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Giocare per strada è davvero così importante?
27 mar 2023
Secondo Roberto Mancini il fatto che non si giochi più per strada è una delle ragioni per cui in Italia manca il talento.
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12 min
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IMAGO / ZUMA Press/Keystone
(copertina) IMAGO / ZUMA Press/Keystone
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Durante la conferenza stampa pre-partita contro l’Inghilterra, Roberto Mancini ha risposto così a una domanda sulle cause dello stallo del calcio italiano: «In Italia non gioca più nessuno per strada. Noi giocavamo 3-4 ore per strada e poi andavamo ad allenarci, oggi questo non accade più. Non è un caso se giocatori nascono ancora in quei paesi, come Uruguay, Argentina o Brasile, dove si gioca ancora molto per strada».

Sarà capitato un po’ a tutti noi di affrontare qualche volta il tema, anche al bar, o di sentire qualcuno parlarne. Del resto il gioco di strada fa parte del vissuto comune di molti appassionati di calcio. Non è insomma uno spunto nuovo, ma diventa interessante in questo momento così critico per il nostro movimento calcistico, aggravato ancora di più dalla brutta sconfitta rimediata dalla Nazionale inglese. Per questa ragione per una volta invece di derubricare questo dibattito a semplice chiacchiera da bar vale la pena di soffermarsi un attimo sulle parole del nostro CT.

Un problema complesso

Quella del “gioco di strada” è una questione che può essere affrontata da tanti punti di vista, perché riguarda problematiche sociali, economiche, ma anche più prettamente sportive, come le tecniche di allenamento. Partiamo innanzitutto da un interrogativo semplice ma che in qualche modo viene eluso da questo dibattito, e cioè perché non si gioca più per strada?

A questa domanda spesso si danno risposte vaghe e poco convincenti. Una delle principali è la tendenza delle nuove generazioni a preferire videogiochi e smartphone, qualcosa che si dice da una quarantina d’anni ormai, almeno per quanto riguarda i videogiochi. Per quanto possa essere vero che i più giovani oggi hanno delle alternative (non chiamiamole necessariamente distrazioni) rispetto anche solo a pochi anni fa, sembra un po’ semplicistico scaricare tutto il problema su una presunta mancanza di voglia nei confronti dello sforzo fisico delle nuove generazioni.

Va detto innanzitutto che giocare letteralmente per strada nella stragrande maggioranza dei casi, semplicemente, non è più possibile. Da una parte perché le inflazionate politiche sul decoro non si fanno problemi a vietare l’uso del pallone in ogni spazio pubblico, dall’altra perché quasi tutte le città italiane, soprattutto le più grandi (cioè quelle che contengono più famiglie e quindi bambini), sono pensate in primo luogo per le macchine, a scapito della sicurezza di pedoni e non solo (è un problema molto serio anche per i ciclisti, per esempio), figuriamoci per chi nelle strade vorrebbe giocarci a calcio.

Se in strada non si può giocare, allora forse bisogna allargare l’interpretazione, intendendo con “strada” anche i campetti di quartiere o comunque gli spazi che permettano il gioco. Anche in questo caso, però, la situazione è più difficile di quanto non sembri. L’Italia, infatti, ha un problema strutturale con gli spazi sportivi pubblici e praticare uno sport è sempre più complesso e soprattutto costoso. Per lungo tempo l’assenza di questi spazi è stata parzialmente colmata dalla Chiesa cattolica, che nella sua ambizione ecumenica aveva costruito campi e oratori (lo stesso Gnonto, ultima speranza della Nazionale italiana, è cresciuto giocando in un oratorio) accessibili più o meno a tutti. Ma oggi che anche il ruolo e la presenza della Chiesa sta lentamente declinando gli spazi urbani aperti in maniera gratuita sono sempre più ridotti, a causa della loro privatizzazione e trasformazione in luoghi adibiti a esercizi commerciali o centri sportivi a pagamento.

