Nell’era della sovraesposizione del calciomercato, i direttori sportivi stanno via via assumendo un ruolo di primo piano. Da figure oscure, abituate a lavorare lontano dai riflettori, siamo passati a una nuova veste: dirigenti spesso presenti in tv a negare trattative e a spiegare decisioni prese. Un incarico sempre più cruciale specialmente nelle grandi squadre, monitorate con maggiore attenzione dai media. Rimane invece un velo di leggero mistero sui d.s. dei club in lotta per la salvezza.
Sono spesso intercambiabili, passano da una piazza all’altra estate dopo estate, nel tentativo di costruire qualcosa che sfugga all’effimero. Sono i profeti delle ultime ore di mercato, i cercatori di perle nascoste nella sessione di gennaio. Più sale l’acqua alla gola, più devono trovare soluzioni con un budget limitato. Come gli studenti che si svegliano soltanto nel secondo quadrimestre, hanno bisogno di scuotersi per dare un calcio alla malinconia. È facile ricordare i colpi delle big e con la stessa naturalezza tornano alla mente i flop clamorosi, ma c’è anche un sottobosco sterminato di acquisti di provincia. Nomi eclatanti riciclati in battaglie meno nobili, carneadi che hanno concesso uno show semestrale verso la salvezza, professionisti abituati a difendere con le unghie la categoria. Avrebbe meritato una parte di racconto un caso eclatante come Innocent Emeghara, arrivato a Siena da semisconosciuto e capace di segnare sette gol in una manciata di partite, senza però portare i suoi alla salvezza. Ne abbiamo scelti altri cinque, in grado di portare, con l’aiuto dei compagni, le rispettive squadre all’agognato traguardo finale.
Recoba al Venezia, 1998-99
La bella favola del Venezia, che torna in Serie A per la stagione 1998-99 dopo un trentennio abbondante di agonia nelle serie minori, pare avere vita brevissima. L’architetto del miracolo lagunare, insieme a Maurizio Zamparini, è un dirigente giovane e promettente. Ha 41 anni ma la sua carriera è iniziata a 19 anni come responsabile del settore giovanile del Varese, per arrivare a Venezia è passato da Monza, Como e Ravenna. È Beppe Marotta, che per la panchina arancioneroverde ha puntato su Walter Alfredo Novellino, che da calciatore veniva chiamato Monzon e da allenatore ha il 4-4-2 nelle vene.
Eppure, fino al 20 dicembre 1998, il Venezia non segna neanche con le mani. Il primo gol arriva alla sesta giornata, Schwoch firma il secondo pareggio stagionale a Udine (1-1) dopo lo 0-0 alla seconda con il Parma. L’attaccante si ripete a Firenze ma è 4-1 per i viola. L’unico vero sussulto di una prima parte di stagione da dimenticare è il 2-0 rifilato alla Lazio di Eriksson e i nomi dei marcatori si prestano a un facilissimo gioco di parole per gli sfottò tra romanisti e laziali: tutta colpa di un Pedone in Tuta.
Da lì il Venezia inizia una lentissima risalita. Perde lo scontro diretto a Salerno e infila quattro risultati utili consecutivi, segnando una sola volta: autorete di Zanoncelli per lo 0-1 a Cagliari, in mezzo a tre 0-0 con Sampdoria, Piacenza e Vicenza. Quello con l’Empoli del 6 gennaio è un crocevia ma la partita viene rinviata dopo un’ora di gioco per nebbia, sul punteggio di 0-0: il regolamento prevede comunque la ripetizione del match. In quasi 16 partite, il Venezia ha messo insieme la miseria di quattro gol (una su rigore) e un’autorete. Serve un guizzo, un colpo di fantasia. I lagunari prendono sei sberle a Milano con l’Inter, con il trio Baggio-Ronaldo-Zamorano non si negozia. L’obiettivo di Marotta non siede neanche in panchina, è Alvaro Recoba.
Ha conosciuto la Serie A nella stagione precedente, sparando due frigoriferi alle spalle di Cervone all’esordio in Inter-Brescia e trovando poi un’altra sola rete in campionato, ma da oltre 50 metri con l’Empoli. Novellino è sicuro: è il partner perfetto per Maniero, che a San Siro ha messo a segno i primi due gol della sua stagione. La notizia del prestito di Recoba al Venezia prende lo spazio di una breve sui vari quotidiani, al momento del suo arrivo la squadra è ultima a quota 11 punti, uno in meno della Salernitana, due dell’Empoli, quattro rispetto a Vicenza e Sampdoria. Con una partita ancora da recuperare e un bottino di gol segnati drammatico, tutto sommato è un affare. Il giovane Recoba stringe un legame di amicizia sincera con Pedone. Prende una casa attigua a quella del centrocampista, vanno insieme agli allenamenti, cenano con le rispettive famiglie. Quando c’è da giocare una partitella, è uno spettacolo. «Nelle ripetute, però, non lo vedevi mai», ha raccontato Maniero a distanza di anni. «Odiava la corsa e la tattica, era disgustato da queste cose. Novellino diventava matto. Il mercoledì c’era doppio allenamento, parte atletica la mattina. Ogni mercoledì, con l’allenamento previsto per le 10, arrivava alla 9.58. Il tempo di cambiarsi e tutto… Non iniziava mai in orario, con la faccia di uno che sembrava sveglio da dieci minuti, di uno svogliato unico».
