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Storia del calcio di Totti a Balotelli
24 apr 2019
Uno dei falli più famosi del calcio italiano.
(articolo)
15 min
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Si era capito molto presto che l'atmosfera della finale di coppa Italia 2010 Roma-Inter fosse carica di particelle velenose oltre ogni ammissibile livello di guardia, come se l'eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll – che aveva avuto un ruolo persino decisivo nella storica qualificazione dell'Inter alla finale di Champions League - avesse seminato malumore, o avesse prodotto qualche strano effetto collaterale nel lungo periodo: già era strano che le squadre fossero entrate in campo in una finale ufficiale, alla presenza del Presidente del Senato, introdotte dall'inno della Roma - dopo pochi secondi si vede Mourinho già con le antenne dritte mentre si rivolge infastidito a un giornalista a bordo campo.

Che non sarebbe stata una partita tranquilla lo si era capito esattamente al diciottesimo secondo, quando Nicolas Burdisso aveva dato il benvenuto a Sneijder piantandogli una tacchettata nella coscia destra, già malconcia. Conoscendo la ponderata malizia di ogni buon difensore argentino che si rispetti, non si poteva pensare a una casualità. Forse era troppo fresca la ferita aperta dieci giorni prima dalla doppietta di Giampaolo Pazzini, che aveva ribaltato Roma-Sampdoria e aveva propiziato il sorpasso decisivo dell'Inter in testa alla classifica, facendo sprofondare due milioni di tifosi nella più cupa prostrazione - molti anni dopo, con lo stesso fatalismo del colonnello Aureliano Buendia davanti al plotone d'esecuzione all'inizio di Cent'anni di Solitudine, il popolo giallorosso si sarebbe ricordato di quella statistica remota e lapidaria che vuole la Roma seconda per 14 volte nella storia della Serie A, a fronte di soli tre scudetti: un saldo negativo che mozzerebbe il fiato anche ai più volenterosi.

La solitudine quella sera era tutta di Francesco Totti, alle prese – come diceva il poeta Lucio Dalla in «Telefonami tra vent'anni» - con un'inquietante primavera. Poche settimane prima, era rimasto a bocca aperta quando Claudio Ranieri gli aveva comunicato che l'avrebbe sostituito insieme a De Rossi all'intervallo di un Lazio-Roma che i giocatori di cui era capitano responsabile stavano perdendo 1-0, e avrebbero finito per vincere 1-2 senza di lui, senza di loro.

Poi era arrivata la piaga di Roma-Sampdoria, e, non potendosela prendere con le stelle, Totti aveva più modestamente identificato il bersaglio della sua ira in Marco Storari, suo compagno di giovanili ai tempi degli Allievi di Aldo Maldera, e Ezio Sella e allora portiere della Samp, offendendolo come si può offendere solo chi si conosce intimamente. A quel punto restavano ancora tre giornate di campionato ma una sola grande occasione: alla terzultima la Roma aveva vinto a Parma nell'anticipo del sabato, ma aveva ingoiato nella sera di domenica la beffa di un Lazio-Inter 0-2 all'insegna delle buone maniere, con quello striscione “Oh nooo” che ancora oggi non ha bisogno di spiegazioni.

E quindi, prima delle ultime due partite di campionato (in cui l'Inter ha continuato a vincere rendendo inutili gli sforzi della Roma) si arriva alla finale di Coppa Italia, con Ranieri – rotto il ghiaccio e trovata fiducia grazie a quella sostituzione inaudita – che decise di far iniziare Totti dalla panchina, perché «Francesco non può ancora giocare tre partite in pochi giorni». Totti trascorse tutto il primo tempo masticando fiele, osservando i suoi compagni più su di giri – Burdisso, Taddei, Mexes - tentare di spostare la partita nella dimensione della rissa, e nel frattempo andare sotto di un gol segnato da Diego Milito, immerso in quel mese di maggio 2010 nella vasca contenente la pozione dell'immortalità.