Proprio dell'importanza di campi facilmente accessibili anche in città fortemente urbanizzate parla il documentario francese Ballon sur Bitume (che trovate completo qui sopra), che collega la diffusione di campetti in cemento nelle periferie di Parigi alla crescita di alcuni dei migliori giocatori francesi dello scorso decennio.

Invece di colpevolizzare le nuove generazioni, quindi, forse bisognerebbe ragionare in maniera un po’ più ampia prendendo in considerazione il fatto che la maggior parte delle famiglie italiane hanno un reddito o un’organizzazione del tempo che non consente di accompagnare fisicamente con costanza figli e figlie a giocare all’aperto in zone che sono sempre più distanti.

C’è chi dirà che i Paesi citati da Mancini non brillano certo per benessere sociale diffuso e per accessibilità delle strutture sportive, il che è vero solo in parte. Senza la pretesa di esaurire tutto l’argomento in questo pezzo (ci vorrebbe un libro), la questione del “gioco di strada” più che con il reddito in sé ha a che fare con la struttura demografica delle città e la loro urbanizzazione. Su quante persone vivano in città e quante no, e quanto le città siano aperta al gioco e allo sport nei loro spazi. Se in Brasile, ad esempio, il calcio di strada è ancora rilevante è anche per via della sua peculiare storia per quanto riguarda lo sviluppo urbano.

Sarebbe poi semplicemente sbagliato abbracciare la visione del calcio come unica possibilità per emergere dalla povertà o per fuggire da un contesto familiare e sociale problematico. Davvero dobbiamo ritenere necessario dover passare per la sofferenza totale, per l’ossessione della sopravvivenza per liberare la creatività, per coltivare un talento, nel mondo di domani? Del resto, poi, non sono pochi gli esempi di calciatori di alto livello provenienti da famiglie benestanti o addirittura “figli d’arte”, che hanno raggiunto l’eccellenza anche grazie alla possibilità di poter dedicare più tempo all’attività che li appassionava, potendo godere di una rete di protezione familiare per gli insuccessi che molti non hanno. Non c’è un solo modo per emergere.

Il problema del gioco di strada dunque è ben altro che un capriccio strutturale di una federazione per poter attingere a un maggior bacino di talenti da sfoggiare nelle competizioni internazionali. È il riflesso di quanto tempo e passione, per cause positive o negative, si investono in un dato contesto giocando in strada, ma anche un elemento di forte ispirazione per adeguare i percorsi formativi, e anche gli allenamenti di più alto livello, a stimoli funzionali per aumentare le capacità di chi gioca. È possibile, quindi, in assenza di spazi e strutture adeguate “riprodurre” il calcio di strada all’interno di contesti diversi?

L’equivoco ricorrente

A proposito di questo, vale la pena cercare di capire se è vero che il calcio di strada sia così importante per formare dei grandi giocatori, e perché. Di questo tema hanno parlato diversi ex calciatori, non ultimo Johann Cruyff, che fa cominciare il primo capitolo di uno dei suoi libri più famosi, Fútbol Mi Filosofía, con la celebre frase “tutto comincia in strada”.

Spesso viene addotta come spiegazione tecnica il fatto che giocando per strada si svilupperebbero delle capacità di coordinazione di eccellenza che consentirebbero al giovane calciatore o alla giovane calciatrice di poter “ampliare il proprio bagaglio motorio” sviluppando delle capacità che sul campo di gioco non sarebbe altrimenti producibili. Per esempio “evitare di cadere per terra per non farsi male”, oppure calciare palloni di fortuna fatti con materiali di emergenza, o comunque non convenzionali, che consentirebbero di sviluppare una diversa “sensibilità del piede”.

Per tanto tempo si è cercato di compensare questo mancato sviluppo dell’agilità e della coordinazione made in the street integrando le attività di allenamento con una serie di esercizi che richiedono, per esempio, percorsi particolari a ostacoli, corse ritmate su scalette, varie tipologie di salti, step, skip e così via. Insomma, si è pensato che il calcio di strada fosse utile poiché formava una base fisica, coordinativa o di agilità, e si sono cercati altri modi per produrla, questa presunta base.

