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Sandro Modeo

La formidabile onnipresenza del calcio svizzero

Storia di una delle nazioni co-fondatrici del calcio.

«In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento; in Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù». È il celeberrimo adagio del geniale e amorale contrabbandiere Harry Lime (un leggendario Orson Welles) nel Terzo uomo; adagio che al netto della rettifica successiva dello stesso attore-regista (gli orologi a cucù sono originari della Foresta Nera) sarebbe rimasto immortale se non fossero intervenute a scheggiarlo alcune eccezioni-rettifiche. Citiamo almeno, in ambito letterario, Dürrenmatt e Max Frish (e prima ancora, Robert Walser); e in ambito sportivo, campioni dello sci in ogni declinazione (Zurbriggen; Simon Ammann nel salto; Dario Cologna nel fondo), dell’atletica (il pesista Wernher Günthör) e naturalmente del tennis, con King Roger – che pure è mezzo sudafricano e per quella via, molto probabilmente, di ascendenze olandesi – in grado di riequilibrare da solo, almeno in parte, il gap artistico-estetico con tanti altri Paesi.

 

Quanto al calcio elvetico, sembrerebbe uno sport del tutto gregario, stretto in una dimensione, se non da orologi a cucù, di un’ordinarietà grigiastra. A lungo, specie per le generazioni nate nel dopoguerra e fino ai boomers, la “Svizzera” ha coinciso di fatto con l’omonimo hamburger o con uno dei due canali alternativi alla RAI (l’altro era Capodistria) per intercettare partite o eventi sportivi internazionali altrimenti interdetti. Invece, se si procede oltre i pregiudizi, la storia del calcio europeo risulta punteggiata, anzi permeata in ogni fibra, di Svizzera, a ogni livello, come proviamo a mostrare in questa trasvolata a volo d’aquila, in cui i club e la Nazionale rossocrociata sono solo il tratto principale in un intrico dalle molte ramificazioni, con svizzeri decisivi in altri Paesi e figure straniere che eleggono la Svizzera a officina avanguardistica. Parafrasando il titolo di un libro eccentrico di John Mc Phee, autore anche del più famoso Tennis (Il formidabile esercito svizzero, curiosa disamina di un corpo militare tanto incognito quanto esemplare, se Israele ne ha tratto ispirazione per il proprio) potremmo arrivare addirittura a parlare, per certi versi, della formidabile pervasività-onnipresenza del calcio svizzero.     

 

 

Le origini: la “seconda Inghilterra”

 

È noto come l’irradiazione primaria del football sia legata soprattutto, se non esclusivamente, alla bulimica espansione coloniale-commerciale dell’Impero di Sua Maestà, tra Otto e Novecento: ovunque ci sia uno scalo portuale, dalla Croazia al Brasile, marinai britannici calciano un oggetto sferico, spesso mescolandosi agli autoctoni, che ne vengono contagiati come da un virus o un batterio, diventandone addicted. Il contagio, ovviamente, si espande poi a Paesi non costieri, “d’entroterra”, a volte raggiunti direttamente, per dinamiche uniche (è proprio il caso elvetico).   

 

Un football “unruly” – senza regole – viene praticato in Svizzera addirittura già dai primi anni ’50 dell’Ottocento, in simultanea coll’outbreak d’oltremanica, in match giocati tra studenti locali e inglesi. La borghesia britannica spedisce in quei decenni molti “rampolli di famiglia” a formarsi nei college elvetici, in quanto è poi garantito, a titolo acquisito, un impiego in un Paese dall’economia in espansione, industria pesante e sistema bancario prima di tutto. E proprio in quei decenni – e in quei contesti urbani di “studio & business”- vengono fondati i primi club di calcio (e cricket), sia nella Svizzera francofona (a Losanna nel 1860, a Ginevra nel 1869) sia in quella tedescofona, dove, più che il Sangallo (1879) risalta il caso del Grasshoppers (1886), le “cavallette” (co)fondate da Tom Griffiths, uno studente di biologia e fan dei Blackburn Rovers, da cui viene mutuato il “palato” biancazzurro.

 

Questa liaison privilegiata elegge gli svizzeri, negli anni precedenti la Grande Guerra, a veri e propri “co-ambasciatori” (nel senso, meno generico, di co-diffusori e co-educatori) del football, in tutta Europa, facendone una “seconda Inghilterra”, come riassumono molti casi esemplari, con la contaminazione che si estende a diversi Paesi europei; vedi quello di Henry Monnier, “germoglio” di una famiglia di banchieri protestanti francesi, che si forma tra Ginevra e Liverpool prima di rientrare in Francia e fondare il Nimes; o quello di Walther Bensemann, figlio di un medico ebreo tedesco, a sua volta educato in un college svizzero e poi fondatore (ad appena 15 anni!) non solo del Karlsruhe, ma anche di Kicker, a tutt’oggi uno dei più gloriosi magazine di calcio. O vedi, ancora, il decisivo passaggio elvetico di tanti italiani, come il migrante siciliano Franceso “Franz “Cali, figura poliedrica di calciatore-militare, che deve il nickmame ai transiti a Zurigo e Ginevra; o lo stesso Vittorio Pozzo, in Svizzera per un biennio a studiare lingue e business, ma intanto aggregato nel roster – da riserva – del Grasshoppers.