Ma a ben vedere la solitudine era anche quella di Mario Balotelli, una solitudine ancora più dolorosa e insopportabile perché nell'estate dei vent'anni essere soli al mondo fa malissimo, e tutto il mondo di Balotelli era lo spogliatoio dell'Inter. Lo spogliatoio di una squadra in stato di grazia, che si era ormai convinta di potersi prendere in pochi giorni tutte le rivincite di una carriera di frustrazioni, e dunque ben venga anche la finale di Coppa Italia, all'Olimpico, il 5 maggio, una data ancora marchiata col fuoco dell'infamia.

E così a marzo Balotelli era stato additato a pubblico parafulmine da José Mourinho, alla continua ricerca di nemici: e chi meglio di un ragazzino refrattario alle regole e – Dio non voglia – addirittura milanista, stando a quegli spifferi che lo volevano provocatore di capitan Zanetti il giorno successivo all'avvicinamento dei rossoneri a -1 in classifica. Sulla Gazzetta dello Sport del 16 marzo 2010 si allude a «una voce (che non ha trovato conferme) secondo cui il baby nerazzurro sarebbe entrato nello spogliatoio di Appiano cantando l’inno dei rossoneri e invitando goliardicamente i compagni a prendere atto della rimonta quasi completata della banda Leonardo».

Balotelli aveva poi addirittura indossato la maglia rossonera consegnatagli da Valerio Staffelli di Striscia la Notizia, fino a essere scaricato in rima dalla Curva Nord: «Uno spogliatoio unito, forte, inattaccabile come non mai/nient'altro ha da fare che allontanare chi porta zizzania e guai». E allora lo show deprecabile dei minuti finali di Inter-Barcellona, gli insulti al San Siro più incandescente dell'era morattiana, la maglia gettata a terra e Materazzi che lo appese al muro già nel tunnel: «Non ho mai visto una cosa del genere in tutta la mia carriera: se avesse attaccato me così, in due secondi lo avrei messo giù», ebbe a dire Ibrahimovic.

Eppure proprio la pedata di Burdisso a Sneijder gli diede la possibilità di raccogliere l'estrema ancora di salvezza perché Mourinho – uomo sempre sorprendente – decise di lanciarlo in campo al posto dell'olandese, costretto al forfait già dopo cinque minuti. Praticamente un'intera finale da titolare.

Un'intera finale da titolare – piccolo particolare – in uno stadio e davanti a una tifoseria che lo detestava cordialmente. Non semplicemente perché "è Balotelli, bellezza", come più o meno qualcuno tentò di spiegare al Paese, semplificando troppo: i romanisti ce l'avevano con Balotelli perché in un Inter-Roma di campionato del 2009 – sempre con arbitro Rizzoli - li aveva zittiti e svillaneggiati, con una linguaccia irrisoria rivolta a Panucci e, attraverso Panucci, a tutti i tifosi romanisti, prima e dopo aver segnato il rigore del 2-3 (avrebbe poi pareggiato definitivamente Crespo).

E in buona sostanza perché Balotelli non stava mai zitto, prendeva botte su botte ma ne aveva sempre qualcuna, poco educata, per il difensore più anziano, per il marcatore arrancante, per il mediano che mostrava di soffrire il suo strapotere da diciannovenne e non ci stava a farsi mettere sotto anche sul piano dialettico. Un Cassano grande e grosso, e per di più nero.

Così, il pianeta Totti e l'asteroide MB-45 entrarono senza preavviso in collisione intorno alle 22:40 di quel 5 maggio.

Totti era entrato all'intervallo e aveva speso l'intera ripresa a scalpitare e a sbuffare, rincorrendo spesso invano un'Inter ben più padrona del risultato e della situazione. A volte gli era capitato anche di scalciare, com'era successo al 62' quando aveva colpito Milito a palla clamorosamente lontana, di pura frustrazione, con l'arbitro Rizzoli che all'inizio non aveva fischiato neanche il fallo, salvo ammonirlo qualche secondo dopo evidentemente su segnalazione di un assistente. Essendo deputato solo a costruire, la sua traiettoria non aveva mai incrociato quella di Balotelli, che aveva trascorso il secondo tempo a trotterellare sulla fascia sinistra, regolarmente tamponato dai De Rossi e dai Taddei di turno.

