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Il senso profondo del Calcio Storico
01 mar 2024
Lo abbiamo chiesto a Dario Nardini, autore di un libro fondamentale sul tema.
(articolo)
21 min
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Foto di Ignacio Calcagno / Imago
(copertina) Foto di Ignacio Calcagno / Imago
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Il calcio storico fiorentino ha conosciuto negli ultimi anni una strana popolarità, anche se il modo in cui è stato raccontato ha spesso avuto a che fare con toni sensazionalistici per il registro violento che esprime. Oltre la violenza, però, c’è molto altro. Dario Nardini, antropologo e scrittore, ha pubblicato con Olschki un libro dedicato al tema, uscito a fine novembre. Si intitola “Il calcio storico fiorentino” ed è l’analisi del fenomeno più completa che possiate trovare. Lo abbiamo intervistato riguardo il suo libro e il calcio storico in generale.

Il calcio storico è una di quelle cose che da dentro ti dicono: “come si fa a spiegarlo”, "se non ci stai dentro non puoi conoscerlo". Tu come hai fatto a rompere questa pellicola di diffidenza e di ineffabilità che questo tipo di culture cercano di preservare?

Esiste questo aspetto “iniziatico” nel Calcio Storico, e soprattutto tra i calcianti, cioè in quella parte dei protagonisti della manifestazione che scendono in campo sul “sabbione” di Santa Croce.

È una barriera che (semplificando) ha due funzioni: una è quella di definire un gruppo esclusivo cui solo pochi hanno accesso, per le capacità, il coraggio e la forza fisica e di volontà che sono richieste. È così che i calcianti diventano degli “eroi locali”, secondo le dinamiche sociali che cerco di descrivere nel libro. La seconda mi sembra corrisponda invece più a un tentativo di affermare la legittimità della pratica di fronte a chi la condanna, vedendo solo brutalità e violenza là dove invece i soggetti coinvolti vedono legami e valori profondi, talvolta vitali nell’economia della loro esistenza.

Non so dirti se effettivamente sono riuscito a rompere la barriera di diffidenza che giustamente segnali. Probabilmente, ci sono riuscito solo con alcune persone, quelle con cui sono entrato davvero in confidenza, e con le quali ho instaurato una relazione di fiducia. In questo, mi ha aiutato sia essere fiorentino che aver frequentato per tutta la vita le palestre e gli ambienti – fiorentini e non – in cui si praticano discipline di combattimento (judo soprattutto, ma anche pugilato, MMA e brazilian jiu jitsu). Anche se in quel momento vestivo i panni del ricercatore universitario, il fatto di aver praticato sport da combattimento mi ha aiutato a chiarire ai miei interlocutori che non interagivo con loro da una posizione giudicante o pregiudizialmente denigratoria.

Da un certo punto di vista, credo che mi abbia aiutato anche essere uomo, nel confronto con un ambiente quasi esclusivamente maschile. Voglio dire, sono convinto che una ricercatrice donna avrebbe potuto vivere esperienze, creare relazioni e offrire una prospettiva assolutamente peculiari e utili alla conoscenza di un ambiente come quello del Calcio Storico. Ma sarebbe forse servito più tempo, e una studiosa avrebbe avuto magari un accesso meno “diretto” a certe situazioni e a certe dinamiche (la vita di spogliatoio, per esempio).

Che importanza ha “la partita dell’assedio” per la rievocazione attuale del calcio storico, che tipo di caratteri ha fissato nel tempo?

La “partita dell’assedio” è quella che i fiorentini della Repubblica del 1527-1530, stremati da un assedio prolungato da parte delle truppe di Carlo V che voleva reintrodurre i Medici in città, giocarono in Piazza Santa Croce il 17 febbraio 1530 in scherno al nemico, come a volergli dimostrare che Firenze poteva essere sconfitta militarmente e controllata politicamente, ma i fiorentini mantenevano il loro spirito fiero e indipendente. È questa la partita che viene rievocata nella manifestazione attuale, con la sfilata del Corteo che riproduce i costumi e i simboli delle milizie e delle istituzioni cittadine del periodo repubblicano, e i calcianti che vestono invece i panni dei militi che, nonostante le circostanze, non vollero rinunciare a festeggiare il carnevale con la tradizionale partita di “calcio”.