 

 

….e l’irradiazione catalana (il Barça)

 

Il “caso dei casi”, però, è senz’altro quello di Hans-Max Gamper Haessig, poi semplicemente Kans o Joan Gamper, giovane svizzero di Wintertur, Canton Zurigo, che nel 1898 – in “pausa” dall’iter africano speso a monitorare nuove compagnie del commercio dello zucchero – raggiunge a Barcellona lo zio Emili Gaissert, da tempo stabilito in loco. Sono gli anni di ascesa massima della città, in cui la memorabile Esposizione Universale di un decennio prima è stata il terminale di un“impressionante sviluppo fuori dalle mura medievali”, tra boom industriale e nuove linee ferroviarie; e in cui il deliro neogotico della Sagrada Família di Gaudí è solo un nebuloso intrico piranesiano di colonne appena accennate tra masse squadrate di pietra e immani ponteggi. Gamper resta folgorato dalla città, trovando diversi impieghi bancari e aziendali, ma soprattuto inserendosi nei circoli e negli ambienti sportivi. Da praticante di quasi ogni disciplina (oltre al calcio, ciclismo, corsa, rugby, tennis, golf), diventa editorialista sportivo e membro del Gimnasio Solé; e proprio lì, il 29 novembre ’99 – raccogliendo un numero di adesioni impreviste di soci a un mese dall’appello pubblicato su Los Deportes – annucia la nascita dell’FC Barcellona, adottando i colori sociali dell’amato Basilea, a loro volta “etoniani”, col rosso però declinato in granata (e oggi sfumato a sua volta in cremisi).

 

Per un quinquiennio giocatore-capitano blaugrana (48 presenze e oltre 100 gol), Gamper diventerà presidente solo nel 1908, per salvare il club da un imminente fallimento, dovuto all’emorragia dei giocatori più dotati: e lo resterà – a singhiozzo – per un oltre un ventennio, segnando tappe cruciali del club come la dotazione di uno stadio proprio (il Les Corts, portato da 20.000 a 60.000 spettatori) o l’arrivo di un bomber d’eccezione (Paulino Alcàntara) e di un coach-spartiacque come Jack Greenwell, artefice della prima golden age blaugrana.

 

L’epilogo, com’è più o meno noto, è un inabissamento. Tutto comincia il 24 giugno 1925, quando – durante un’amichevole del Barça al Les Corts, in onore della “choral society” Orfeó Catalá – una banda inglese ospite, appena sbarcata e invitata allo stadio, intona prima la Marcha Real e a seguire God Save the King, ricevendo dal pubblico, nell’ordine, bordate di fischi e una lunga, commossa ovazione, a concentrare la tensione filo-independentista e anti-centralista. Da poco al potere, il neo-dittatore Primo De Rivera (l’archeo-Franco, appoggiato non solo dai latifondisti castigliani, ma anche da una parte degli industriali catalani) chiude lo stadio blaugrana per sei mesi ed espelle Gamper dal Paese, obbligandolo poi – al rientro, dopo un anno di “confino” svizzero – a non occuparsi mai più, in alcun modo, dell’ FC Barcellona. È un’interdizione brutale, per certi versi sadica, che richiama alla memoria quella impartita ad Arpad Weisz (uno dei tanti, grandi coach magiari, plasmatore di Ambrosiana Inter e Bologna), quando in un’Olanda nazificata viene dimissionato da coach del Dordrecht e costretto a seguire le partite dei suoi ragazzi “fuori dalle basse gradinate” dello stadio e “attraverso le fenditure della tribuna”; o nascosto dietro il botteghino dei biglietti, “coperto dal palo della bandiera olandese”.

 

Weisz morirà poco dopo ad Auschwitz (la sua famiglia – moglie e due figli – a Birkenau). Gamper – affondando in una depressione acuita dalle gravi perdite azionarie seguite al crash di Wall Street del ’29 – si sparerà alla tempia la mattina del 30 luglio 1930 nella sua casa di Calle Girona 4, lo stesso giorno della prima finale di un Mondiale.

 

Giustamente, quando si parla di Barça, la memoria corre pavloviana al trapianto del totaalvoetbal di Michels e più ancora al lungo magistero di Cruijff, giocatore, coach e “intellettuale”. Ma converrà ricordarsi come, oltre a uno Johan, molto abbia contato – prima – uno Joan (così Gamper per tutti e per sempre, anche per il suo catalano impeccabile, scritto e orale); ricordarsi, oltre che dell’identità olandese, della matrice svizzera.

 

 

Tra le due guerre, ovvero la Svizzera (il Grasshoppers) come laboratorio: Izidor “Dori” Kürschner…

 

Nel periodo tra la fine della Grande Guerra e l’innesco della Seconda – gli anni dell’implosione asburgica, della Repubblica di Weimar e dell’ascesa dei totalitarismi – la Svizzera diventa una sorta di laboratorio tecnico-tattico, persino filosofico, nel senso di filosofia applicata al calcio; e questo grazie a due coach “foresti”, molto particolari, che allenano – a staffetta – il Grasshoppers per quasi un quarto di secolo. Il secondo, Karl Rappan, è piuttosto noto e apprezzato – specie in Italia – in quanto pioniere riconosciuto del “catenaccio”; il primo, Izidor “Dori” Kürschner, molto meno, persino nei Paesi di cui ha segnato in profondità l’identità calcistica.

 

Altro coach ungherese, o meglio uno dei tanti ungheresi geniali e influenti nel calcio globale di quegli anni, Kürschner appare connotato nelle foto d’epoca da fenotipo e look altamenti iconici: in alcune, in particolare – tratti affilati e attoriali, quasi esotici e alieni; trench a bavero alto; elegantissimo cappello a larga tesa – sembra un personaggio perturbante, secondario ma decisivo, di qualche plot tra Chandler e Hammett; una presenza da Grande Sonno o Falcone Maltese.