C’è un trittico casalingo in vista: Juventus, il recupero con l’Empoli, quindi il Bari. Recoba subito in campo con la Vecchia Signora, l’1-1 è un risultato più che incoraggiante. Con i toscani è un crocevia. Doppietta di Re Artù Di Napoli, azzurri avanti di due, sembra finita prima di cominciare. Valtolina accorcia, poi è una punizione di Recoba a innescare il tacco di Maniero, che si concede un colpo alla Mancini per il 2-2. È ancora Pippo, a 4’ dalla fine, a trovare la rete del definitivo 3-2.
Il campionato del Venezia inizia adesso ma nel giro di quattro giorni conosce una nuova svolta, finendo sulle prime pagine italiane e internazionali per un caso spinoso. La partita con il Bari è bloccata sull’1-1 quando, in mezzo alla nebbia, spunta la testa di Moacir Bastos, per tutti Tuta. Era entrato al posto di Recoba, la sua rete al 90’ dovrebbe far esplodere di gioia i suoi compagni. Attorno al brasiliano, invece, c’è il gelo. I suoi amici lo festeggiano timidamente, al triplice fischio si prende gli insulti di Spinesi e i buffetti polemici di De Rosa. Secondo tutti, Tuta incluso, le squadre avevano stretto silenziosamente un accordo per il pareggio. Lo intervista Enrico Currò per Repubblica, smentendo le voci di chi non lo riteneva sufficientemente padrone della lingua italiana. «Ho fatto vincere il Venezia con un mio gol, eppure tutti si sono arrabbiati, non solo i giocatori del Bari. I miei compagni erano contenti dell’1-1. Non ho avuto bisogno di capirlo, me l'ha detto direttamente Maniero, poco dopo che ero entrato in campo al posto di Recoba: non dovevo segnare, era meglio che la partita finisse 1-1. Non capisco proprio tutto quello che mi dicono ma in questo caso ho capito perfettamente e sono rimasto sorpreso. Nessuno dei compagni mi ha più avvicinato, neanche a fine partita, ma ho pensato che fosse soltanto perché per il momento non ho buoni rapporti con i miei compagni e con l'allenatore. Sono un pochino razzisti, isolano me e Bilica, ci sentiamo un po' emarginati: né i compagni, né Novellino parlano volentieri con noi». L’inchiesta sarà però archiviata, anche a causa della retromarcia di Tuta.
Maniero segna due volte a Parma per il 2-2, si aspetta ancora il primo squillo di Recoba. Lo show dell'uruguaiano in laguna inizia ufficialmente il 7 febbraio, al Penzo sbarca la Roma di Zdenek Zeman, el Chino segna dopo neanche sessanta secondi, finisce 3-1. Un successo che permette alla squadra di Novellino di staccare di tre punti la zona rovente. Seguono due vittorie casalinghe (Recoba-Maniero contro il Perugia, Recoba su rigore con l'Udinese) e due ko esterni con Milan e Bologna. A metà marzo tocca alla Fiorentina, nominalmente seconda in classifica a -4 dalla Lazio ma lontana con la testa dalla lotta scudetto, tra un ballo di troppo di Edmundo al carnevale di Rio e l'infortunio di Batistuta contro il Milan.
Diciottesimo del primo tempo, punizione. Ci pensa Recoba. «Durante la settimana non stava lì a provarle continuamente, poi in partita gli venivano naturali. Baggio si fermava ogni venerdì a fine allenamento, da solo, e calciava. Lo stesso faceva Mihajlovic: a fine seduta si metteva lì con la barriera e ne provava una decina, una ventina. Recoba no, era talmente conscio del suo potenziale che forse non gli serviva», spiega Maniero. Suoi anche l’assist dalla bandierina per la sagra del flipper di Miceli e la punizione del 3-0, con Toldo che si accartoccia dentro la rete come fosse un pesce. A partita praticamente finita segna anche il 4-1, irridendo la difesa viola.
Se non si tratta del momento più alto della carriera italiana di Recoba, poco ci manca. A fine stagione saranno 11 le reti in sole 19 presenze. Nelle otto stagioni successive, toccherà la doppia cifra in Serie A solamente una volta.
L’Inter scopre di avere un tesoro in casa. L’unico che ne era già convinto è Massimo Moratti, il più grande sostenitore di Recoba: «Sarà il nostro faro nel nuovo millennio». Roberto Beccantini gli dedica un editoriale intitolato Nel calcio vince ancora la fantasia, nella settimana successiva alla tripletta è sotto i riflettori. La leggenda dice che la moglie del Chino sia spesso posizionata in curva, poco sopra l’incrocio dei pali: «Claro, io alzo gli occhi, guardo dov'è lei, e tiro. Talvolta mi va bene. La nostalgia dell’Uruguay è passata del tutto: ce l’avevo quando non giocavo, adesso che gioco e vinco non c’è più». Altro che salvezza, adesso il Venezia vola, la zona calda è a distanza di sicurezza e anche due sconfitte in tre partite non preoccupano. Recoba stende il Cagliari, Maniero il Piacenza, ancora doppio Alvaro contro l’Empoli. Alla penultima arriva l’Inter, che detiene il cartellino dell’uruguaiano. Volpi segna un gol assurdo dopo venti secondi, Recoba pennella come sa su punizione al 4’, trovando la schiena di Frey che derubrica un gioiello in autogol. Il 3-1 finale scatena la festa, sembra la celebrazione di uno scudetto. Il ballo del Chino in laguna è durato cinque mesi, e da quelle parti non l’ha dimenticato nessuno.