Testimonianze, personaggi e dettagli delle cronache d’epoca vennero progressivamente sistematizzate e romanzate nel corso dell’Ottocento – in un momento, cioè, in cui proprio sulle vicende e sulle glorie del “Rinascimento” si andava costruendo l’idea di un’identità condivisa dall’Italia in via di formazione. Nell’episodio (o meglio, nel racconto dell’episodio) i dirigenti fascisti della fine degli anni ’20 videro un ottimo pretesto per celebrare la maschia fierezza dei fiorentini e le radici storiche della stirpe italica, e sovvenzionarono una task force di esperti, tecnici, intellettuali e studiosi locali per arricchirlo di immagini e riferimenti e metterlo poi in scena con una magnificente parata che si facesse veicolo di tutta la pompa della retorica di regime. A pennello cadeva il quarto centenario dell’episodio (e della morte del condottiero Ferrucci, caduto proprio mentre difendeva Firenze durante l’assedio e osannato dai gerarchi fiorentini e da quelli nazionali). Così, nel 1930 comincia la storia moderna del Calcio Storico come rievocazione.

Interessantissimo è notare che subito dopo la guerra, dal 1947, le amministrazioni che si incaricarono della ricostruzione si impegnarono senza indugi nella reintroduzione della manifestazione, riproponendo la narrazione della “partita dell’assedio” identica nella forma (nei “significanti”), ma completamente reinterpretata nel contenuto (nei “significati”). I fiorentini della “libera repubblica” che giocarono al calcio di fronte al nemico assediante diventavano a quel punto esempi di autodeterminazione e di resistenza di fronte a chi voleva imporre con la violenza un potere autoritario sulla città. Nei decenni successivi, la narrazione ha mantenuto una straordinaria plasticità, e l’episodio è stato caricato di un valore esemplare rispetto a una certa idea di “fiorentinità”, cioè di un’immagine stereotipata e stilizzata dei fiorentini.

Nel tuo libro si fa menzione più volte al concetto di “fiorentinità”, come si può riassumere questa idea?

Dall’immediato dopoguerra, la narrazione della “partita dell’assedio” continua a essere consolidata e divulgata dai protagonisti della manifestazione. Proprio a partire da questo periodo, essa trova una fortunata risonanza con una rappresentazione della “fiorentinità” che si è andata consolidando nel senso comune, anche grazie alle interpretazioni letterarie e artistiche che ne sono state fatte, a partire da Amici Miei di Mario Monicelli (1975), che segna la cifra della “fiorentinità” (e della “toscanità”) nel cinema, e che influenzerà il modo di fare satira degli autori e interpreti delle generazioni successive (Benvenuti, Monni, Benigni…).

Fuori dal registro satirico, l’altro “maestro” fiorentino del cinema, Franco Zeffirelli, ha contribuito a sua volta a sancire la centralità del Calcio Storico nella rappresentazione della "fiorentinità", in un cortometraggio dedicato alla sua città, Firenze, prodotto in occasione dei Mondiali di calcio Italia ’90, nell’ambito del progetto “12 registi per 12 città”, in cui portava sullo schermo proprio il Calcio Storico e i suoi protagonisti in costume.

In questo articolato processo, la narrazione della “partita dell’assedio” e i caratteri della “fiorentinità” che essa esprime si sono progressivamente rafforzati a vicenda (e non solo tra chi segue il Calcio Storico) come espressioni emblematiche, paradigmatiche (e in tutta evidenza parziali, stereotipiche) dell’essere fiorentini. Questo racconto si è incaricato di descrivere narrativamente quali sono le virtù (e i “difetti”) degli abitanti di Firenze, come se si trattasse appunto di una “essenza” che si tramanda per via ereditaria – e non, appunto, di un modo di raccontarsi, di un’interpretazione stereotipica e caricaturale di ciò che i fiorentini (almeno, certi fiorentini) amano pensare di se stessi. Il Calcio Storico è, tra le altre cose, una celebrazione di questa rappresentazione.

5. Nel libro spieghi che i quattro quartieri che si affrontano sono in realtà entità amministrative moderne. I partecipanti come vivono questa contraddizione? Quanto e in che modo il calcio storico incide sul tessuto sociale della città e sulle sue dinamiche?