Questo modo di vedere le cose però ha qualche problema. Innanzitutto: che cosa intendiamo per coordinazione motoria? La definizione più frequente è “la capacità di effettuare qualsiasi movimento nella maniera più efficiente”, cioè saper svolgere un dato movimento in modo produttivo, dunque raggiungendo lo scopo per cui viene svolto. In altre parole siamo coordinati quando sappiamo muoverci per raggiungere uno scopo, anche quando la nostra organizzazione di movimento può risultare sgradevole esteticamente o quando – nel caso specifico del calcio, per esempio – l’impatto con il pallone può sembrare “sporco”.

L’unico criterio di giudizio della capacità di coordinarsi è dunque l’efficienza, ma anche come ottimizzazione della spesa energetica necessaria per svolgere l’azione (non mi dilungherò oltre sulla questione della variabilità dei movimenti e della fallacia della “riproduzione dei modelli tecnici”, ma se vi interessa questo filone sono argomenti che abbiamo già trattato in questi due articoli).

Uno dei video più incredibili mai prodotti dal calcio di strada, su cui abbiamo scritto anche un pezzo.

La funzionalità e il transfert, cioè il potenziale di conversione dall’allenamento alla performance in gara, hanno un’importanza inderogabile quando si parla di attività allenanti; dunque bisognerebbe sempre maneggiare con cura tutte quelle attività che sono lontane dalla natura del gioco.

D’altra parte, però, è anche vero che la varietà di contesti contribuisce a far sperimentare soluzioni differenti a problemi sempre nuovi, migliorando la capacità di adattarsi all’estrema variabilità del gioco del calcio. A tal proposito, per renderli più utili, quando si utilizzano mezzi estranei al modello del gioco per dare variabilità all’allenamento si potrebbe quantomeno evitare di impiegarli per forzare la riproduzione di un dato schema motorio, utilizzandoli piuttosto come pretesto affinché l’atleta esplori liberamente le proprie capacità di movimento. Per capirci: se si chiede a un giocatore di compiere un percorso a ostacoli o di percorrere una scaletta sarebbe forse più utile non imporgli anche “come” farlo per filo e per segno.

Possiamo sintetizzare il ragionamento così: anche se la varietà degli ambienti e degli strumenti di gioco può contribuire a migliorare la capacità di adattamento, non dovrebbe essere necessario giocare fisicamente in ambienti impervi prima di passare al cosiddetto livello successivo. E allora cos’è che ci affascina così tanto del gioco in strada? È davvero qualcosa che fa la differenza nello sviluppo di giocatori talentuosi?

Per rispondere a queste domande bisogna approfondire cosa rende speciale il calcio di strada, identificando tre elementi che lo caratterizzano. E cioè: auto-organizzazione, variabilità, tempo.

Tre elementi del gioco di strada

L’auto-organizzazione è il comportamento spontaneo che i sistemi dinamici complessi attuano per risolvere determinati problemi. Viene definita “auto” poiché non esiste, o quantomeno non ha una rilevanza decisiva, alcun tipo di controllo esterno o centralizzato che possa orientare in maniera lineare il comportamento del sistema complesso. Il controllo, la direzionalità di intenzione, piuttosto, sono generati spontaneamente dalle interazioni tra le componenti del sistema. Questa proprietà dei sistemi complessi è decisiva nel far sì che essi siano adattivi, cioè che riescano a evolversi per sopravvivere e superare gli ostacoli, e che fioriscano dei comportamenti emergenti, un’altra proprietà dei sistemi dinamici che fa in modo che essi trovino soluzioni alternative, inusuali.

Vi ricorda qualcosa? Giocare in strada, senza alcun tipo di controllo, trovare soluzioni emergenti all’interno di un contesto di gioco puro non sporcato da “mezzi allenanti”, sulla base della più genuina capacità di trovare da soli delle soluzioni.