Morfeo al Verona, 1999-00
La carriera da allenatore di Cesare Prandelli ci mette un po’ a carburare, ma non si può avere tutto subito. Una parentesi da traghettatore all’Atalanta (con cui lavora anche nel settore giovanile), 18 gare disastrose alla guida del Lecce in Serie A nella stagione 1997-98 – 14 sconfitte – e l’inevitabile addio ai salentini. Decide di puntare su di lui, un po’ a sorpresa, Giambattista Pastorello. L’Hellas Verona ha programmato il ritorno in Serie A e Prandelli, fresco quarantenne, deve far viaggiare al meglio un gruppo che unisce un attacco che pare fuori scala per la categoria – Aglietti, Cammarata, De Vitis, Ghirardello e Guidoni – e qualche giovane interessante tra difesa (su tutti il danese Laursen) e centrocampo, con Brocchi che è un promettente esterno di fascia. In più, in mediana ci sono tanti nomi solidi: Italiano, Leo Colucci, Marasco, Corini, Melis. Il Verona domina la B e si presenta con tanto ottimismo in A. Davanti arriva Adailton, in difesa un vecchio lupo di mare come Apolloni, in porta l’esuberante francese dell’Inter Frey, per un campionato in cui dovrebbe limitarsi a fare da dodicesimo all’esperto Battistini. Nell’epoca delle sette sorelle, il mercato del Verona è al risparmio. Il volto più in vista è sicuramente quello di Prandelli: «Mi ispiro a Trapattoni, seguo con interesse Lippi e Zaccheroni. Da Giovanni ho imparato a restare appiccicato alle cose semplici, agli altri mi sono ispirato per tenere alto il livello delle motivazioni. È vero che servono i campioni, ma senza giocatori che remano nella stessa direzione fai poca strada». La stella dovrebbe essere il croato Spehar, preso dal Monaco. Gioca poco, non segna mai.
Il Verona centra la prima vittoria alla seconda di campionato con il Lecce, si ripete alla sesta con il Perugia, poi più nulla. Una delle poche note positive è Frey, che prende i pali a partita in corso a Parma (quinta giornata) per espulsione di Battistini e non la lascia più. Otto punti nelle prime undici partite, ne arrivano sette in tre prima della sosta natalizia, il mattatore è Adailton, che segna quattro gol.
Segna anche il 9 gennaio, su rigore, contro la Reggina, per un prezioso 1-1. Prandelli ha ancora la fiducia della società e prova a chiedere un suo protetto. Lo aveva coltivato con la delicatezza che richiedono i fiori più belli e fragili, lasciandolo poi in altre mani che, evidentemente, non hanno saputo avere altrettanta cura. Domenico Morfeo arriva a Verona per dimenticare qualche passo più lungo della gamba. Firenze sembrava la tappa intermedia giusta, la parentesi al Milan un azzardo troppo grande nonostante la vittoria dello scudetto (da comprimario). Solo cinque presenze a Cagliari nella prima parte di 1999-00, prima della chiamata del vecchio maestro Cesare.
Ci avevano provato anche Torino e Bologna, ma Morfeo segue il cuore e la prospettiva di sei mesi di entusiasmo e leggerezza: «La sua stima mi ha portato a Verona: sa come farmi giocare. E segnare. Ritrovo il tecnico che per primo, ai tempi dell'Atalanta, ha creduto nei miei mezzi. Già la scorsa estate ne avevamo parlato, dire che sono contento è scontato. Avevo l'opportunità di accasarmi altrove, però la stima che Prandelli ha sempre nutrito nei miei confronti mi ha convinto ad accettare le offerte di Pastorello. Ho una voglia matta di tornare in campo. Sono pronto a gettarmi con entusiasmo nella mischia perché so che mi trovo di fronte ad una fase importante della carriera». Ha bisogno di fiducia: è esile come un giunco, ha un piede sinistro con cui potrebbe scrivere poesie, ma riesce a svanire la continuità nell’arco della stessa partita, talvolta di una stessa azione.
A sedici anni lo chiamavano Riverino, Prandelli vuole ritrovare quel giocatore. La prima fiammata di purissimo Morfeo arriva il 6 febbraio, al Bentegodi c’è la Fiorentina, con il Verona che viene da due sconfitte ed è ancora impelagato in zona retrocessione. Prima della partita abbraccia Rui Costa, in campo affianca Cammarata. Batistuta sfrutta la nebbia e una deviazione per battere Frey con un missile su punizione, Morfeo fa 1-1 sempre su palla inattiva, ma di pura astuzia. Sinistro sotto la barriera, anche in questo caso c’è una leggerissima deviazione ma è comunque il suo primo gol gialloblù. La nebbia mette a durissima prova gli spettatori che vedono il match in televisione ma non Morfeo. È suo anche il raddoppio, con un diagonale destro al volo che è un capolavoro di rapidità d’esecuzione. Pareggia Rui Costa ma Prandelli può sorridere, ha visto ciò che gli interessava.«Nei due gol alla Fiorentina non c’è rivincita nei confronti di Trapattoni o della società viola, un professionista deve capire quando cambiare aria. A Verona con Prandelli, che considero uno dei migliori tecnici in assoluto, ho riscoperto entusiasmo e determinazione, e ho trovato un gruppo con il quale sono convinto di potermi togliere parecchie soddisfazioni. L'impianto di gioco è solido, teniamo bene il campo con chiunque: se crederemo di più nei nostri mezzi e al tempo stesso ci batteremo con maggiore intensità, mettendo da parte certe leziosità, riusciremo a ottenere in tempi brevi i risultati per riossigenare la classifica». Un fantasista noto per la sua tendenza al numero che chiede concretezza ai suoi compagni. Morfeo segna anche a Bari per l’1-1 ed è uno dei gol più belli della sua carriera, contro il Parma che sogna lo scudetto serve un grande Verona. Brocchi illude in avvio, poi i ducali di Malesani ipotecano il match con il ribaltone firmato Stanic, Fuser e Crespo. Inizia il secondo tempo ed è Morfeo, con una punizione che espone Buffon a una mezza figuraccia, a riaprire la partita. Ancora Mimmo a dipingere col mancino per la testa di Leonardo Colucci, la difesa del Parma combina un disastro e regala a Melis il pallone del clamoroso 4-3. È la gara che permette al Verona di iniziare un altro campionato, il simbolo della rinascita.