I nomi dei quartieri che si danno battaglia a giugno in Santa Croce, e cioè Santo Spirito (Bianchi), Santa Croce (Azzurri), San Giovanni (Verdi) e Santa Maria Novella (Rossi), corrispondono a una divisione della città che risale al Medioevo. Rispetto ad allora, oggi la superficie urbana si è estesa molto, in un tessuto di “periferie” che sono la parte “vissuta” della Firenze contemporanea, quella in cui si concentrano le attività produttive, i servizi, le aree residenziali. È qui che le Associazioni di Colore – e cioè le entità giuridiche legate a ciascuna delle quattro squadre – hanno le loro sedi, e soprattutto le loro palestre, i loro campi e le strutture di allenamento, ed è dunque qui (e non nei quartieri storici) che esercitano le loro attività e il loro ruolo di catalizzatori sociali. Solo i Bianchi hanno potuto mantenere, almeno in parte, la loro “base” di giocatori, supporter e infrastrutture nel quartiere storico di Santo Spirito. In realtà molti calcianti arrivano anche dalla “città metropolitana”, e quindi dalle zone di provincia, e non è detto che abbiano un legame biografico né con il quartiere storico, né con quello in cui i Colori hanno oggi le loro sedi.

Ma, come sa bene chi segue il calcio e i movimenti legati al tifo, le logiche dell’appartenenza non sempre (anzi, in certi casi solo incidentalmente) seguono quelle della territorialità o del “sangue”. Altrettanto valore esercitano, appunto, i legami relazionali da una parte e quelli simbolici dall’altra. Così, se il quartiere moderno è quello in cui i calcianti si incontrano, si allenano, fanno “spogliatoio” e partecipano alle attività stagionali del Colore, il “quartiere storico” ha per tutti una valenza più simbolica: si sente di appartenervi perché la storicità che esso rappresenta permette di consolidare la connessione con la “tradizione” del calcio. Spesso questo legame simbolico viene “sancito” anche con la frequentazione più o meno assidua, da parte dei calcianti, di quelli che potremmo considerare dei veri “presidi” nel quartiere storico, vale a dire negozi, esercizi e soprattutto ristoranti che sono di solito gestiti da ex calcianti o da appassionati e che fungono da centri di aggregazione per chi, tra i membri delle quattro squadre, vive la sua quotidianità altrove.

Giano è uno dei calcianti più celebri degli ultimi anni.

Scrivi che è molto difficile ricostruire le diverse motivazioni che possono spingere a partecipare, al corteo o alla partita. Se però dovessi provare a sintetizzare, o anche solo a menzionarne qualcuna?

È difficile perché le motivazioni sono tante, dipendono dalle esperienze di vita di ciascuno, e a volte è complicato ricondurle a fenomeni sociali più ampi. Sicuramente quello che emerge trasversalmente è la volontà di celebrare (anche quando non la si conosce nei dettagli) la storia che ha reso grande la città, e in particolare le logiche culturali che attribuiscono a quella storia un ruolo “generativo” nei confronti dell’identità e del carattere dei fiorentini. Tanto nei membri del Corteo quanto nei calcianti, con importanti differenze nei modi e nelle prospettive, l’orgoglio di discendere da un passato e da antenati così illustri e la voglia di celebrarli rimettendoli in scena sono sicuramente motivazioni fondamentali per la partecipazione.

Chi fa parte della manifestazione, poi, gode di un certo riconoscimento sociale da parte di una porzione importante della popolazione locale. I membri del Corteo per l’effetto scenografico che le loro esibizioni in costume generano e per l’episodio e il periodo storico che rievocano (ma anche, in generale, per la consapevolezza di “rappresentare Firenze” quando sfilano: la questione della “fiorentinità”); i calcianti per il coraggio, per la forza e per lo status che viene loro riconosciuto: i più iconici, come dicevo, sono delle vere celebrità locali.

La carica emotiva che sfilare e combattere nel sabbione comporta, che tutti descrivono come incomparabile rispetto a qualsiasi altro evento della vita, sicuramente contribuisce molto a incentivare la partecipazione, sia in chi ha già avuto modo di provarla che in chi non vede l’ora di farlo.

Attorno alle attività che si estendono praticamente lungo tutto l’anno, sotto forma di esibizioni e sfilate per i membri del Corteo e di allenamenti o di altre iniziative sociali per i calcianti, si creano ambienti “fratriarcali”, fondati su legami intimi, profondi e mutualistici – e, poiché non basati su alcun tipo di interesse economico, si suppone più autentici che altrove – tra uomini, per cui tutti sono pronti ad aiutarsi in caso di bisogno. Questo crea un collante che, nel caso dei calcianti, è amplificato dalla necessità di sentire di potersi fidare dei compagni di squadra in campo, di sapere che non ti lasceranno solo e che ti copriranno le spalle nella “battaglia”.