 

Come giocatore, è un mediano eclettico (tecnico e fisico, a sinistra o al centro, dotato di notevole “sagacia posizionale”) dell’MTK Budapest, dove ha per coach-mentore nientemeno che Jimmy Hogan, il Pep dell’epoca, l’uomo che di fatto plasma e influenza il footbal di tanti Paesi: Ungheria, Austria, Germania, Brasile, in parte la stessa Svizzera. Come tecnico, invece, è noto soprattutto per l’ultima parte di carriera, quella brasiliana o meglio carioca, innescata da una chiamata in apparenza imperscrutabile (1937) da parte del “lunatico” presidente del Flamengo, José Bastos Padilha. Il punto è che pur non vicendo nulla – né al Flamengo, né, più tardi, al Botafogo -, Kürschner incide su moduli e atteggiamenti brasiliani come pochi altri. Se il dibattito sull’importazione o meno in Brasile di un modulo mitico come il 4-2-4, chiave della vittoria ai Mondiali svedesi del ’58, andrà avanti all’infinito (conteso tra altri due ungheresi, Márton Bukovi e Bela Guttmann – che lo porta al San Paolo – e due autoctoni come Zezé Moreira e Flavio Costa), non sussistono dubbi sul fatto che il WM di Chapman (il Sistema) venga introdotto in Sudamerica proprio da Kürschner. A eccezione, per amor di precisione, del parziale antefatto naif del piccolo Sírio Libanês di Gentil Cardoso. Secondo alcuni, quel break innovativo sarebbe stato sollecitato – più che da ragioni tattico-filosofiche, o almeno in sovrapposizione a quelle – da una contingenza bio-medica. E cioè: “inorridito” dalle strutture sanitarie del Flamengo, K. fa visitare tutti i giocatori, scoprendo così che il suo top-player principe (lo statuario, semidivino centromediano Fausto Dos Santos, “La Meraviglia Nera”) è già minato dalla tisi che lo ucciderà un paio d’anni dopo; arretrarlo secondo architettura e cadenza chapmaniane, quindi – per ridurne corsa e dispendio – sarebbe una costrizione più che una scelta. Alla fine, come vedremo, è un’interpretazione tendenziosa.  

 

“Dori” Kürschner.

 

Anche l’exit di Krüschner, come quello di altri coach ungheresi – Weisz, come s’è accennato, ad Auschwitz; Egri Erbstein, architetto del Grande Torino, perito a Superga con la squadra – è a suo modo tragico. L’esperienza brasiliana finisce amaramente, col “vice” Flávio Costa – ex giocatore del Flamengo – che gli spilla ogni strumento di coaching tattico e psicologico mentre manovra nell’ombra- con la complicità di una stampa culturalmente arretrata e irridente – per sputtanarlo e rimpiazzarlo. Impossibilitato a tornare in Ungheria per l’appoggio di Miklos Hórthy alle politiche antisemite del Führer, K. cerca di rilanciarsi nel Botafogo; ma dura un anno appena, e muore subito dopo a causa di un virus imprecisato (o di un infarto, secondo le versioni). Un’uscita in dissolvenza – proprio tra Chandler e Hammett – che contribuirà, insieme alle maldicenze di Flávio Costa, a farlo dimenticare; a tutt’oggi, il suo nome in Brasile è caduto nell’oblio, e le rare volte in cui viene evocato è traslitterato in Kruschner, senza umlaut. Parziale nemesi: Flávio Costa sarà sulla panchina del Brasile il giorno della finale Mondiale persa in casa con l’Uruguay: il cosiddetto maracanazo, paragonato dallo scrittore Nelson Rodrigues, con enfasi trucida ma significativa, all’ “Hiroshima” brasiliana.  

 

Il punto è che quella rimozione si è riverberata, a tutti gli effetti, anche sulla cruciale fase svizzera della parabola di Krüschner, oscurandola. Parabola che comincia presto, nel 1922-24, al Nordstern Basilea (promozione immediata), dopo un apprendistato in società tedesche, che continueranno ad alternarsi a quelle svizzere (vincerà un titolo col Norimberga) fino all’esodo carioca. Alla fine di quella prima esperienza, un salto quantico: K. viene aggregato ad altri due tecnici – il suo maestro Jimmy Hogan e un altro britannico, Teddy Duckworth, “capo” della spedizione – per guidare i rossocrociati alle Olimipiadi parigine del ’24. Il passaggio sarà epocale, con la Svizzera che raggiunge la finale, uscendone sconfitta dai maestri uruguagi, allora quasi imbattibili; cioè il suo miglior risultato internazionale di sempre, ben superiore ai tre quarti di finale raggiunti ai Mondiali ’34,’38 e ’54 (in casa).

 

Al ritorno da quell’impresa, K. si accasa al Grasshoppers, dove resterà per nove anni, con risultati eclatanti (tre campionati e quattro coppe nazionali), ma soprattutto affinando il suo brand tattico, un WM molto particolare, tale, secondo alcuni – torniamo a rispondere ai dubbi già citati – da sedurre il citato presidente del Flamengo Padilha. Si tratta di un WM (o Sistema= 3-2-2-3) in realtà “sporco”, che evolve il 2-3-5 “danubiano” ma ibridandosi col W doppio (il Metodo= 2-3-2-3) di Carcano e Pozzo, col centromediano che agisce “dietro ai due mediani, ma sempre più avanzato rispetto ai terzini”.

 

Per quanto sottilmente innovativo e personale, questo modulo verrà poco dopo soppiantato, sulla stessa panchina, da un’invenzione più radicale e vistosa, che potremmo definire – per riprendere un ossimoro molto usato nelle dottrine politiche – una sorta di “rivoluzione conservatrice”.