Le occasioni erano state molto poche e gli ultimi dieci minuti, appesantiti anche dalla pioggia, erano scivolati via scanditi dai fischi sempre più sconsolati di Rizzoli, che aveva fatto appello a tutta la sua proverbiale diplomazia per evitare che la Roma finisse in sette. All'87' un Taddei fuori dalla grazia di Dio falciò Thiago Motta e scalciò Milito nel giro di tre secondi, senza che l'arbitro estraesse alcunché. Thiago Motta batté corto per Balotelli che gettò avanti il pallone oltre Taddei e Totti e puntò la bandierina del corner. Conoscendo Balotelli, probabile che in quel momento di esuberanza atletica inarrivabile per il 33enne Totti, o magari prima nella lunga attesa del calcio di punizione che come in un western può essere riempita da dialoghi taglienti, fosse volata qualche parola poco gentile verso un campione straordinario appena entrato nella parabola discendente della carriera.

Arrivato nei pressi della linea di fondo, Balotelli rallentò per sterzare a sinistra e puntare anche Marco Motta e così Totti e Taddei tornarono sulla preda. Balotelli e Motta si contesero la palla, l'interista sembrò avere la meglio nel rimpallo, ma sul punto di entrare in area ricevette la classica bastonata sullo stinco.

Foto di ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images

Nella sua autobiografia - Un capitano, scritta con Paolo Condò, Rizzoli, 2018 - Totti ha scritto che con «Balotelli c'erano già dei precedenti. Quella sera insulta di nuovo i romani, De Rossi è lì lì per colpirlo, viene ripreso persino dai suoi compagni. Dico ai miei vicini di panchina "Se entro, lo sfondo", e davvero mi prudono le mani. Ranieri mi butta dentro all'inizio della ripresa, siamo sotto di un gol, provo a organizzare la rimonta ma non è cosa, stavolta l'Inter è più forte. Questo ovviamente aggiunge frustrazione. Così, a tre minuti dalla fine, non ci vedo più. Mi batto lungo una linea laterale con Balotelli, che a gioco fermo mormora qualcosa tipo "Quando mi prendi?", condito da un insulto. La misura è colma. Il gioco riprende: lui parte palla al piede verso la linea di fondo, io lo inseguo determinato non solo a colpirlo, ma a fargli proprio male. Mi apro uno spazio fra Taddei e Marco Motta, che devono controllarlo mentre io lì non c'entro niente, e gli assesto da dietro un calcio terribile. La palla non so nemmeno dove sia, miro alla caviglia, e lui si accartoccia a terra urlando di dolore. Un fallo bruttissimo».

Fabio Licari, che su La Gazzetta dello Sport del 6 maggio 2010 aveva l'arduo compito di recensire le pagelle della partita, è stato severo: «Totti 4. Incomprensibile tutto. Incomprensibile il fallo su Milito, il calcetto su Motta, il calcione a Balotelli. Un giallo, poi un rosso diretto. In mezzo, niente». La vittima, Balotelli, ha dato invece qualche spiegazione nell'intervista pubblicata su Vanity Fair il successivo 19 maggio 2010: «Io gli ho solo detto una cosa tipo: continui a giocare o vuoi fare il bambino? Lui mi ha risposto: negro di merda. Poi ho sentito che diceva a Thiago Motta: lo spacco. Io ho sorriso e sono andato via. Pochi secondi dopo è arrivato il calcio».

Prima che la regia televisiva stringa sui protagonisti, si fa in tempo a vedere Totti chinarsi per un secondo verso Balotelli dolorante a terra. Da lontano la rappresentazione è confusa, i telecronisti RAI vedono Rizzoli mettere la mano nel taschino e pensano a un'ammonizione, ma chi deve sapere già sa. L'aver derubricato gli ultimi minuti di una finale di coppa Italia a rissa da calciotto a Tor di Quinto non smuove più di tanto l'animo del capitano, che fila via a testa bassa verso il tunnel quasi senza neanche aspettare il cartellino rosso.