Sulla variabilità ho già fatto un breve accenno: si tratta di una componente decisiva per fare in modo di “ripetere senza ripetere”, cioè ripetere il processo di adattamento a un problema senza ripetere un presunto modello risolutivo. Fare esperienza diversificando, anche in maniera impercettibile, situazioni dinamiche operative. Il gioco di strada può essere ritenuto potenzialmente una miniera d’oro della variabilità: un giorno il campo di fortuna della piazzetta è stretto e lungo, un altro largo e corto, cambierà la dimensione delle porte, la loro forma, la presenza di pali o muri, il numero dei giocatori, parità e disparità numeriche, le caratteristiche di chi partecipa; talvolta ci sarà persino la necessità di arrampicarsi o strisciare sotto un’auto per recuperare un pallone. Cambiando spesso spazi e modi di interazione, lo stimolo della variabilità è generalmente presente in maniera intrinseca nel gioco di strada.

Infine, il tempo. Un elemento menzionato esplicitamente dallo stesso Mancini, nella sua dichiarazione: «Giocavamo 3-4 ore per strada e poi andavamo ad allenarci». Giocare, ripetere, sfidare se stessi e gli altri per ore e ore e ore ogni giorno, ogni settimana. Tutto ciò oltre agli allenamenti organizzati. Un aumento del monte ore “pratico” senza eguali, che consente un’esplorazione ancora più profonda e reiterata del gioco, nella quale risiede l’essenza più intima della passione stessa. Non ne ho mai abbastanza, vado già ad allenarmi regolarmente perché magari faccio parte di una squadra, ma la pancia mi riporta sempre lì con il pallone tra i piedi, a sperimentare l’ultima giocata dell’idolo vista la sera prima, a sfidare ai dribbling familiari e amici, e così via.

Una sospensione dello scorrere del tempo, che viene accelerato nel vissuto di chi gioca dal magnetismo verso il pallone, verso la sfida: basta mettersi lì a provare un paio di calci di punizione con le tre dita o con l’esterno collo, che il tramonto ha già allungato inesorabilmente le ombre.

Auto organizzazione, variabilità e tempo. Elementi intrinseci nella cultura del gioco di strada, ma non necessariamente esclusivi del gioco di strada. I modi per riprodurli anche in contesti più apparentemente controllati e organizzati non mancherebbero, a ben vedere. Un buon modo, per esempio, sarebbe applicare un’idea di allenamento orientata sull’interazione, sulla spontaneità, sull’emergenza, sulla ripetizione senza ripetizione, in poche parole sul gioco stesso.

A proposito di interazione e spontaneità.

Sarà anche vero che il gioco di strada è scomparso o sta scomparendo, e con esso anche il suo valore aggiunto. Ma non per questo chi opera nel calcio dovrebbe rassegnarsi all’idea di non poter fare nulla per aiutare il talento a emergere. Non possiamo permetterci di essere fatalisti.

E se non possiamo intervenire direttamente sulla realtà sociale spingendo le amministrazioni a investire di più in spazi sportivi pubblici e facilmente accessibili, se non con percorsi molto lunghi, possiamo invece ricalcare gli elementi che rendono il gioco di strada realmente formativo e cercare di applicarli come paradigma anche in contesti più controllati. Banalmente, mettendo al centro di tutto il gioco stesso e chi gioca.

Valorizzando le interazioni, lasciando spazio all’espressione creativa, dando meno importanza agli schemi motori o di apprendimento prestabiliti e dandone di più alla varietà di stimoli, all’uso sapiente dei vincoli, a tutto ciò che può rendere il processo di gioco un’esplorazione e non un rigido programma da seguire. Così come avviene in strada. E magari, parallelamente, contribuire affinché la società di cui facciamo parte non renda sempre più complicato ed esclusivo il poter fare sport per più tempo possibile.

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