Nel calcio storico ci sono due eventi: il corteo e la partita, qual è il rapporto tra questi due eventi, in che modo l’uno è necessario all’altro, per la loro funzione e per la cornice di senso in cui agiscono i partecipanti?

Negli ultimi anni il Calcio Storico ha attratto l’interesse dei media nazionali e internazionali: Vice, Pif e Netflix ci hanno girato dei documentari, è stato oggetto di un paio di pellicole, ci hanno fatto più o meno interessanti reportage (tra gli altri) il National Geographic, il New York Times e il Guardian – che l’ha definito “the most brutal sport on earth”. Al centro di tutte queste rappresentazioni c’è la brutalità radicale e scenografica del gioco, che suscita un interesse quasi morboso nelle testate e, evidentemente, nel loro pubblico. Un ruolo di semplice contorno viene assegnato ai personaggi del Corteo Storico della Repubblica Fiorentina, che quando va bene si guadagnano qualche decina di secondi di riprese, o una fotografia tra le molte che invece ritraggono i calcianti in azione. Non si fa fatica, del resto, a comprendere il motivo.

Chiunque abbia una visione d’insieme della manifestazione sa bene che sia il Corteo, con i suoi costumi, i suoi colori, i suoi simboli e la sua gestualità, che le strade e le piazze iconiche in cui la manifestazione si svolge sono elementi determinanti e imprescindibili per il gioco. Sono questi aspetti “scenografici” e “drammaturgici” che permettono di leggere all’interno di una prospettiva di senso quella violenza che i media presentano in termini sensazionalistici, astraendola dal suo contesto. In questo modo, anche la brutalità del gioco acquisisce un significato specifico in relazione alla narrazione della “partita dell’assedio” e della “fiorentinità”. Un significato che può essere condiviso o meno, ma che rende gli attori in campo qualcosa di diverso da “quella sorta di relitti umani che generalmente associamo ai gladiatori”, di cui ha parlato il New York Times qualche anno fa.

Insomma, se i calcianti si sentono davvero dei “gladiatori” moderni – e, cosa fondamentale, se vengono riconosciuti in quanto tali anche da chi li guarda e li segue –, questo non dipende solo dalle loro imprese e dal loro coraggio, che comunque rimangono essenziali, ma anche dalla scenografia in cui quelle gesta si compiono (le strade e le piazze di Firenze), e dalla “coreografia” del Corteo che offre loro un plot narrativo entro il quale poter interpretare la loro “parte”. Se il Corteo mette in scena i fiorentini della “partita dell’assedio”, il loro coraggio e la loro fierezza, i calcianti con le loro gesta mostrano che quelle virtù non si sono perdute nel tempo. Per questo, secondo la stessa logica, la violenza diventa un ingrediente costitutivo e imprescindibile del gioco: quella che si mette in scena è una battaglia, e una battaglia è fatta di questo. D’altro canto, se venisse giocato in un palazzetto dello sport, senza la contestualizzazione “drammaturgica” del Corteo, il Calcio Storico perderebbe tutta la sua pregnanza, e rischierebbe di somigliare effettivamente, almeno per chi lo guarda, a una semplice zuffa.

Per i calcianti, la sfilata del Corteo diventa anche una sorta di catalizzatore di emozioni. Bisogna ricordarsi che il calcio fiorentino non ha le caratteristiche di uno sport “moderno”. La prima, evidente differenza è che il torneo si svolge una volta l’anno, con la cadenza di una liturgia più che di un campionato sportivo. I calcianti giocano una partita, se va bene due (semifinali e finale) in un anno. Tutta la preparazione stagionale, e l’investimento emotivo che la accompagna, si concentrano dunque su un unico momento, e l’apparato cerimoniale, come è facile immaginare, non fa che amplificare questa condizione, con la sua marcia lenta e cadenzata, i tamburi e gli squilli di tromba. L’aria è elettrica quando passa la sfilata coi calcianti prima della partita, la tensione tangibile. E tutto contribuisce a costruire il valore (e l’eroicità, e l’“onore”) di quello che i calcianti fanno in campo.

Il calcio storico nell’immaginario è una competizione in cui ci si picchia senza regole nel “sabbione”. Sappiamo però che non è davvero così, anche se un’insofferenza degli attori verso le regole esiste. Qual è il rapporto tra i calcianti e i regolamenti, e quindi tra i calcianti e le istituzioni che emettono quelle regole?

