzione al settore giovanile, ottenendo grandi risultati in campionati.

Nelle classifiche dei club “formatori”, cioè quelli che non si limitano a lanciare giocatori ma li usano nella rosa, le squadre della Liga sono sempre in cima. L’esempio classico è l’Athletic Club, ma il più virtuoso degli ultimi anni è senz'altro la Real Sociedad.

Il club basco ha adottato una strategia molto precisa: 60% di giocatori cresciuti nelle giovanili e un 40% preso da fuori, e così ha costruito nell’ultimo lustro una squadra stabilmente in zona europea. La Spagna campione ha nelle rotazioni 4 giocatori della Real Sociedad: Le Normand, Zubimendi, Merino e Oyarzabal (5 in totale col portiere di riserva Remiro). La Real Sociedad di Imanol Alguacil fa a sua volta un gioco di posizione che ha molti punti in contatto con quello della Spagna.

Anche il Barcellona si è trovato costretto a puntare molto di più ora sulla Masia rispetto a qualche anno fa, forzando un ricambio generazionale che ha concesso tanti minuti ai migliori talenti della Masia. Uno spazio che in condizioni normali non avrebbero avuto. Gli effetti sulla Nazionale sono chiari: Ansu Fati, Alejandro Balde, Gavi, Fermin Lopez, Lamine Yamal e Cubarsi sono tutti entrati nel giro della Spagna dopo essere arrivati nella prima squadra del Barcellona.

Oggi ci sono molti più principi tattici in comune tra squadra della Liga, almeno rispetto a vent’anni fa. La storia è sempre la stessa e ha a che fare con l’influenza che ha avuto il Barcellona di Guardiola nella Liga ormai 15 anni fa, proprio nel momento in cui è iniziato il periodo della Generazione d’Oro.

La Nazionale spagnola è pensata per sfruttare questo terreno comune. La Liga presenta ancora della diversità tattica interna, ma ci sono alcuni concetti ormai assodati come basilari per la maggioranza delle squadre della parte alta della classifica. Anche formazioni che non vogliono fare gioco di posizione come il Real Madrid di Ancelotti, ne hanno assorbito alcuni principi, e i giocatori sono tranquillamente in grado di integrarsi in una squadra che lo pratica. Carvajal ne è un esempio.

Dani Carvajal è stato uno dei giocatori chiave della manovra della Spagna campione. Nell’azione del gol di Nico Williams in finale si nota come si è integrato bene in una squadra che fa gioco di posizione. Si muove per ricevere un passaggio in verticale dietro la linea di pressione inglese, poi di prima trova il movimento dietro l’altra linea di Lamine Yamal.

La Spagna è da anni pensata come un club, ma la differenza di questa versione è la naturalezza con cui i giocatori hanno trasportato il loro stile dal club alla Nazionale.

In parte c'entra che sono allenati da tecnici spagnoli. Questo vale per le stelle Rodri, Pedri, Fabián Ruiz, Lamine Yamal, ma anche per giocatori meno essenziali: i due centrali Laporte e Le Normand sono due che conoscono ormai a menadito i principi di gioco, e così altri che entravano dalla panchina: Zubimendi e Merino a centrocampo, Oyarzabal in attacco. Quando in finale è uscito per infortunio Rodri ed è dovuto entrare Zubimendi, è riuscito a interpretare il ruolo nello stesso modo e a mantenere uno standard non tanto dissimile dal compagno.

Quando Cruyff arrivò sulla panchina del Barcellona scelse subito come rinforzi 7 giocatori baschi: Bakero, Goikoetxea, Begiristain, Salinas, Valverde, Rekarte, Unzué. L’idea era che il loro gioco aggressivo e verticale si sarebbe potuto integrare bene con il gioco di posizione che stava pensando per il Barcellona. Gli ha quindi insegnato il gioco di posizione e soprattutto Bakero, Goikoetxea e Begiristain sono diventati giocatori chiave per la sua squadra per anni. Quando poi andavano in Nazionale, anche se allenati da un basco come Javier Clemente nel 1994, all’interno di un 5-4-1 reattivo, non funzionavano.

