La fotografia che preferisco di Luigi Ghirri, tra le tante, è una delle sue ultime, scattata a Roncocesi nel 1992. Si vede una persona di spalle, a prima vista diremmo un uomo, ma non potremmo giurarlo. La figura si allontana percorrendo una strada di campagna. Qualche giorno fa è uscito un bel libro di Marco Belpoliti: Pianura, leggo i primi capitoli e mi imbatto nella stessa fotografia, Belpoliti osserva: «[…] c’è una persona che cammina laggiù, in fondo, al centro dell’argine, lungo la carraia. Potrebbe essere Celati, stesso, ritratto altre volte da Luigi di schiena […] un modo di apparire e insieme di scomparire. La vaghezza dell’identità. Ho chiesto a Daniele chi fosse quell’uomo. Non si sa, mi ha risposto. Era lì». Ogni volta che ammiriamo l’immagine ci pare che la nebbia assorba sempre di più quella persona, lo scatto di Ghirri lavora insieme ai colori grigi della pianura padana, che sfumano nel bianco latte, ottenendo l’effetto della dissolvenza. La figura non può far altro che sparire, ma prima resta immortalata in una terra di mezzo, sta tra quello che era prima di allontanarsi, prima che Ghirri scattasse, e quello che sarà dopo lo scatto. Il fotografo l’ha fermata poco prima che sparisse, che la nebbia la inghiottisse.
Quella figura si muove tra memoria e oblio, in un non tempo che evoca la sospensione che c’è, per esempio, tra sogno e realtà, e, naturalmente, tra vita e morte. La figura se ne sta andando, ma lo scatto di Ghirri ci invita a indugiare sulle ragioni, sui giorni che passano, sul potere della nebbia e a guardare quella schiena come se fosse la nostra. Non siamo solo spettatori chiamati a osservare e a commentare un capolavoro, ma ne siamo anche attori, siamo destinati a svanire così, prima o poi, in una qualunque pianura del cuore. In quegli ultimi anni, Luigi Ghirri, ha scelto di abbandonare il paesaggio e di domandare alla nebbia, quella della sua terra, un modo per prepararsi all’ignoto, alla fine del tempo, al non luogo.
Sono andato a riguardare quella fotografia quando ho cominciato a ragionare su questo pezzo, perché se metto insieme come in un flash l’avvenimento sportivo, la tecnologia, lo spettatore, così come si tengono in questo periodo, come si sovrappongono, immagino una lenta e lunga dissolvenza, una sovrascrittura delle partite, delle stagioni e del pubblico che ci condanna a sparire. Che non vuol dire non esserci più (non siamo così bravi nelle previsioni) ma significa non agire più nell’ambito che dovrebbe competerci: tu giochi io assisto, tu segni io esulto, tu sbagli un gol a porta vuota io maledico il mondo e i tuoi piedi.
Ho letto con grande attenzione l’articolo di Paolo Ruffino "Il calcio è entrato nell’iperreale". Ruffino ragiona su un’evidenza in particolare: il calcio (o un altro sport se preferite) non esiste più a livello naturale del terreno di gioco, ma esiste soltanto nella dimensione della sua estensione tecnologica. Si può dire che lo sport non esiste più come attività che preveda una componente agonistica, ma sta sopravvivendo ed è destinato a vivere solo su un altro piano, quello in cui uno o più codici informatici sostituiscono il movimento reale del calciatore – non perché non avvenga più – con quello del movimento guidato dalla particolare nuova struttura degli stadi, dall’assenza degli spettatori sugli spalti, dal modo in cui la ripresa dell’evento avviene, dal perché uno strumento come la tecnologia VAR sostituisca ciò che vede la telecamera a ciò che vede l’occhio umano.
La rovesciata recente di Zaccagni (in campionato contro lo Spezia) o la punizione di Eriksen (in Coppa Italia contro il Milan) - tanto per fare due esempi - avvengono su due piani: quello in cui i due calciatori si muovono e quello veicolato dall’immagine televisiva. Il gol di Zaccagni è molto somigliante a quelli che “inventiamo” alla PlayStation: il cross arriva, il calciatore stoppa di petto e poi si lascia andare all’indietro per effettuare la rovesciata. Si tratta di un gol molto difficile da fare ma molto semplice da riprodurre serialmente in un videogame. Quando riguardiamo il gol di Zaccagni tante volte e da inquadrature diverse (dopo aver aspettato magari – non è questo il caso ma mettiamo che lo sia - che il check dell’arbitro con i suoi assistenti ne confermi la regolarità) ci spostiamo di livello e somigliamo di più al noi stesso che gioca alla PlayStation e si riguarda il gol finto (!?) dieci volte, quel gol non esiste se non sotto la nostra guida, il nostro comando, il nostro joystick; esiste nel noi che commenta con il compagno di PlayStation di sempre: «Guarda che gol, guarda come ti ho fregato».