Molte delle regole che governano oggi le partite sono state introdotte di recente, in un tentativo (riuscito da molti punti di vista) dell’Amministrazione comunale che gestisce la manifestazione di ricondurre il gioco all’etica che caratterizza gli ambienti sportivi. Proprio per la “parte” che interpretano, quella appunto dei gladiatori contemporanei, e proprio perché quello che fanno non corrisponde in tutto e per tutto a uno sport, i calcianti non sempre hanno accettato di buon grado quelle che sentono come imposizioni e limitazioni.

Se lo scontro sul sabbione viene vissuto come una “battaglia” (le metafore guerresche si sprecano in relazione al Calcio Storico), beh in guerra non sono mica regole! Se quelli che i calcianti interpretano sono i militi della Repubblica, o comunque i rampolli fiorentini che giocando al calcio si preparavano alla guerra, allora lo sport (e le regole) c’entra poco o nulla. La straordinarietà di quello che i calcianti fanno, in fondo, più che dall’eccezionalità della performance atletica, dalla potenza espressa e dalla spettacolarità del gesto tecnico, dipende proprio da questo, e cioè dal fascino di poter assistere a una “battaglia”.

Credo che il Comune si renda perfettamente conto di questa realtà, che chiaramente però diventa difficile da adeguare costantemente alle sensibilità sociali nei confronti della violenza, del sangue e dell’esibizione della mascolinità che evolvono e riconfigurano di anno in anno le posizioni di alcune parti dell’opinione pubblica (e dell’elettorato) rispetto alla manifestazione.

C’è poi un’altra questione che ho cercato di affrontare nel libro ma che mi sembra complicata da trattare qui nella sua interezza. Rischiando di semplificare molto, dirò solo che molti calcianti provengono da ambienti che in maniera più o meno esplicita si distanziano dalle forme istituzionali di gestione della vita pubblica e in cui la fiducia nelle logiche della rappresentanza politica è non sempre elevata. Il fatto che una parte della società fiorentina “perbene” – che in buona misura coincide con quella che gestisce le istituzioni locali, o se non altro con quel livello sociale – mostri di non comprendere o di rifiutare la brutalità del gioco, non fa che acuire questo senso di distanza e l’impressione che, come dicevi tu, il Calcio Storico lo si possa capire solo dall’interno.

Si fa spesso menzione alla presenza di “cattivi ragazzi” un tempo alle partite, mentre oggi ci sarebbero dei borghesi che però praticano magari le arti marziali miste. Hai riscontrato questo tipo di cambiamento, e cioè un disciplinamento sportivo della pratica, e un cambiamento anche della morale dei partecipanti? La recente diffusione delle MMA ha davvero condizionato le dinamiche di gioco delle partite?

Esatto, come dicevo rispondendo alla domanda precedente, c’è stato da parte del Comune un tentativo di progressiva riconduzione del gioco alle regole che governano lo sport, con l’adesione tra l’altro del Calcio Fiorentino alla Federazione Italiana Giochi e Sport Tradizionali (FIGeST), associata al CONI, che ha condotto a una regolamentazione più rigida, a una responsabilizzazione dei Colori nei confronti dei loro giocatori, e anche all’istituzione di una commissione disciplinare e di un settore antidoping. Questi tentativi hanno avuto successo, un po’ per una convergente visione “politica” di una parte delle stesse dirigenze dei Colori che hanno visto nella possibilità di fare delle proprie sedi vere e proprie scuole sportive un’opportunità per fare gruppo, e un po’ per la parallela affermazione nel panorama sociale fiorentino delle MMA e delle discipline affini.

Progressivamente poi, e in funzione anche di questi cambiamenti, anche il gioco in campo si è evoluto, e le squadre dei quattro Colori sono ormai composte da atleti evoluti formatisi nelle varie discipline che possono avere un’utilità nel “sabbione”, tra cui appunto MMA e pratiche affini (bjj, muay thay, pugilato, rugby e sport di contatto in generale). Questo ha chiaramente portato a un cambiamento non solo nelle tecniche, nelle strategie e nelle pratiche concrete del gioco, ma anche in quella che potremmo definire l’“etica” dei giocatori, che comunque avendo avuto una formazione sportiva sono stati anche “socializzati” (diremmo noi scienziati sociali) a un atteggiamento quantomeno attento nei confronti delle regole, dei ruoli in campo e fuori, delle gerarchie, delle figure di riferimento eccetera. Il che ha aperto, come dici tu, alla possibilità di una partecipazione “borghese” e non solo “proletaria” al gioco (per quanto contino oggi, nel contesto a cui facciamo riferimento, queste categorizzazioni). Da questo punto di vista, però, è vero anche il contrario, e cioè che il grande successo internazionale delle MMA e la loro diffusione tra i ceti “medi” e tra i professionisti ha reso il Calcio Storico appannaggio anche degli atleti di quella estrazione sociale. Insomma, difficile generalizzare e capire se sia nato prima l’uovo o la gallina, e individuare una relazione causale univoca tra i diversi fattori.