Eppure, nonostante il clima da saloon, non c'è mezzo interista che accorra a chiedergli conto del gestaccio. Il testimone oculare più vicino è Eto'o, ma il suo sguardo è più sorpreso che severo. Cambiasso gli passa via di lato senza degnarlo di un'occhiata.

Piuttosto, lungo il tragitto, Totti incontra Maicon, e sorprendentemente la mano dell'uno cerca la mano dell'altro, come in un incredibile cenno d'intesa. È proprio questa, otto anni dopo, la chiave di lettura che ne darà Totti nella sua pregevole autobiografia: «Incrocio Maicon, col quale ci diamo il cinque. Mi rispetta come io rispetto lui, è ovvio, ma a ben guardare l'assenza di reazione interista è generale, e questa è la peggiore delle condanne per Balotelli: il mio non è stato un fallo di gioco, è stato un fallo da rissa che dovrebbe portare i suoi compagni ad assalirmi, a parole e a spintoni, e i miei a difendermi. [...] Invece il mio fallaccio non provoca conseguenze. Esco con la sensazione che pure i compagni vorrebbero menarlo, mentre l'Olimpico viene giù dagli applausi».

Come ha ammesso più volte anche il diretto interessato, la carriera e la vita di Totti hanno un prima e un dopo: il matrimonio con Ilary Blasi e la costruzione di una famiglia che l'ha rasserenato e l'ha reso finalmente un uomo maturo. Solo nei dodici mesi precedenti al giugno del 2005 aveva messo insieme una serie di nefandezze comportamentali sufficienti per due o tre carriere: lo sputo a Poulsen in Nazionale, la camminata su Ramelow del Bayer Leverkusen in Champions, il pugno a Colonnese del Siena.

Dopo è stato un Totti più leggero e centrato, finalmente autoironico, impegnato nel sociale e nella solidarietà e finalmente anche campione del Mondo, con un unico gigantesco buco nero: appunto, il calcione a Balotelli. Il Paese reagisce con la virulenza che gli è tipica: valgano per tutti le uscite del mangiafuoco Mino Raiola, che fiuta l'aria e accorre in difesa del suo assistito, rincarando goffamente la dose: «Per un gesto premeditato ci vorrebbero 6 mesi di stop: non solo la squalifica in Coppa Italia. In Brasile c' è anche l'arresto per atti razzisti. Cosa dovrebbe dire adesso Juan al suo capitano? Come mai fa il gladiatore solo all'Olimpico, mentre fuori casa è un agnellino?».

Totti non si sottrae al linciaggio, lo prende come il prezzo da pagare per la sua esibita romanità. Non lo dice a parole, ma lo mette addirittura per iscritto il giorno dopo sul suo sito Internet (è ancora un'epoca in cui i calciatori badano ai siti Internet). «In una partita e in momenti così importanti della stagione può capitare di essere nervosi. Sul campo, poi, non sempre si riescono a ignorare offese pesanti, dirette a infangare una città e un intero popolo. Soprattutto quando questi continui insulti provengono sempre dalla stessa persona, che fa della provocazione sistematica il suo biglietto da visita. L'ho colpito perché mi aveva insultato due volte e poi per quello che aveva fatto l'anno scorso a San Siro. Non l'ho dimenticato».

Totti decide veltronianamente di non citare mai l'avversario Balotelli, come aveva fatto l'amico Walter nella sciagurata campagna elettorale contro Berlusconi nel 2008. Sulle prime il risultato sembra più o meno lo stesso. Al di là delle quattro giornate di squalifica che lasciano il tempo che trovano perché da scontarsi solo in Coppa Italia, Totti è di nuovo solo e trafitto, martirizzato anche dal fuoco amico proveniente dalle incaute parole a caldissimo di Gian Paolo Montali, il coordinatore dell'area sportiva della Roma che ha osato non assolvere il capitano.