«Mi sono sempre allenato bene, ho fatto il professionista fino all'ultimo giorno. Ho la coscienza a posto, forse qualcun altro no», racconta Morfeo, il migliore in campo, ai microfoni della Rai.
L’Hellas non perde più, oltre a Morfeo può apprezzare anche la vena realizzativa di Cammarata, che a 25 anni pare finalmente pronto per la Serie A. Dopo sei risultati utili consecutivi, con l’acuto del 3-3 in casa del Milan, il Verona accoglie la Lazio e sembra consegnare lo scudetto alla Juventus: finisce 1-0 e segna, anche stavolta, Morfeo. Ancora con il destro, il piede meno nobile. Adesso l’Hellas è un treno in corsa, che passa sugli avversari senza neanche farci caso. Batte Torino, Piacenza e Cagliari, pareggia con Udinese, Verona e Venezia. La serie positiva prosegue anche senza Morfeo, che ha trasformato i suoi prima di accusare qualche problema fisico di troppo, l’altro grande problema di una carriera che avrebbe meritato miglior fortuna. Non è in campo quando Cammarata, polemico ex, stende la Juventus ormai a un passo dal tricolore, rimettendo in carreggiata quella Lazio che proprio Morfeo aveva piegato un mese e mezzo prima.
Mimmo non riesce più ad assaggiare il campo, il suo bottino resta fermo a 10 presenze, 5 gol, qualche assist, tanti lampi, la percezione di potersi riprendere il calcio che conta. Soltanto a sprazzi si ritroverà allo stesso livello di gente con cui aveva condiviso l’esperienza in Under 21 come Vieri, Totti e Del Piero, pur parlando la loro stessa lingua calcistica. Sarà costretto a ridimensionarsi per non sparire. Mino Favini, che per anni è stato l’architetto del settore giovanile dell’Atalanta, dirà di lui: «Mimmo era talento puro. I suoi compagni di squadra non lo capivano, faceva delle giocate stranissime per un ragazzino di 14 o 15 anni, perché vedeva tutto, aveva occhi davanti e dietro. Tecnicamente rasentava la perfezione. Tutti ci aspettavamo qualcosa in più da lui. Era un ragazzo anche intelligente, arguto, con la testa. Io non so dire il perché, la cosa che più mi convince è che lui pensava che essere nato bravo bastasse per emergere».
Bonazzoli alla Reggina, 2002-03
È difficile inquadrare Emiliano Bonazzoli in una precisa categoria di attaccanti. Non si può dire che fosse un centravanti forgiato per brillare in Serie B: esistono da sempre i giocatori “di categoria”, perfetti per una serie inferiore e poi inadatti al momento del salto di qualità, eppure Bonazzoli soltanto due volte (su sei stagioni complete) ha superato la doppia cifra in cadetteria. Ha fatto il centravanti titolare in tante squadre pronte a sporcarsi mani e piedi per la salvezza, senza mai esserne la stella. Ha provato anche la veste di riserva in formazioni di medio-alto livello, e forse era la più adatta: gli 8 gol in una stagione e mezza con il Parma, la doppia cifra sfiorata con la Sampdoria in sole 17 presenze nel 2005/06. Un attaccante forte fisicamente eppure dotato di colpi tecnici in totale contrasto con la sua stazza e con il ritratto del pennellone utile soltanto per le sponde.
Nel gennaio 2003, dopo diciotto mesi tutto sommato positivi a Parma, Bonazzoli ha voglia di sentirsi importante, come è logico che sia per un ragazzo di 24 anni. Accetta la chiamata della Reggina. La situazione dei calabresi è difficile ma non compromessa, Gigi De Canio è salito sulla barca che stava affondando a metà novembre ed è riuscito almeno a tamponare le falle, ereditando un gruppo reduce da una sola vittoria in otto giornate, con conseguente penultimo posto, e portandolo a una sola lunghezza dai posti buoni per la salvezza, aiutato da un paio di vittorie firmate da Gianluca Savoldi, figlio del grande Beppe. Il reparto offensivo della Reggina non è da buttare via: Bogdani è una prima punta non particolarmente prolifica ma utile in determinati contesti, David Di Michele è atteso all’anno della consacrazione. Per De Canio, però, manca qualcosa, ed ecco Bonazzoli, che sale su un aereo da Parma insieme a Torrisi e Diana per cercare di salvare la Reggina.