Ancora più interessante sotto questo aspetto è la punizione di Eriksen nel derby tra Milan e Inter di qualche settimana fa. Il centrocampista dell’Inter è stato guidato dallo spettatore sotto due aspetti emotivo e informatico. Con l’occhio emozionale tutti quelli che stavano guardando la partita (eccetto i tifosi del Milan, si capisce) hanno desiderato che Eriksen segnasse quella punizione. Tutto sommato, fin qui, ci è parso che il centrocampista non sia stato usato per quanto vale, non sia stato capito, non sia stato trattato bene dal suo allenatore. Sentimentalmente abbiamo sussurato: “Mettila, mettila, mettila”, poi abbiamo stretto tra le mani il nostro joystick e lo abbiamo manovrato affinché il tiro avvenisse così come lo avevamo immaginato quando avevamo scelto Eriksen per il nostro videogame.
Entriamo nel mondo dello sport elettronico. Sempre Ruffino ha sottolineato come allo svuotamento degli stadi (palazzetti, velodromi, autodromi) abbia corrisposto l’aumento esponenziale di eventi ufficiali di eSports. Squadre vere, calciatori veri hanno partecipato a competizioni elettroniche altrettanto vere. Io, attaccante, videogioco con me stesso, parliamoci chiaro: mi manovro. La sovrapposizione cui accennavo all’inizio comincia a delinearsi con chiarezza.
Immaginiamo che Eriksen venga invitato a giocare da EA la semifinale elettronica di Coppa Italia, con lui qualche giocatore dell’Inter e del Milan e alcuni professionisti di eSports, dando per scontato che alcuni di questi ultimi siano anche tifosi; a questo punto potremmo avere un Eriksen (o qualsiasi altro professionista) composto dal calciatore reale, dall’uomo Eriksen che manovra la sua figura elettronica, da un giocatore elettronico professionista che potrebbe muovere il portiere, decidere la barriera, da quello stesso professionista che è tifoso del Milan o dell’Inter. Una faccenda che è un mirabolante incastro diplomatico ma anche uno specchio fedele di ciò che potrebbe avvenire, che già (in altri termini) avviene.
Col tempo (senza nemmeno aver bisogno di allontanarci da questi giorni) alcuni sport, proprio per la costante assenza di pubblico (non dovuta soltanto alla pandemia), potranno sopravvivere soltanto nella loro estensione elettronica. Addirittura, lo spettatore che è in noi potrebbe appassionarsi a sport, leghe o quant’altro che nel loro svolgimento naturale non avrebbe mai seguito. Un po’come accade per Netlix, è tutto compreso nel tuo abbonamento mensile. Nelle fasi di stanca, durante le quali hai finito di guardare tutte le stagioni di Mad Men (Champions League), tutta The Crown (Premier League), tutta The Wire (NBA), resti lì con il tuo menù dal quale scegliere, non devi lasciare lo stadio, prendere l’auto o la metropolitana e tornare a casa fino alla prossima partita, perché la partita è là, ed ecco che quasi per inerzia scopri una cosa come Broadchurch, un capolavoro che non avresti mai notato.
L’estensione elettronica dello sport è ovviamente stata preparata dal costante aumento dell’apporto tecnologico all’avvenimento agonistico. Tecnologia utile, necessaria e inevitabile, che ha reso però – e torniamo a noi – la rovesciata di Zaccagni esistente più nelle sue ripetizioni da tante inquadrature diverse, nelle mani di chi gioca che la riproduce alla PlayStation, che nel gesto originario del centrocampista del Verona.
Se Zaccagni ed Eriksen possono guidare loro stessi, se io posso comandare il loro gesto, dapprima muovendoli con il joystick e poi, lentamente, arrivare a muovere il piede destro che calcia la punizione con la forza della mente e, più avanti ancora, a entrare, schiacciando uno o due tasti, nel corpo del calciatore, magari avvisando l’arbitro: «Aspetta, Valeri, la calcio io», la sovrapposizione sarà compiuta e dovrà chiamarsi fusione. Il calciatore, il tifoso, il giocatore di eSports o di PlayStation diventano un soggetto unico, forse nemmeno un soggetto così come lo definiamo ma una forma più vicina all’oggetto, un ibrido.