 

 

…e Karl Rappan

 

Secondo la ricostruzione di Jonathan Wilson – basata su fonti autorevoli come i contributi del decano dei giornalisti sportivi svizzeri, Walter Lutz – Karl Rappan è stato un viennese doc, come uomo e come sportivo, anche se i due versanti, nella Vienna di quegli anni, si confondono. E’ a tal punto un prodotto delle kaffeehaus danubiane – come Meisl, Guttmann e tanti altri coach-filosofi – da sentire la necessità di aprirne una propria a fine carriera, a Ginevra (il Café de la Bourse). A differenza di Guttmann – più temperamentale e abrasivo – Rappan è persona discreta e gentile, dal tono-timbro vocale sommesso e rispettoso: tratti coerenti con una visione razionale, più pragmatica che visionaria, del calcio e dell’esistenza.

 

Centrocampista-attaccante polivalente, gioca in tre team viennesi (un titolo col Rapid) prima di passare in Svizzera come coach-giocatore nel Servette, dove resterà dal 1931 al ‘35. Lì, toccando con mano i limiti tecnici del suo roster – e il gap incolmabile rispetto a tanti competitor – matura via via la decisione di impostarlo in modo più “difensivista”. La premessa teorica è ben riassunta da lui stesso in una delle rare interviste concesse (World Soccer ’62, poco dopo il Mondiale cileno), in cui delinea un quadro polarizzato tra team iper-tecnici in ogni ruolo (tipo il Brasile) e team “di medio valore” costretti a surrogare il gap con “un’assoluta disciplina tattica”; anche se, conclude Rappan, “la cosa difficile” è fare in modo che quella disciplina non tolga ai giocatori “la libertà di pensare”. Pur esposta in modo manicheo, quasi caricaturale, la disamina tocca snodi strutturali, ancora oggi “aperti”; e serve a spiegare il tipo di soluzione adottata per correggere il 2-3-5 danubiano, in modo diverso sia dal Sistema di Chapman che dal Metodo di Pozzo (dai quali pure attinge certi tratti).

 

Invece di arretare il centromediano sulla linea dei terzini, come nel WM, R. li fa affiancare dai mediani, destinati a occuparsi delle ali avversarie (linea da 3 a 4), coi due terzini (ricordiamo: giocatori dell’ultimo terzo di campo) che diventano “centrali”, in un primo momento giocando in linea, tanto che il modulo viene chiamato riegel, “righello”. Lo “slittamento” avviene quando ognuno di questi “centrali” segue, contestualmente, un attaccante avversario a destra o a sinistra, con l’altro che per evitargli l’uno contro l’uno (la famosa marcatura “a sistema puro”) lo copre nella zona retrostante. A quel punto si può parlare – passando al francese – di verrou (letteralmente: “lucchetto”, “chiavistello”) e di verouller per ognuno dei due giocatori che di volta in volta “si staccano” a coprire il marcatore. Un ulteriore slittamento, in una fase successiva, avviene quando Rappan, per compensare lo squilibrio che quell’arretramento determina in avanti (col centromediano preso a mezzo tra gli attaccanti interni e il centromediano avversari), congegna un archeo-pressing delle prime linee in modo da costringere l’avversario a un possesso orizzontale, e nel tempo fa specializzare i due terzini “centrali”, uno in marcatura e uno da sweeper (“spazzino”), il libero del futuro, col compito di coprire non solo l’altro centrale, ma le eventuali falle dell’intera linea.

 

Con quel modulo (un 1-3-3-3), Rappan vince in Svizzera due campionati col Servette e cinque col Grassopphers (dove subentra a Krüschner nel ’35), cui vanno aggiunte otto coppe nazionali, sette con le “cavallette” e una col Servette, ma nella fase post-bellica (’48-49). Il vero impatto mediatico del verrou, però – benchè ai tempi venisse percepito dai più come un machiavello eccentrico – avviene quando Rappan estende il coaching alla Nazionale, nel ’37, in prospettiva dei Mondiali francesi l’anno dopo; in un momento cioè, in cui la Svizzera è considerata la più esposta e fragile tra le squadre dell’Europa Centrale.

 

Da subito, il team di Rappan inverte la rotta: il 21 maggio, a Zurigo, stende l’Inghilterra per 2-1, tra lo stupore generale. Stupore che si amplifica l’anno dopo al Mondiale, quando i rossocrociati affrontano due volte in pochi giorni la fortissima Germania post-anschluss, inclusiva dei migliori austriaci eccetto il renitente Matthias Sindelar alias der Papierene (“cartavelina”), l’unico, vero Mozart del calcio. Il primo match – 4 giugno, partita inaugurale – finice 1-1 ai supplementari, con Rappan che incarta Sepp Herberger, più tardi famoso per il suo training scandito da un soundtrack bachiano; il che, in assenza di rigori, costringe alla ripetizione il 9 giugno.

 