Il debutto arriva su un campo difficile, in casa della Lazio di Roberto Mancini, la grande rivelazione della prima parte di stagione: dopo la cessione di Nesta e Crespo, il tecnico ha saputo rivitalizzare il gruppo fino a portarlo anche in vetta alla classifica. Bonazzoli si abbatte sulla Lazio e sul campionato come un tornado: il primo gol in maglia amaranto non è il capolavoro che richiamerà echi di van Basten qualche anno più tardi in quello stesso stadio ma ha un peso specifico ancora più grande, visto che frutta una vittoria bella e insperata. Una rete che arriva addirittura prima della presentazione ufficiale alla stampa: «Meglio di così non potevo iniziare, adesso spero di realizzare un bel bottino con la maglia amaranto. Me ne basterebbero sette per arrivare a dieci reti complessive contando quelle con il Parma ma non vorrei pormi limiti: se riuscissi ad arrivare più in alto, tanto di guadagnato. Di Michele è la seconda punta ideale, agile, scattante, bravo a saltare l’uomo. Sono convinto che ci integreremo molto bene».
Segnano entrambi nel successo sul Perugia (3-1, in gol anche Cozza), il Granillo deve diventare il fortino nel quale costruire la salvezza. Quattro reti al Como – Bonazzoli non segna – e tre all’Udinese, con il ritorno al gol del gigante di Asola. Dopo 23 giornate, la Reggina è finalmente fuori dalle ultime quattro posizioni, anche se ha un misero punticino di vantaggio su Empoli e Atalanta. Fuori casa arrivano solo delusioni ma la vittoria sull’Empoli (rigore di Nakamura) vale doppio. Il 13 aprile, solo sette giorni più tardi, c’è l’altro scontro diretto, a Bergamo. È una partita dai due volti. Parte benissimo la Dea, in vantaggio con Doni e vicinissima al colpo del ko con Bellini e Vugrinec. Belardi tiene i suoi aggrappati alla partita, nella ripresa è la quarta rete amaranto di Bonazzoli a rimettere il conto in parità.
Sulle ali del pareggio, Cozza va due volte a un passo da una vittoria che darebbe tutto un altro senso al finale di stagione, un grande ex come Taibi glielo nega. Rimane un punto tra le due squadre e la Reggina accusa una piccola ma decisiva flessione. Ko in casa del Chievo, un solo punto racimolato tra Parma e Roma in casa, quindi il 2-2 a Piacenza. I minuti che mancano all’inferno sono 180, Atalanta e Reggina, ferme a quota 32, sanno che sarà una corsa a due: troppo lontane Empoli e Modena a 37 punti. Al Granillo arriva la Juventus, con il titolo già in tasca e la finale di Champions League all’orizzonte. Lippi pesca a piene mani dai rincalzi, c’è la chance per il debutto da titolare del ventenne Paro.
Sinistro di Bonazzoli, risposta di Buffon, Di Michele fa esplodere i tifosi reggini poco dopo il quarto d’ora. La Juve pareggia senza sforzo, perché Belardi compie una pazzia su un retropassaggio di Jiranek: per evitare il corner rinvia addosso a Zalayeta, che a porta vuota deve solo stoppare e mettere in rete. Reggina a spron battuto, traversa di Di Michele. A inizio ripresa Buffon alza bandiera bianca, per lui entra Chimenti, che non fa nemmeno in tempo a battezzare i guanti: testata di Bonazzoli su angolo di Nakamura, pandemonio. Ancora più facile il compito per l’Atalanta, che supera in casa il Como già retrocesso con doppietta di Doni. Altri novanta minuti di un balletto sinistro per evitare il burrone della B. Tutte e due in trasferta: la Reggina a Bologna, gli orobici a Roma, con i giallorossi di fatto privi di obiettivi. Anche i felsinei non hanno grandi assilli di classifica e ci pensano i soliti due, Bonazzoli e Di Michele. Vince anche l’Atalanta, con Doni e Gautieri: è spareggio.
De Canio arriva a questa sfida con un tabù non da poco: non ha mai sconfitto l’Atalanta in carriera. La Reggina è in grande forma anche se Nakamura non è al meglio e va in panchina, la dirigenza nerazzurra ha silurato Vavassori a un mese dalla fine del campionato per affidare la guida tecnica della squadra al tecnico della Primavera, Giancarlo Finardi. In città, per lo spareggio d’andata, viene indetta una sorta di giornata amaranto. Negozi chiusi in largo anticipo, solo mezza giornata in ufficio, i più fortunati al Granillo, gli altri davanti alla tv. Bellini salva su Bonazzoli ed è il primo brivido di giornata, il secondo è l’ammonizione del diffidato Doni: salterà il ritorno a Bergamo. Carrera mura Di Michele, Paredes spara in curva da due passi. La Reggina domina, Sala si fa espellere, Finardi si protegge con Natali per Vugrinec. De Canio prova anche la carta Nakamura, per disperazione butta nella mischia Bogdani per Ivan Franceschini. Tutti avanti ma Taibi vola da un palo all’altro: salva su Bogdani, su Paredes, anche su Savoldi. Stallo totale, ancora una volta. Si va a Bergamo per capire chi resterà in A.