Cosa succede però se calciatore e tifoso diventano una cosa sola? L’evidenza è che nessuno assiste, tutti giocano. Se nessuno assiste per quale motivo stiamo dando uno spettacolo, reale o meno, sportivo o meno, elettronico o meno? Se il tifoso giocatore elettronico può sostituire il calciatore in qualsiasi momento chi gioca davvero? Potrebbero arrivare, quelli che sono stati tifosi e quelli che sono stati calciatori a giocarsi, a un certo punto una Champions League insieme. La domanda a quel punto è una soltanto: che senso avrebbe? Se qualcuno di noi dovesse vincere la Champions League giocando, mettiamo il caso, con il Manchester United, dentro lo United, insieme allo United, quel qualcuno avrebbe voglia poi di andare a festeggiare con Rashford o con Cavani? Gli importerebbe qualcosa di bersi una pinta con Maguire? O preferirebbe festeggiare (o sfottere) con il solito amico di PlayStation? Con la sovrapposizione di ruoli si finirà, probabilmente, per eliminare due componenti importanti quella del gioco e quella del tifo. Se la competizione la stai disputando pure tu, allora non la stai guardando, e tifare te stesso (al di là dell’aspetto motivazionale) non ha molto senso.
Con i ruoli sovrapposti si arriva, quasi naturalmente, all’effetto dissolvenza che notiamo nella foto di Luigi Ghirri: nessuno assiste, nessuno gioca.
La foto di Ghirri però genera un’aspettativa di qualche tipo: una figura c’è prima della dissolvenza. Lo spettatore, la tecnologia, il calciatore, stanno là in mezzo alla nebbia, dove andranno non si sa, sappiamo da dove vengono, è una situazione di quasi invisibilità. In Quasi invisibile il grande poeta Mark Strand in una serie di mirabolanti prose brevi affronta il problema della terra di mezzo, come si sta (e dove) tra veglia e sogno, tra vita e morte, tra realtà e invenzione, tra visibile e invisibile, appunto. Strand e Ghirri partono da alcune certezze e ci abbandonano nella nebbia con quella figura (ormai la nostra figura). Cosa accadrà?
Se tutti possiamo segnare il gol di Maradona all’Inghilterra è ovvio che quel gol non esiste più, noi sovrapposti a Maradona (ovvero il massimo immaginabile), cos’altro potremo inventarci? Tenteremo di alzare il livello di difficoltà di quell’azione? Aggiungendo dei terzini qua e là, un centrocampista che ci sorprende alle spalle, chi sa. O ci salviamo (e con noi lo sport) o spariremo (e con noi Zaccagni ed Eriksen).
Prendiamo Nirvana di Gabriele Salvatores? Nirvana è un videogioco a controllo mentale, quando mancano pochi giorni alla sua messa in commercio viene infettato da un virus. La conseguenza diretta di questa infezione è che Solo (Diego Abatantuono, protagonista del gioco) prende coscienza della sua esistenza elettronica. Allora, Solo chiede al programmatore Jimi (Christopher Lambert) la natura della sua esistenza. Quando la scopre scongiura Jimi di essere cancellato, non vuole essere replicato in migliaia di copie sparse per il mondo e nemmeno di morire o vivere a piacimento (o a seconda dell’abilità) di chi gioca. Replichiamo la punizione di Eriksen in tante copie, io decido di calciarla all’incrocio dei pali, un altro la manda fuori, Eriksen stesso dalla sua console se la fa parare, uno gioca in Giappone e decide che l’arbitro non deve fischiarla, o farla ripetere. All’infinito. La Lega di Serie A vive in un videogame (inventato per un film di fantascienza) perciò non esiste.
Nel suo libro più recente Il silenzio, l’immenso Don DeLillo fa un passo ulteriore in avanti (come ha sempre fatto in ogni cosa che ha scritto): spegne la tecnologia. Cinque persone si sono date appuntamento in un appartamento di New York per assistere alla finale del Super Bowl, ma poco prima che la sfida cominci la tecnologia – tutta quanta – si spegne. Solo che loro non lo sanno subito. Buio sul televisore, buio sugli smartphone, alle radio. Il nulla, il silenzio, il vuoto. In quella situazione di sospensione i cinque personaggi reagiscono in maniera diversa ma sono tutti preda del disorientamento. Senza raccontarvi il libro di DeLillo, meglio che lo leggiate, mi pongo un’ulteriore domanda.
Nel momento in cui la transizione dello sport da livello naturale a livello elettronico sarà compiuta, e che quindi il tifoso sarà congruamente sovrapposto al calciatore professionista, in un regime fatto già d’abitudine, cosa accadrà se tutta la tecnologia si dovesse spegnere per un tempo indefinito?
Dissolvenza. Zaccagni, Eriksen, io, tutti quanti da Ibrahimovic a vostro zio, da Don DeLillo a Lukaku siamo spinti verso il destino di Solo. E quando, come Abatantuono, rivolgeremo al nostro programmatore (o a noi stessi) la domanda: «Aspetta un momento. Quando mi cancelli cosa divento?» Avremo di ritorno la stessa risposta: «Un fiocco di neve che non cade in nessun posto». O una linea di nebbia.