È interessante il modo in cui descrivi il ruolo ambiguo assunto dai turisti. Da una parte servono a convalidare, col loro sguardo estraneo, l’importanza della manifestazione, dall’altra però rappresentano un’idea di città - mercificata, svuotata di senso, spopolata di residenti - verso cui la manifestazione è in conflitto. Ecco, che tipo di relazione esiste tra il calcio storico e i turisti e il mondo che rappresentano?

Questo aspetto è centrale secondo me nell’analisi, e corrisponde a una delle tante apparenti contraddizioni che hanno contribuito a tenere viva e in salute la manifestazione per tutti questi anni. Il Calcio Storico nacque nel 1930 anche su iniziativa e impulso dell’Ente Provinciale per il Turismo, e fu reintrodotto dopo la guerra anche con la speranza di rimpolpare le casse vuote dell’Amministrazione attraendo visitatori in città. Progressivamente, e soprattutto direi a partire dagli anni ’80-’90, questa funzione si perde completamente, e anzi si rovescia. Nella Firenze presa d’assalto dal turismo di massa, il Calcio Storico diventa un momento in cui calcianti e membri del Corteo possono tornare provvisoriamente a vivere da protagonisti le strade e le piazze che sanno essere al centro della storia della città, della quale sentono di far parte.

Come dicevamo, se la parte della città caricata di valenza storica e identitaria è quella compresa nel “centro storico”, diventato patrimonio Unesco nel 1982, questa è anche la parte da cui i residenti progressivamente sono stati espulsi da dinamiche economiche e sociali più grandi di loro, e forse più grandi anche della politica che non ha saputo fare molto per tenerle sotto controllo. Come è successo del resto in buona parte delle città storiche italiane (forse in tutte?), i costi degli affitti nel centro monumentale sono diventati proibitivi sia per chi ci viveva sia per chi ci lavorava, lasciando spazio quasi esclusivamente alle vetrine dei grandi marchi e all’industria turistica e dell’accoglienza. Questo ha generato una sensazione di “espropriazione” da parte di molte delle persone che nel centro storico e nel suo portato simbolico riconoscono un’eredità nella quale identificarsi. Insomma, da una parte certo l’attenzione turistica rafforza la convinzione di abitare nella “città più bella del mondo”, e dall'altra però non poter vivere (risiedendovi, lavorandoci, o anche solo frequentandolo nel tempo libero) l’iconico centro cittadino in cui quella gloria si è manifestata è per queste persone una specie di lutto. Il Calcio Storico offre dunque ai calcianti e ai personaggi del Corteo un’occasione per tornare a sentirsi parte della grande storia di cui si sentono eredi.

L’Amministrazione, d’accordo con le dirigenze del Corteo e dei Colori, ha recepito da tempo questa situazione, e ha adottato di conseguenza una politica particolarmente restrittiva sulla vendita dei biglietti. Per quanto ogni anno questo susciti malcontenti nella popolazione e negli ambienti legati agli stessi Colori, una parte dei biglietti vengono dati in prelazione alle quattro Associazioni di Colore e ai gruppi del Corteo, mentre gli altri vengono venduti solo a chi si presenta fisicamente nel giorno della vendita all’ufficio preposto, in numero massimo di quattro. Questo limita fenomeni di bagarinaggio e l’acquisto da parte di tour operator e, con tutte le criticità che un meccanismo di questo tipo comporta, dà una priorità alla popolazione locale.

Una critica che viene rivolta a questo tipo di manifestazioni è che mettono in scena un’identità inattuale e pericolosa: conservatrice, xenofoba, escludente; un’idea di mascolinità basata sulla virilità e l’esercizio della violenza. Cosa ne pensi?

Penso che sia senz’altro vero: come ho accennato in un passaggio precedente, quando si tirano in ballo concetti come quello di “identità”, di “comunità”, di “tradizione” – ma anche di “cultura” – il pericolo di scadere in una loro affermazione essenzialista, reazionaria ed esclusiva è sempre forte. Non credo tuttavia che la risposta a questo rischio sia eliminare questi termini dal nostro vocabolario e dalla nostra “cassetta degli attrezzi” per la comprensione delle realtà sociali: rischieremmo di perdere di vista realtà che esercitano una forza molto concreta nella vita delle persone. Se è legittimo dunque non considerarli come categorie interpretative, dovremmo se non altro mantenerli in quanto “oggetti” d’analisi.