Su quella partita, si sono stratificate nel tempo versioni su versioni, la maggior parte romantico-immaginifiche: ma tutto, in effetti, dal contesto allo svolgimento, la rende oggettivamente omerica. Il contesto: un caldo insopportabile e un Parco dei Principi gremito (22.000 spettatori) con la tribuna soggiogata dalla “rappresentanza” nazista, come se la capitale fosse già loro (la “presa” avverrà solo due anni dopo, nel giugno ‘40). Lo svolgimento: una partenza-shock degli svizzeri, seguita da una spietata remuntada. A metà primo tempo, infatti, i rossocrociati sono sotto 0-2: gol di Wili Hahnemann all’8’ e autorete di Ernst Lörtscher, il difensore esterno di sinistra, al 22’ (la palla gli rimbalza addosso dopo una traversa tedesca, primo autogol di sempre a un Mondiale). Sebbene stordita e in dieci, dato che non si danno cambi – si infortuna Georges Aeby, esterno alto di sinistra -, la Svizzera non si scompone; non perde le distanze del suo 1-3-3-3, che Rappan- insonne, la notte precedente, all’opposto del manzoniano Gran Condè prima della battaglia di Rocroi- aveva per un attimo pensato di correggere; e, per dirla con Brera, “difende la sconfitta”, lasciando sfogare i tedeschi e andando a rete sul finale del primo tempo col mediano destro Eugen Walascheck. Secondo la leggenda, all’intervallo R. – umiliato e rabbioso per i ghigni compiaciuti dei gerarchi in tribuna – avrebbe scosso psicologicamente la squadra (“Facciamogli vedere chi siamo”); ma, in assenza di controprove, non è insensato ipotizzare che l’abbia soprattutto ulteriormente istruita sulla strategia. Fatto sta che la Svizzera gioca una ripresa tatticamente magistrale, andando a rete altre tre volte (il centravanti Alfred Bickel al 64’; doppietta del mediano sinistro Andrè Ableggen, 75’ e 78’) senza più subirne, col centrale Lehmann e il verrouler Severino Minelli (che Pozzo tenta invano di naturalizzare da noi) implacabili. I gerarchi, in ogni caso, sono serviti: e colpisce, nell’emozionante, purtoppo brevissimo, filmato youtube sul match, l’immagine finale di un elvetico sorridente che sventola dagli spalti la bandierina con la mano sinistra (la destra agganciata al filo spinato di una transenna); come a prefigurare, in un luminoso flashforward, la liberazione futura.   

 

 

Dal Dopoguerra agli anni ’80-’90, ovvero dalla canzone classica

 

Se negli anni del secondo conflitto mondiale la nota “neutralità” svizzera fa del Paese una terra di rifugio e protezione per ebrei di ogni provenienza, a partire dagli stessi ungheresi (celebre il caso del citato Béla Guttmann), nel periodo postbellico si traduce in una pre-condizione ideale per attrarvi le massime sedi istituzionali (FIFA e UEFA) e per farvi disputare il primo Mondiale europeo a macerie rimosse, quello del ’54. La “neutralità” Svizzera dei primi anni ’50, infatti, è tutt’uno coi rigori di una “riservatezza-segretezza” che deve ancora sviluppare (e rivelare) il proprio dark side: il dark side, intendiamo, di un’ elusività criminosa (vedi il versante bancario), dimostrata nei tanti libri di Jean Ziegler (da La Svizzera lava più bianco a La Svizzera: l’oro e i morti) o in report recenti come l’inquietante Segreti svizzeri, di tre agguerriti giornalisti d’inchiesta (Munzinger, Obermaier e Obermayer).

 

Di ombre, per la verità se ne allungano anche in quel Mondiale: vedi il doping dei tedeschi, ormai dimostrato “beyond a reasonable doubt” (Pervitin, metanfetamina già usata dalla Wehrmacht), a fare da contrappunto alla retorica del “Miracolo di Berna”, la finale vinta il 4 luglio contro l’’Aranycsapat, la “squadra d’oro” ungherese. Ma l’edizione resta comunque memorabile: per la Stimmung (l’atmosfera), nonché per diversi match di livello altissimo, tra cui spicca la semifinale tra gli stessi magiari e i maestri uruguagi (4-2 per l’Aranycsapat ai supplementari). È meno memorabile, invece, per il Paese ospitante, nonostante due vittorie iniziali contro di noi, in due partite in cui si allungano altre ombre. La prima è quella inaugurale del girone, il 17 giugno a Losanna: a deciderla, ben oltre la modestia degli azzurri, è l’arbitro brasiliano Mario Viana (membro della polizia speciale del golpista Getullio Vargas) che annulla un gol regolare di “Veleno” Lorenzi, convalidandone invece uno viziato di Hügi (fallo su Tognon). Morale: 2-1 per i rossocrociati e centauromachia finale, con Viana preso dai nostri a pugni e calci; in effetti, si scoprirà poi, aveva trascorso la vigilia del match nel ritiro elvetico di Macolin. La seconda – 23 giugno, Basilea – è la partita-spareggio per l’accesso ai quarti, dopo il nostro successo sul Belgio e il tonfo elvetico con gli inglesi: partita “segnata” già al mattino dall’infelice formazione azzurra annunciata da “zio Lajos” Czeizler (altro ungherese passato per Milan e Padova, il nickname dovuto alla sua eccessiva bonomia) tra l’incredulità di tutto l’ambiente e reazioni disunite: Rino Ferrario, uno degli esclusi, salito per ultimo sul pullmann verso lo stadio, “sbatte il portellone con tale violenza che il torpedone trema tutto”. A indignare/imbestialire, è il mix di giocatori sulle ginocchia, giocatori fuori ruolo ed esclusioni da harakiri (Boniperti); il “disastro annunciato” si invera, in un 4-1 che manda in estasi i 30.000 elvetici. Estasi, però, subito smorzata, dato che nei quarti subiscono un tennistico 7-5 dai “cugini” austriaci. Divergenti le spiegazioni su un verrou così perforabile: secondo lo stesso Lorenzi, che pure ammette di non averne prove, la brillantezza elvetica nello spareggio è anomala («Gli svizzeri sgusciavano come pipistrelli») e il crash con l’Austria “un crollo sospetto”; secondo altre fonti, tutto sarebbe dipeso da un “colpo di sole” del portiere Eugéne Parlier.