La Nazionale spagnola degli anni ‘90 non riusciva a creare un contesto tattico che permettesse alle sue tante anime di esprimersi. L’opposto di quanto visto negli ultimi anni. Possiamo dire che la scelta di un allenatore cresciuto internamente come de la Fuente è stata fatta proprio per marcare ancora di più l’idea. Negli ultimi dieci anni Luis de la Fuente ha allenato la Nazionale Under 18, Under 19, Under 21 e Olimpica. Conosce a menadito tutti i giocatori spagnoli usciti negli ultimi anni, e loro conoscono lui. Fabián Ruiz, Cucurella, Dani Olmo hanno tutti offerto il meglio con la maglia della Nazionale. Prima nell’under 21 e ora nell’Europeo.

Luis Enrique aveva avuto un approccio diverso. Aveva provato a incidere di più sulla lavagnetta, chiedendo maggiori scambi di posizione, inventandosi per questo Dani Olmo o Asensio falsi nove. La sua Spagna si era infine scontrata con l’incapacità di trasformare in gol la mole di gioco creata. De la Fuente è tornato a una versione meno complessa e però più efficace.

Non è servito nemmeno che Morata fosse troppo preciso sotto porta. Le due ali sono arrivate in forma stratosferica, così come Rodri; e si è vista la migliore versione possibile di giocatori come Cucurella, Fabian Ruiz e Dani Olmo.

La continuità però è evidente: la Spagna di Luis Enrique aveva raggiunto la semifinale nel 2021 col falso nove, e con un tridente Ferran Torres, Dani Olmo, Oyarzabal; la Spagna di de La Fuente aveva giocato la finale olimpica la stessa estate col falso nove nel tridente Asensio, Oyarzabal, Dani Olmo. Entrambi i tecnici usavano un centravanti dalla panchina (Morata e Rafa Mir). Le due selezioni, insomma, si imitavano a vicenda.

Ora che la Spagna di de la Fuente è tornata a giocare con una prima punta pura titolare, Morata, ecco che la Spagna under 21 di Santi Denia ha giocato l’ultimo Europeo nel 2023 con una punta pura titolare in campo, e cioè Abel Ruiz. La squadra olimpica (sempre guidata da Santi Denia) replicherà la cosa scegliendo tra Abel Ruiz e Samu Omorodion (attuale titolare del nuovo ciclo dell’under 21). La Spagna under 21 è privata ora dei suoi migliori talenti, perché stanno già con la squadra maggiore, ma anche usando quelli di seconda fascia replica lo stesso stile di gioco ed è arrivata alla finale dell’Europeo 2023, persa contro l’Inghilterra (un’altra nazionale che a livello federale prova a ragionare come un club).

È questa la principale lezione da cogliere nel successo della Spagna: quello che fino al 2021 sembrava un progetto fallito, o comunque non più all’altezza, è sbocciato fino a tornare vincente. Con una rosa ancora giovane promette ora di rimanere ai massimi livelli ancora a lungo. Vale per la Nazionale maschile come per quella femminile, campione del mondo la scorsa estate applicando lo stesso progetto e le stesse idee.

La Spagna che ha giocato il miglior calcio della competizione e battuto in sequenza le tre maggiori candidate alla vittoria alla vigilia, sembra aver trovato la formula perfetta. Ma non è una scienza esatta: ha trovato la sua identità tattica e l’ha perfezionata attorno al talento che producono le squadre spagnole. La Spagna riesce a esaltare il tipo di talento che il calcio spagnolo offre in abbondanza, e che si lega con le richieste del calcio contemporaneo, proattivo con il pallone.

«Se non siamo la Spagna, non avremo alcuna possibilità di vincere. Dobbiamo essere riconoscibili» aveva detto de la Fuente prima della vittoria. L’identità di questa Spagna non è più quella del possesso puro, in questo Europeo per tre volte ha avuto meno possesso palla degli avversari (contro Croazia, Germania e Inghilterra) ed è una cosa che non succedeva dal 2008. Ma è un'identità in continuità col lavoro fatto negli ultimi anni: «Ciò che non è negoziabile è il progetto, cerco di introdurre piccole sfumature per migliorare il grande lavoro che si sta facendo nel calcio spagnolo» aveva detto de la Fuente nella sua conferenza di presentazione come ct nel 2022. «Le generazioni precedenti ci hanno mostrato la strada», ha detto Rodri dopo la vittoria dell’Europeo: «Alla fine, capitare nel lato difficile del sorteggio è stata una benedizione. È una dimostrazione della mentalità della squadra. È una cosa che si coltiva; molti di noi sono stati campioni a livello di under 19 e under 21. Il CT sapeva cosa stava facendo».

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