La tensione è alle stelle, De Canio lascia ancora una volta Nakamura in panchina preferendo una squadra più muscolare. Difesa a 3 davanti a Belardi, due esterni di fatica come Diana e Falsini, Paredes a proteggere le geometrie di Mozart, Cozza dietro a Di Michele e Bonazzoli. Dall’altra parte, senza Doni, un classico 4-4-2: Zauri fa l’esterno alto a sinistra con Gautieri sulla fascia opposta, Dabo e Berretta in mezzo, Rossini a fare a sportellate con i centrali reggini per lasciare spazio a Vugrinec. Contro ogni pronostico, è l’Atalanta a passare, e sembra che ci sia davvero un velo di magia attorno a Finardi, imbattuto nelle sei partite alla guida della Dea. Cesare Natali trova un colpo da biliardo sugli sviluppi di un calcio d’angolo, festeggia togliendosi la maglia, per la Reggina è una mazzata. La squadra si getta subito in avanti, la svolta è al 33’. Cozza duetta con Di Michele, Bonazzoli fa una giocata stranissima, una specie di passaggio di petto. Non si capisce se sia voluto o uno stop sbagliato, sta di fatto che è perfetto per il ritorno di Cozza. Il fantasista entra in area e davanti a Taibi trova un tocco sporchissimo e vincente, un rimpallo che pare quasi sgonfiare il pallone per qualche istante.
Belardi è bravissimo su Gautieri, il colpo di testa di Pià esce di qualche millimetro. La Reggina è alle corde, De Canio lo sa e chiama Morabito. Deve entrare al posto di Bonazzoli, che è stremato, non ce la fa più. Ha l’ultimo pallone della sua partita sul mancino, ai 20 metri. Non ci pensa due volte. Gli esce un rasoterra velenoso, Taibi non riesce a scendere in tuffo: è il gol salvezza. Adesso può uscire e festeggiare nei pochi minuti che mancano. A Reggio ci sono 25.000 persone che sfilano per le vie della città, Lillo Foti parla di una vittoria del Sud, De Canio a fine partita torna anche su quella sostituzione che avrebbe potuto cambiare in negativo la storia della Reggina: «Per fortuna è andata così. Fosse per me, sostituirei Bonazzoli solo in punto di morte».
Sperava di segnare sette gol con la maglia della Reggina, il più importante è l’ottavo
Giuseppe Rossi al Parma, 2006/07
Sarebbe stato Enzo Bearzot, in un momento di rara ispirazione, a trovare il soprannome giusto per un ragazzo magro, con la testa un po’ troppo grande rispetto al resto del corpo, eppure veloce come il vento. Lo aveva ribattezzato Pepito perché gli ricordava in alcuni lampi il suo Pablito. In comune, oltre all’assonanza del nomignolo, anche il cognome. Giuseppe Rossi, paisà nato in New Jersey dall’amore di Fernando e Cleonilde, si era trasferito giovanissimo a Parma per iniziare a dare i primi calci veri a un pallone. Come tanti giovani italiani emersi in quel periodo, viene notato da un club inglese e sottratto al vivaio ducale, il Manchester United.
Qualche presenza, poi il primo tentativo di prestito per verificarne la tenuta fisica e mentale. Al Newcastle non va benissimo e Pepito ha un desiderio da esaudire. Chiede ad Alex Ferguson di lasciarlo tornare a Parma, anche solo per sei mesi. Lo scozzese acconsente, pur scettico: i ducali sono in una situazione disperata di classifica, avendo raccolto solo dodici punti nel girone di andata. La panchina di Stefano Pioli è una polveriera quando Pepito torna a casa. È un trasferimento che scivola un po’ sotto traccia visto che il Milan sta facendo di tutto per riportare in Italia Ronaldo. Per far capire il livello del Parma in cui va a collocarsi Rossi, bastano le dichiarazioni di Pioli: «L’idea è quella di farlo giocare accanto a Muslimovic». Contro il Toro, per l’esordio, il diciannovenne affianca però Budan, con Morfeo a sostegno. Gli servono 75 minuti per dare una scarica di adrenalina a una piazza dormiente. L’aggancio sul cross da sinistra forse non è pulitissimo, ma lo mette in condizione di inscenare uno slalom stretto. Tre difensori del Torino si lasciano attrarre dal pallone, mentre Pepito può sfogare un sinistro non precisissimo ma potente, che Taibi non respinge.
C’è un che di bambinesco nella prima esultanza italiana di Giuseppe Rossi, che rotea le braccia con una felicità incontenibile. Dal replay basso si apprezza il tocco con cui fa fuori mezza difesa granata.
«Credo che la perla con il Torino sia la prima di una lunga serie», scrive Gianni Mura sulle pagine di Repubblica. Il Parma perde però in casa di Milan e Roma, e non gioca il 4 febbraio a causa del rinvio del match con la Fiorentina. Pioli salta, complice anche il cambio di proprietà. Tommaso Ghirardi, nuovo patron, vuole un nome di grido per tornare ad alzare la testa. I punti in classifica sono appena 15 eppure il presidente riesce a convincere un altro cavallo di ritorno in Italia: è Claudio Ranieri, assente dal nostro campionato da dieci anni. La prima uscita lo costringe a pronte scuse - «Io farò morti, non feriti. Chi ci segue è con noi, chi non lo fa è contro: i vivi sono quelli che credono di potersi salvare, gli altri sono i morti» - ma probabilmente è figlia dell’immensa voglia di riscatto di un allenatore a cui brucia ancora l’addio al Chelsea. «Io ci credo, e così dovranno fare i miei giocatori. Il gioco arriverà ma ora bisogna usare la scimitarra», afferma nel giorno della presentazione.