 

Rappan guiderà la Svizzera a un ultimo Mondiale, quello cileno del ’62, dopo aver mancato quello del ’58. Lì ritroverà l’Italia in un match inutile per tutti e due i team, in quanto tutti e due messi sotto e di fatto eliminati dai padroni i casa, noi in un altro match-mattanza, la famosa Rapina a Santiago. Finirà 3-0 per gi azzurri, con doppietta dell’esordiente Bulgarelli; ma è una Svizzera ormai svuotata, e per Rappan è il tempo di rallentare; allenerà ancora a Losanna (altro campionato vinto) per poi ritirarsi nel suo kaffeehaus ginevrino e spegnersi infine a Berna, 90enne.

 

Karl Walser, Figure nelle onde.

 

A consuntivo della sua incidenza filosofico-tattica, va ripetuto come il verrou (concepito da un Rappan nemmeno trentenne, à la Nagelsmann) venga inizialmente misinterpretato; una valutazione più obiettiva avverrà a posteriori, quando altri accorgimenti simili, altri para o meta-“catenacci”, affioreranno in seguito in contesti geo-antropologici diversissimi. Tra quelli misconosciuti, il Volga Clip russo-sovietico (contrazione per Volzhskaya Zashchepka), con cui A.K. Abramov del Krylya Sovetov Kuibyshev, oggi Samara, cerca di contrastare il dominante “disordine organizzato” di Boris Arkadiev, coach di ben tre club moscoviti: si tratta, in sostanza, di un “rinculo” a domino tipo verrou, con uno dei mediani che arretra spingendo il centromediano fin dietro i terzini. Tra quelli più conosciuti, è impossibile non citare Giuseppe “Gipo” Viani e il suo sistema (vianema), non solo perché fondativo, germinale – almeno in Italia -, ma per la genesi occulta e fantastica, degna di un’ “eureka” fisico-matematico. Secondo la ricostruzione a posteriori di Viani stesso – in toni da “sacre scritture” che ricordano quelli spallettiani di questi giorni -, l’insight gli sarebbe occorso una notte, quando (insonne come Rappan, fino a intravedere l’alba) decide di abbandonarsi a una camminata lungo il porto di Salerno (siamo negli anni della guerra). Ossessionato dalla perforabilità difensiva della squadra, «disastrosamente porosa», Viani isola la mente da immagini e suoni circostanti (pescherecci fluttuanti, garriti di gabbiani, vociare dei primi venditori sul molo), fino a che la sua attenzione (inconscia) viene attratta da una scena – da una “pratica”- che non ha mai intercettato prima, o a cui non ha mai badato: su una barca, dei pescatori issano una rete piena di pesci, e subito dopo ne issano un’altra sottostante, che ha intrappolato tutti i pesci sfuggiti alle maglie della prima. Ecco l’insight: la necessità, per la Salernitana colabrodo, di sganciare “un difensore supplementare” dietro la linea.

 

Con quell’accorgimento Viani non solo otterrà promozioni con la Salernitana (dalla C alla A) e con la Roma (dalla B alla A), ma arriverà, a metà anni ‘50, allo scudetto in rossonero; e altri due (più una Champions) li vincerà come d.t., con Rocco in panchina. E nello stesso tempo, entrerà da pioniere in quella foltissima variantistica del “catenaccio”, che vedrà protagonisti lo stesso Rocco, HH, Alfredo Foni e diversi altri epigoni. Una pluralità che ha a lungo alimentato – in raffronto coi catenacci esteri, a partire proprio dal verrou e dal Volga Clip – discussioni infinite sul primato cronologico e/o sulla maggiore eficacia. Discussioni, in larga misura, sterili, che abbiamo visto e vediamo emergere periodicamente su moduli, tattiche, ruoli-break (v. il pressing, la costruzione bassa, il falso nueve, e così via). E sterili per due motivi. Da un lato – nel calcio, come in altre discipline sportive e in altri ambiti – c’è uno Zeitgeist, uno “spirito del tempo” che sollecita innovazioni sincrone in realtà geo-linguistiche distanti e diverse: Proust, Musil, Joyce, Faulkner e Gadda stravolgono la forma-romanzo ottocentesca ciascuno a suo modo, sul versante strutturale come linguistico-stilistico. Dall’altro – come sanno bene gli storici dell’arte e dell’architettura – archetipi formali omologhi o simili si presentano ad ampie distanze geografiche e cronologiche, perché comune è il rapporto adattativo-creativo tra il cervello e l’ambiente. Un esempio da manuale è l’edificio piramidale che sorge in aree e periodi differenziati, prodotti da popoli che non comunicano tra loro: ziqqurat accadico-sumeriche, piramidi egizie, templi bengalesi, teocalli mesoamericani. Tutto dipende cioè – nello sport come nell’arte come in altre attività umane – dal contesto, dal momento, dalle competizioni in atto e dalle soluzioni adattative richieste.

 

 

…al progressive-rock (all’avanguardia elvetica)

 

Se scorriamo, anche sommariamente, la storia filosofico-tattica del calcio, una cosa è certa: rivoluzionario, per certi aspetti, alla nascita, il “catenaccio”, pur nelle sue infinite varianti, si rapprende via via in una forma di conservazione, di resistenza-irrigidimento reazionario, spazzato via da moduli e atteggiamenti più intraprendenti, aggressivi, dinamici e (last but not least) spettacolari. Uno dei passaggi letterari e simbolici memorabili del suo superamento – mai definitivo, s’intende, per i motivi che abbiamo spiegato – è il momento in cui Bill Shankly, il Padre Fondatore del Liverpool moderno, avvicina Jock Stein, tecnico del Celtic, subito dopo la demolizione dell’Inter di HH nella finale di Champions (‘67), garantendogli “di aver raggiunto l’immortalità” .