Allora Totti usa una prosa da politico navigato per rispondere: «C’è un’altra questione che mi preme chiarire. Chi ama veramente la Roma, chi è tifoso e ha senso di appartenenza a questi colori capisce cosa rappresenta questa squadra per noi. E chi si permette di giudicare se qualcosa che viene fatto è in linea con la storia della Roma probabilmente c’entra poco con la nostra appartenenza. Sono personaggi di passaggio, che usano la nostra fede per farsi pubblicità. Spesso la gente, sia dentro che fuori Trigoria, pensa che se io non parlo, non vedo e non so ciò che accade. Ma dopo venti anni di carriera con la Roma so perfettamente tutto di tutti».

Montali non è stato un caso isolato. In molti hanno difeso Totti anche pubblicamente, ma sono arrivate anche molte condanne pesantissime, come quella del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «Ci sono forme di tifo selvaggio che danno luogo a violenze intollerabili, che oggi si esprimono negli stadi, ma domani chissà dove possono arrivare. È un fenomeno preoccupante e le società calcistiche dovrebbero reagire di più. Il gesto di Totti è un fatto che rientra proprio in questo panorama, ed è una cosa inconsulta», dichiara il Capo dello Stato a margine della cerimonia dei David di Donatello.

Su Repubblica Gianni Mura attacca la "solidarietà di casta" della categoria: «Ho notato che i più comprensivi con Totti sono i calciatori (anche dell'Inter, come il capitano Zanetti) e gli ex calciatori (Riva, Rivera, Zoff, Mihajlovic). Resta in piedi la domanda su dove stia andando il nostro calcio e su che messaggio mandi. E, infine, chiediamoci perché mezza Serie A ha picchiato, picchia o cerca di picchiare sempre lo stesso giocatore, con la maglia numero 45». La domanda resterà inevasa.

Passarono pochi giorni e si intuì più nitidamente che, come nelle serie TV sulla politica americana che sarebbero state scritte in anni successivi, Totti si era mosso con sapienza girando a suo favore persino quell'episodio pubblico in cui aveva incontestabilmente torto marcio, approfittandone per lanciarsi in osservazioni generali, e nient'affatto banali, sul calcio, sui rapporti umani all'interno del calcio, sulla società a cui sta dando la vita da oltre vent'anni, persino sul concetto di romanità.

È la prima volta che lo si vedeva comportarsi con cinismo, senza mea culpa infantili e strappalacrime, ma approfittando della tempesta per costruirsi un'immagine diversa. Era la macchia che serviva, il primo grave errore da adulto e non più da pupone, una clamorosa ammissione di umanità, lo scandalo di cui ogni grande politico ha bisogno per gettare le fondamenta della propria carriera dirigenziale. Che Totti si era mosso bene lo dimostra il fatto che il suo popolo lo perdonò già dalla partita successiva, un Roma-Cagliari rapidamente trasformato in T-Day, in cui fu lui a rimontare il vantaggio dei sardi nel giro di un quarto d'ora, tenendo viva la tenue fiammella del quarto scudetto almeno fino alla domenica successiva, ultima giornata di campionato. Ma quell'Inter sapeva volare molto più alto, e si prese tutto il piatto.

Quanto a Balotelli, fu titolare a Siena per 59 minuti e guardò la finale di Madrid dalla panchina, corpo estraneo neanche troppo consapevole di esserlo, pigramente seduto tra il vecchio Cordoba e McDonald Mariga. In estate volò al Manchester City senza giocare più un solo minuto con la maglia nerazzurra, ormai trattato da appestato da un ambiente che era arrivato a individuare nel suo orribile show personale contro il Barcellona uno degli episodi fondanti dello spirito di ferro dell'Inter del cosiddetto triplete. Grazie di tutto, e fuori di qui.

La doppia morale di questa storia, quindi, ci presenta da una parte l'eterna assoluzione dei propri figli prediletti, dall'altra la totale assenza di pietas sentimentalista nei confronti di quelli rinnegati. Ecco dunque, in un qualunque giorno di primavera del 2010, la solita, vecchia differenza tra Roma e Milano.

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