Se come antropologi abbiamo un ruolo “pubblico”, ecco io credo sia anche quello di riportare costantemente l’attenzione sul fatto che quando si parla di “identità”, di “comunità”, di “tradizione” eccetera non si fa riferimento ai prodotti (necessari) di “tendenze” o “essenze” date e immodificabili, ma agli esiti variabili di processi storici, sociali, politici, culturali e forse anche cognitivi. Ricordando che le identità collettive corrispondono a delle costruzioni sociali e culturali, e che la “tradizione” su cui la costruzione identitaria si fonda è a sua volta costantemente reinventata in relazione a circostanze attuali, possiamo capire come questi siano anche concetti facilmente interpretabili e strumentalizzabili con scopi politici/ideologici (affermare i diritti di un gruppo sociale sugli altri, confermare un privilegio, escludere certi gruppi dall’accesso a determinate risorse…). Allo stesso tempo, però, mantenerli come oggetto d’analisi ci permette di comprendere la pregnanza che hanno nella vita sociale delle persone, al di là di qualsiasi interesse economico-politico.

L’entusiasmo con cui il Calcio Storico è stato reintrodotto e accolto nella Firenze del dopoguerra, per esempio, mostra, come ho in parte già detto, che l’idea di identità messa in scena dalla manifestazione è, per usare il termine di un importante studioso cui faccio spesso riferimento nel libro, “immaginata”, e di conseguenza variabile in base alle prospettive ideologiche a partire dalle quali viene promossa. Per quanto questa evidenza fosse ben chiara, ai tempi, ai membri dell’amministrazione antifascista impegnata nella ricostruzione, essa non impedì loro di impegnarsi per far ripartire la festa nel 1947 – con un sostegno si direbbe trasversale da parte dei fiorentini che vi parteciparono, da protagonisti o da spettatori. Questo mi sembra un indizio di quello che il teorico delle “comunità immaginate” di cui parlavo sopra, Benedict Anderson, aveva chiarito nel suo testo di riferimento, e cioè che le strumentalizzazioni politiche e ideologiche dei processi di costruzione delle identità hanno avuto e hanno tanta efficacia in alcuni momenti storici (lui ragionava specificamente attorno ai processi di costruzione delle identità nazionali) perché si fondano su una tendenza universale degli esseri umani, che è quella di immaginarsi come membri di una comunità che li trascende, fondata su alcuni elementi simbolici (la lingua, la bandiera, gli inni, l’idea di un “carattere” o uno spirito condivisi, ecc.) più che su una concreta e diretta relazione faccia a faccia tra tutti i suoi membri.

Un po’ più complessa da risolvere, almeno per lo spazio che ho a disposizione, è la questione della mascolinità virile e della violenza. Come dicevo in una delle risposte precedenti, la violenza rimane fondamentale, in un gioco che vuole assumere le caratteristiche di una “battaglia”. Negli ambienti delle Associazioni di Colore si riproduce e si alimenta una concezione del corpo, della fisicità e della mascolinità che mostrano senz’altro tratti anacronistici, ma che a me pare trovino spiegazione in dinamiche sociali ben più ampie. Il Calcio Storico, insomma, non mi sembra l’unico (né il più esemplare) contesto in cui oggi questo tipo di prospettiva viene veicolata: nella società euro-occidentale contemporanea l’idea della mascolinità come progetto virile di affermazione nello spazio pubblico, declinata in forme leggermente diverse, è trasversalmente dominante rispetto ai diversi ambienti sociali: lo vediamo nel cinema, nei modelli che ci vengono proposti dai media, nella stessa affermazione delle MMA a livello globale (ne avevamo parlato anche qui).