Deve prima liberarsi di una Coppa Uefa che è un fastidio più che un teatro di prestigio: il Parma viene eliminato dal Braga ai sedicesimi, in mezzo c’è la sconfitta con la Sampdoria. La squadra ingrana lentamente, fa quattro pareggi consecutivi (Udinese, Ascoli, Reggina e Atalanta) in cui Rossi va a segno due volte su rigore. Gasbarroni è l’eroe del ritorno alla vittoria (1-0 sul Siena), poi il ko in casa dell’Inter alla trentesima. La classifica fa ancora tremare i polsi, la sfida con un Livorno già in zona tranquillità vale mezza salvezza. Sfila via sofferta fino all’89esimo. Calcio d’angolo da sinistra, il pallone viene allontanato fuori area ma c’è Pepito. Raccoglie il corpo in un istante, l’esecuzione del mancino al volo è perfetta. È un altro gol scaccia incubi, anche se la strada è lunga.
Il Parma entra con l’animo più leggero nella settimana che può decidere parte del suo futuro. Trasferta a Catania, recupero infrasettimanale della sfida con la Fiorentina, quindi di nuovo in Sicilia per affrontare il Palermo. In terra etnea l’1-1 non è da buttare, ma c’è da vincere con i viola, in corsa per l’Europa. Budan e Rossi mandano fuori giri la difesa gigliata, il primo gol è un gioiello: bellissima la preparazione del croato, a Pepito basta l’accenno di una giocata per mettere a sedere Potenza e battere Frey. Raddoppia su rigore a un minuto dalla fine e i ducali scoprono di potercela ancora fare, in lotta con un Chievo in crisi, con una Reggina nella palude a causa degli undici punti di penalizzazione e con almeno altre quattro squadre, pur distanti: Torino (+3), Catania (+4) e il duo Siena-Cagliari (+5). Se la Fiorentina sognava l’Europa, il Palermo ha toccato con mano per diversi mesi il quarto posto che vorrebbe dire Champions League, salvo piombare in una crisi inaspettata.
Al Barbera va in scena una delle partite più pazze del campionato: termina 3-4 per il Parma, Rossi segna la rete del momentaneo 2-4 dopo che Gasbarroni aveva portato avanti i suoi con una magia da fuori area. La terza vittoria di fila arriva contro il Cagliari e la vista è tutta sull’altro spareggio, quello con il Chievo, della giornata successiva. Vincere vorrebbe dire chiudere il discorso salvezza ma Pellissier non è d’accordo. Con tre partite ancora da giocare e un solo spot retrocessione aperto – già in B Messina e Ascoli – nel rush finale, le squadre in soli quattro punti sono addirittura otto: a scendere dalla posizione più alta, Cagliari, Catania, Livorno, Torino, Reggina, Chievo, Parma e Siena.
I toscani hanno 34 punti, il Parma è nel terzetto a 35, quindi labronici e granata a 36 e le due isolane a 37. Parma-Messina è un’occasione da non perdere. Pepito mette il vestito buono e fa doppietta nel 4-1 che riporta i ducali a +2 sulla coppia Reggina-Chievo. L’attesa per l’aritmetica dura fino all’ultima giornata, prima c’è lo 0-0 in casa della Lazio: nella passerella finale contro l’Empoli, battuto 3-1, Rossi non segna ma la missione è compiuta. Ha salvato il Parma, ha dimostrato a Ferguson di essere un giocatore pronto, lo vuole mezza Europa. Andrà al Villarreal, mentre Ranieri accetterà la chiamata della Juventus, al ritorno in Serie A dopo la bufera Calciopoli.
Maxi Lopez al Catania, 2009/10
Le foto di una giovane Wanda Nara iniziano a circolare in Italia intorno al dicembre del 2009, prima di soppiatto su qualche forum, poi anche sulle pagine dei giornali. La Lazio, che Davide Ballardini sta conducendo dritta nell’Acheronte che sfocia nella retrocessione dopo aver vinto una Supercoppa Italiana contro l’Inter senza avere la più pallida idea del modo, ha bisogno di un attaccante. Rocchi non è nella sua migliore stagione, Zarate è l’ombra dell’uomo che aveva fatto impazzire una tifoseria, l’esperimento Cruz non si è rivelato particolarmente centrato. Ci sarebbe un certo Goran Pandev, ma il tecnico laziale sostiene di averlo messo fuori rosa per scelta tecnica. Una motivazione così surreale da indurre il macedone a fare causa alla società biancoceleste, ottenendo la rescissione contrattuale e anche 160.000 euro per il disturbo. «Ho scelto io con grande ponderazione di non convocare mai per le gare ufficiali Goran Pandev. È una mia scelta e ne rivendico la paternità. Escludo che il presidente Lotito mi abbia mai chiesto di escludere Pandev dalle gare ufficiali», sostiene Ballardini davanti al Collegio Arbitrale.