 

Ora, proprio la popolarità del “catenaccio” e quella, relativa, di Rappan potrebbero indurre l’equivoco che la Svizzera sia da ricordare (quasi) solo per quella “rivoluzione conservatrice”. Non è affatto così: anche il calcio svizzero – persino il calcio svizzero – ha avuto un suo passaggio specifico dalla canzone tradizionale – o dal pop melodico – al progressive-rock, se con questo intendiamo un calcio cognitivamente, prima che esteticamente, nuovo, appunto dinamico, associativo, sperimentale. Non saranno i Pink Floyd (lì bisogna salire all’Ajax), né i Genesis, gli Yes o i Traffic: saranno magari i Camel o i Marillion, ma quel passaggio c’è stato. Solo che per smentire il pregiudizio che lo nega è necessario inoltrarsi lungo sentieri poco battuti.

 

Bisogna cioè spostare lo zoom della macchina del tempo wellsiana, per esempio, sul Tolosa della stagione ’83-’84, in cui arrivano un nuovo tecnico e un nuovo centrocampista, tutti e due svizzeri francesi. Il tecnico è Daniel Jeandupeux, nativo di Saint-Imier (paesino montano dei Giura bernesi, caratterizzato da un vasto cratere meteoritico), a sua volta ex-calciatore di successo prima di diventare coach pionieristico (un campionato vinto a Zurigo, una Coppa nazionale a Sion); il calciatore è Lucien Favre, nativo di Saint Barthélemy (neanche 1000 abitanti nel cantone di Vaud), centrocampista o meglio tuttocampista dotato di grande corsa, ottimo piede sinistro e notevole visione periferica, che gli permette passaggi spesso illuminanti e risolutivi. In quel biennio – Favre resterà anzi un solo anno – i due non vinceranno niente, ma proveranno, a tratti riuscendoci, a giocare un calcio “diverso”, fondato su principi di gioco, specie per i tempi, controintuitivi.

 

In una fase calcistica di restaurazione-transizione, che ha visto affievolirsi se non spegnersi l’impatto del totaalvoetbal e che vede Arrigo Sacchi, il futuro breaker, ancora agli imparaticci tra Rimini e giovanili della Fiorentina, la figura di Jeandupeux è una delle più sotterraneamente innovative e influenti. Oltre a essere il primo maieuta di Favre (che diverrà  a sua volta un eccellente coach, v. il recente transito al BVB prima di Terzic) è anche, non a caso, il primo, decisivo ispiratore di Wolfgang Frank, il grande tecnico del Baden-Württemberg (noto più tardi come padre tattico e spirituale di Klopp al Mainz), che inizia a sua volta la carriera, proprio negli anni ’80, nella cittadina svizzera romancia di Glarus o Glarona, sito lacustre-fiabesco ricco di storia (vi era sacerdote Zwingli), dov’è ancora oggi una leggenda per il lascito di quattro anni di grande calcio (1984-88). In particolare, Frank- scomparso prematuramente nel 2013 per un tumore al cervello- gira in quei giorni con un articolo sempre sottobraccio, “The philosophy of the Back Four” (uscito molto più tardi, negli anni ’90, su Fussball Training), in cui Jeandupeux teorizza l’aggressione alla palla in superiorità numerica rispetto all’avversario, sia per costringerlo al possesso-fraseggio in zone non pericolose, sia per sottrargliela e organizzare ripartenze veloci e letali. Sono, va da sé, alcuni dei principi del sacchismo emergente-incipiente: e infatti, dalla fine degli anni ’80- lasciata Glarus per Aarau e poi per Wettingen-Frank diventerà un fan accanito, ossessivo di quel Milan, vedendone e rivendenone le VHS fino a usurarle. Pratica peraltro condivisa con altri due influenti coach protagonisrti della Reboot (Rinascenza) tedesca: Helmut Groß e Ralf Rangnick, uomo-Redbull e attuale Ct austriaco.

 

Il punto d’incrocio, nel calcio svizzero, tra la semina preparatoria di Jeandupeaux (di cui molti altri giocatori, oltre a Favre, diventano buoni-ottimi tecnici) e l’importazione del sacchismo maturo, avviene attraverso un’altra figura sottovalutata o semi-rimossa: Roy Hodgson, ovvero il Roy Hodgson 42 enne che approda prima al Neuchâtel Xamax (triennio 1989-92) e poi alla Nazionale (1992-95) al posto di Uli Stielike (1990-92), a sua volta tecnico tutt’altro che conservatore e a sua volta subentrato- sorta di quadratura del cerchio- allo stesso Jeandupeux (1986-89), che ha quindi esercitato anche lì il suo magistero seminale.

 

Nello Xamax, pur vincendo relativamente poco (una Supercoppa nazionale), Hodgson si toglie notevoli soddisfazioni internazionali, stendendo Celtic e Real Madrid; ma soprattutto, affina la sua versione del sacchismo, poi travasata nel triennio in Nazionale. Coi rossocrociati, il tecnico di Croydon è protagonista di passaggi esaltanti, il cui ricordo in Svizzera è intatto e intenso ancora adesso. Uno di questi è proprio l’incontro ravvicinato con l’Italia sacchiana nelle qualificazioni a USA ’94, in un girone non semplice, col Portogallo di Queiroz; nei due scontri diretti, la Svizzera ci prende 3 punti su 4, pareggiando 2-2 a Cagliari (dopo un nostro crash iniziale per balbettii difensivi, specie di Marchegiani) e battendoci a Berna per 1-0, il 1° maggio ’93, in quella che è la nostra ultima sconfitta con loro. Ma forse il meglio, a livello di maturazione-espressione del gioco, quella Svizzera lo otterrà- dopo un USA ’94 non esaltante, con uscita netta agli ottavi contro la Spagna di Clemente, poi nostra avversaria ai quarti- in certe partite di avvicinamento a Euro ’96; in particolare, in uno Svizzera-Svezia del 12 ottobre ’94, un 4-2 da montagne russe con sequenze avvincenti e due team traboccanti di giocatori iconici. La Svizzera con il “lungo Pascolo” in porta; il biondo Alain Sutter centrocampista-ala grunge; il pupillo di Hodgson, Ciriaco Sforza, come regista-trequartista; il velenoso, serpentino Stéphane “Chappy” Chapuisat in attacco. La Svezia con Thomas Revelli tra i pali; Thorn a metà campo; Kennet Anderssson, Dahlin e Tomas Brolin davanti.