Una cosa che mi ha incuriosito molto durante la ricerca è che la figura dei calcianti, un po’ “malandrini” e un po’ iconoclasti, esercita un’attrattiva che ha sicuramente una forza maggiore in certi ambienti, ma che è tutt’altro che confinata a questi e si estende anzi in quelli da cui ci si aspetterebbe invece una presa di distanza. Secondo criteri quasi feticisti, il potere di seduzione dei corpi e della fisicità dei calcianti, così affini a un’idea quasi caricaturale della “virilità”, si esprime trasversalmente rispetto all’appartenenza sociale, al capitale culturale, e in certi casi anche alle prospettive politiche di chi li osserva. In occasione del Torneo del 2022, Florence Magic Moments, un account Instagram gestito da due giovani fiorentine che pubblicano post ironici su Firenze, ha postato una foto di due calcianti a torso nudo in azione, con due frasi scritte sopra a commento: “ambiente che riproduce e rinforza comportamenti maschilisti, sessisti e omofobi, mascolinità tossica legata a caratteristiche storicamente maschili come violenza, rabbia, forza fisica, e poi molti calcianti sono anche mezzi fasci”; e, a fianco: “Ci sono i cori” – intendendo per cori, probabilmente, le marce e gli inni del Corteo. La didascalia del post recitava: “Il nostro è un femminismo selettivo se ci sono i cori possiamo accettare tutto”, alludendo ironicamente al fatto che, appunto, a certe condizioni (e cioè la prestanza fisica dei calcianti, più che la forza legittimante dei “cori”), si possa anche fare un’eccezione alla critica del patriarcato e alla messa in discussione dei ruoli tradizionali di genere.

In passato ti sei occupato di lotta bretone e di surf, in contesti molto lontani da te, mentre ora ti sei occupato di una pratica riguardante la tua città. Qual è stata la parte difficile e cosa hai imparato facendo questo lavoro?

In realtà la tentazione di lavorare sul Calcio Storico si è fatta strada molto prima che l’occasione di farlo si presentasse. Mi sono formato in una scuola, quella senese, in cui la “storia delle tradizioni popolari”, e quindi lo studio delle articolazioni della società di cui noi stessi facciamo parte, costituisce uno dei principali temi di interesse. Da fiorentino e da praticante di sport di lotta, il calcio in costume, con tutta la sua aura di eccezionalità e di radicalità, ha sempre suscitato un fascino particolare in me. Ho sempre seguito le partite con interesse, ho sempre cercato di aggiornarmi su quello che succedeva nell’ambiente, mi ha sempre affascinato il radicamento sociale che la manifestazione, in forme e modi non sempre evidenti e non sempre dicibili, mostrava. Mi sono reso conto poi dell’effettiva rilevanza disciplinare del fenomeno quando ho svolto la mia prima vera ricerca etnografica in Bretagna, su una forma di lotta autoctona che vanta origini antiche, il gouren, e che è strettamente connessa con il processo di costruzione e di rivendicazione di una specificità culturale sul piano regionale nel corso del XX secolo. I dati emersi da quella ricerca mi hanno convinto (se ce ne fosse stato bisogno) che anche il Calcio Storico poteva rappresentare un caso studio proficuo per esplorare alcune delle tematiche centrali nella riflessione antropologica, quali la performance, le modalità di condotta del corpo, e soprattutto i processi sociali di costruzione dell’identità collettiva, della tradizione e della mascolinità.

L’idea rimase lì, un po’ sospesa e indefinita, mentre svolgevo la mia ricerca di dottorato sul surf in Australia (sulla Gold Coast). Lo scopo in quel caso era di esplorare non più i processi di rielaborazione simbolica, nell’ambito dello sport, dello scontro fisico tra individui, ma quelli dell’incontro/scontro tra essere umano e forze della natura. Svolgere una ricerca di questo tipo in Australia si è rivelato particolarmente producente, proprio in virtù del particolare rapporto col mare e con la spiaggia che nella cultura locale è stato storicamente elaborato. In questo caso, come suggerisci giustamente tu (e anche in quello bretone, per certi aspetti), l’esperienza di ricerca ha coinciso con un’immersione totale in una cultura e in modi di concepire e vivere il mare profondamente differenti rispetto ai miei, che sono nato e cresciuto ai piedi dell’Appennino: insomma, un’esperienza etnografica con tutte le caratteristiche di sradicamento e lo sforzo di approssimazione alle categorie dell’“Altro” che la contraddistinguono.

Rientrato in Italia, dopo la conclusione del dottorato, con grande soddisfazione ho avuto accesso a un finanziamento dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale (Ministero della Cultura), per svolgere una ricerca sul Calcio Storico e sul suo Corteo. Sono tornato così ad alcuni dei temi che, come dicevo, sono stati centrali nel mio percorso di formazione, quelli di un’“antropologia del noi” che legge la differenza culturale anche nei “dislivelli di cultura” interni alla nostra stessa società.

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