Mente per proteggere una scelta che gli è stata imposta dall’alto – e che rivelerà a distanza di anni, quando ritroverà Pandev al Genoa - ma sa di avere bisogno di un attaccante. Tare si sta dando da fare per portare in Italia Maxi Lopez, centravanti argentino appena riscattato dal Gremio dopo una stagione più che positiva in prestito. Alle sue spalle si staglia la figura della suddetta Wanda, che le cronache italiane definiscono decisiva nella volontà di Maxi di approdare in Italia. Con Barcellona e Mallorca non ha sfondato, ora vuole un’altra chance nel calcio che conta. È Wanda che lo spinge verso l’Italia, ma non sarà Roma la metà finale, nonostante settimane di corteggiamento. Qualcosa, durante la trattativa, va storto. Si inserisce il Catania, guidato da un ex laziale come Sinisa Mihajlovic. Anche gli etnei sono in lotta per la salvezza, a Maxi sta bene.
In città si parla più che altro di Wanda, sui principali giornali italiani escono articoli al limite del pruriginoso: «Un binomio in cui il calcio giocato del "Massimino" e il fascino muliebre di una fotomodella sudamericana si mischiano perfettamente perfino nell'assonanza delle parole siculo-argentine che senti pronunciare al bar, agli allenamenti, dal barbiere, in via Etnea», scrive Luciano Mirone su Repubblica. Maxi cerca di non pensarci, Mihajlovic spende parole al miele per lui e lo lancia titolare contro l'Udinese: 55 minuti non esaltanti per ritrovare un po’ di ritmo, l’1-1 firmato da Biagianti è un risultato positivo anche se c’era aria di spareggio salvezza, vista la posizione dei bianconeri, diciassettesimi a quota 21, e degli etnei, un gradino più in giù a 20.
Il tecnico serbo è a Catania da poco più di un mese, subentrato a Gianluca Atzori e capace di mettere a segno un colpo clamoroso in casa della Juventus. La squadra è decisamente in risalita grazie alla sterzata di Miha: undici punti in sette partite, tutt’altro rendimento rispetto al predecessore. Il destino mette Maxi Lopez presto a contatto con la Lazio: il 7 febbraio, con il mercato appena chiuso, all’Olimpico va in scena un match dall’enorme valore di classifica. I biancocelesti giocano meglio nel primo tempo, lo squalificato Mihajlovic aggiusta qualcosa con l’aiuto del vice Marcolin ed è proprio Maxi Lopez a decidere la sfida. Esulta quasi come fosse un ex, mostra le orecchie verso la tribuna autorità, per alcuni è un messaggio a Lotito. L’argentino nega, ma se la ride: «Nessun gesto polemico nei confronti della Lazio, ho gioito per la gente di Catania. Dedico al gol alla mia famiglia, che ha a lungo atteso questo momento». Con il suo gol, Lopez rilancia gli etnei fuori dalla zona calda, ci fa precipitare la Lazio e provoca l’esonero di Ballardini.
C’è da attendere un mese per il ritorno al gol dell’argentino, in mezzo arrivano comunque quattro punti preziosi. Mette la firma sul 2-2 con il Cagliari, poi è uno dei tanti protagonisti nella notte in cui José Mourinho teme davvero di poter perdere lo scudetto. È lui a bruciare Lucio per l’1-1, Muntari si fa espellere a sessanta secondi dall’ingresso in campo e il duo Mascara-Martinez passeggia sui resti dell’Inter destinata al triplete. La lunga festa salvezza del Catania inizia qui, in una notte di metà marzo, con la squadra a +8 sul baratro. Gli etnei pareggiano a Verona col Chievo, battono la Fiorentina, perdono a Napoli ma senza mai sembrare a rischio ricaduta. Maxi Lopez mette la ciliegina il 3 aprile nel derby con il Palermo: è il giorno del suo compleanno, l’argentino si regala due reti che fanno impazzire il Massimino.
Chioma fluente e una capacità innata di attaccare il primo palo: la migliore versione di Maxi domina il derby di Sicilia. «Che goduria quella doppietta! Al mio primo anno in Italia, nel giorno del mio compleanno».
Sta bene come mai prima e dopo nella sua carriera. È potente e veloce, nel finale di stagione offre il meglio del proprio repertorio, quando sterza di colpo senza palla verso il primo palo non c’è difensore in grado di arginarlo. Timbra contro Milan, Siena, Livorno, Bologna e Genoa, chiude a 11 gol in 17 partite. Si innamora di Catania, della sua gente, di un sud che sente vicino al suo modo di essere. Mihajlovic se ne va e forse toglie qualche certezza a Maxi, che nella gestione Giampaolo-Simeone mette a segno 8 reti in 35 presenze. Al suo terzo anno si toglie lo sfizio di segnare ancora nel derby, su rigore. Esce in lacrime perché sa che è la sua ultima gara con quella maglia. Lo aspetta il Milan insieme a un futuro personale turbolento.
L’Italia diventa la casa di Maxi, mai così leggiadro come in quello spezzone semestrale a Catania. Tornerà in Sicilia alla vana ricerca di quell’ispirazione persa. Ritroverà anche Mihajlovic a Torino, ma il serbo gli rinfaccerà un bagaglio in eccesso: «Gli ho detto che se un giocatore riesce a fare determinate cose con sette chili in più, quasi come se portasse una lavatrice sulle spalle, deve immaginare cosa può fare se tornasse ad essere in forma». Ora è in Brasile, al Vasco. Ha salutato tutti con un post su Instagram: «Faceva freddo anche a Catania nel gennaio 2010. Qualche giorno in gran segreto a Roma, poi Taormina. Scoprivo l’Italia partendo dal Sud. Da quelle parti l’Argentina è casa. Ed io mi sono sentito subito a casa».