 

Karl Walser, Le alpi.

 

La “discendenza” svizzera innescata dal magistero incrociato di Jeandupeux e Sacchi è alla fine piuttosto nutrita. Di Favre sé già lungamente accennato: alternando team svizzeri e tedeschi, cui va aggiunto il Nizza pre-Farioli, ha sempre ottenuto ottimi risultati, ma soprattuto è diventato via via uno dei migliori talent scout e formatore di giocatori del circuito. Citiamo, dal suo sterminato portfolio: gli svizzeri Dzemaili, Abdi, Inler e Von Bergen, tutti scoperti e lanciati da lui prima di finire in club stranieri; il meraviglioso Marco Reus, scoperto e plasmato al Gladbach e poi ritrovato a Dortmund; il portiere ter Stegen, oggi al Barça. E tanti, tanti altri. Ma anche sul versante Sacchi-Hodgson non sono mancati discepoli interessanti: Roberto Morinini, scomparso precocemente a 60 anni nel 2012 (per un tumore, come Frank), che ha forgiato, a inizio millennio, il Lugano più rigoroso e spettacolare di sempre; o Christian Gross, che con Grasshoppers e Basilea ha fatto incetta di campionati e coppe nazionali (11 in tutto), toccando l’acme di gioco e di radiance nella Champions 2002-2003, coi rossoblu svizzeri.

 

 

Bonus track: Murat Yakin e la Svizzera attuale

 

Avvicinandoci così, stazione dopo stazione, al match di domani, è impossibile non chiudere con una zoomata su Murat Yakin, Ct elvetico e ultimo erede di quelle lontane ascendenze. Fratello maggiore, com’è noto, del più tecnico e agile Hakan (trequartista-punta), Murat è stato un difensore di grande forza e impatto (184 cm. per 88 kg.), ma a un tempo di straordinaria intelligenza “spaziale”, dotato sia nella partecipazione alla manovra che negli inserimenti offensivi, come mostrano i due dati complessivi, molto simili, con i due club principali in cui ha militato: col Grasshoppers, 101 presenze e 17 gol; col Basilea, 103 e 24.

 

Anche lui (ormai cinquantenne), deve molto, se non tutto, a diversi dei coach appena ricordati e analizzati: è stato (a differenza di Hakan, che approderà alla Nazionale in un tempo successivo), un pilastro nella Svizzera hodgsoniana, in tanti match compreso il citato Svizzera-Svezia 4-2 (in cui pure finirà ammonito); anche se, sollecitato sull’argomento, ha insistito più volte su come “il” match della sua vita sia il ritorno contro il Celtic al St. Jakob Park nei preliminari di Champions 2002 (proprio gli anni d’oro di Gross): sconfitto 3-1 all’andata, il Basilea vince al ritorno (28 agosto) per 2-0, con Murat che segna il secondo (22’ del p.t.) in una partita onirica.

 

Arrivato in Nazionale nel periodo post-Covid, dopo una lunga militanza interna (unico stacco lo Spartak Mosca nel 2014-15), Murat ha vinto come tecnico molto meno che come giocatore (due campionati al Basilea, una Challenge al Thun), con un unico picco internazionale, la semifinale di Europa League 2013 sempre col Basilea (battuto dal Chelsea). Inseguendo- almeno all’inizio e almeno quanto a capacità di resistenza-resilienza- una continuità col settennato del ruvido Petkovic, cerca ora di trovare un equilibrio tra rischio calcolato e pragmatismo, come molti tecnici di Nazionali di quella “fascia”. La sua Svizzera non ha veri fuoriclasse, ma diversi buoni-ottimi giocatori: Sommer in porta, due routinier di Premier e Bundesliga come Akanji e Xhaka, corsari e cursori come Freuler e Aebischer. Più del 3-1 sull’Ungheria, ha impressionato il pareggio con la Germania, dove quell’equilibrio – quel bilanciamento – è sembrato intravedersi, riuscendo a schermare uno dei team più dotati per tecnica individuale e collettiva.

 

Murat sa che l’Italia ha più chances, nonostante l’assenza non lieve di Calafiori, un centrale di costruzione-incursione come pochi, oltretutto avvolto nelle cadenze euritmiche di un Fernando Redondo. Ma sa anche – grazie ai maestri avuti e al loro coaching – che perdere (e uscire) non sarebbe traumatico. E tutti noi sappiamo – per quanto fan inguaribili di Orson Welles – che la Svizzera, anche la Svizzera calcistica, non è più, ormai da tempo, né il Paese dell’omonimo hamburger, né quello degli orologi a cucù. 

 

 

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Sandro Modeo è scrittore, saggista e consulente editoriale. Collabora al Corriere della Sera e a diverse altre testate, nazionali e internazionali, occupandosi di scienza, cultura e sport. Ha pubblicato due libri sul calcio, L’alieno Mourinho (ISBN, 2010) e Il Barça (ISBN, 2011), tradotti in numerosi Paesi. Di recente, è uscito I Tre. Federer, Nadal, Djokovic e il futuro del tennis (66th, 2023).