L’anello è l’oggetto che più caratterizza lo sport negli Stati Uniti. A partire dalla NBA fino alla NFL, passando per il baseball e la MLB, gli anelli sono il simbolo della vittoria e vengono consegnati a giocatori, allenatori e staff della squadra campione della lega. Nel football, ad esempio, è la stessa lega a pagare 150 anelli per ogni squadra che arriva al Super Bowl, per con un costo approssimativo di 5.000 dollari ciascuno.
Quella degli anell è una tradizione talmente radicata nello sport americano che ha finito per contaminare anche il mondo degli esports, soprattutto quello che negli Stati Uniti hanno una grande diffusione come Call of Duty. Il titolo di Activision è però in primo luogo uno dei videogiochi più di successo degli ultimi anni, che ha segnato l’immaginario dei videogiocatori da ormai quasi vent’anni.
Il successo di Call of Duty
Fin dal primo capitolo, semplicemente Call of Duty, uscito il 29 ottobre del 2003, il videogioco di Activision ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo del gaming lanciando il sottogenere dei simulatori di guerra nei videogiochi sparatutto in prima persona. Dopo sono arrivati quasi 17 anni di presenza sul mercato videoludico, con diciotto capitoli ufficiali e diversi spin-off. A ottobre 2019 secondo quanto raccolto dal sito Statista l’intera serie di CoD ha venduto più di 250 milioni di copie, un traguardo che pochissimi videogiochi possono vantare nel mercato del gaming. Il più venduto, Call of Duty: Black Ops del 2010, è arrivato a quasi 31 milioni di copie.
Il numero di copie vendute dai vari capitoli di Call of Duty.
L’ultimo capitolo, Call of Duty: Modern Warfare, pubblicato il 25 ottobre 2019, ha totalizzato vendite per oltre 600 milioni di dollari nei primi tre giorni di uscita ufficiale sul mercato, diviso tra vendite fisiche e digitali e in appena 72 ore è diventato il videogioco più venduto nella fascia di prezzo premium (intorno ai 60.00 $) nel 2019; il miglior lancio digitale nella storia di Activision; il miglior lancio di Call of Duty su PC; il gioco più prenotato per PS4; il più alto numero di ore giocate e di numero di giocatori degli ultimi sei anni. Per fare un paragone con un altro settore dell’entartainment, i 600 milioni di dollari del weekend del lancio rappresentano il doppio di quelli guadagnati dal film Joker nello stesso lasso di tempo al botteghino.
Un successo oltre il PC e le varie console, PS4 e XBox, e che ha coinvolto, o forse sarebbe meglio dire travolto, persino il mercato mobile. Secondo i dati raccolti da SuperData, società di Nielsen, Call of Duty Mobile ha generato nel suo mese di lancio 57,3 milioni di dollari di ricavi dall’uscita segnata in calendario il 1° ottobre 2019, diventando di fatto il videogioco mobile più remunerativo mai pubblicato da un’azienda occidentale in un mercato dominato da titoli di origine e sviluppo orientale. Per fare un confronto con altri videogiochi che hanno avuto grande successo su mobile: Fortnite Mobile ha ottenuto 18,3 milioni di dollari al lancio nel marzo 2018, mentre Brawl Stars, titolo Supercell che deteneva il record, si era fermato a 52 milioni. Paragonato a Fortnite, i giocatori di CoD Mobile trascorrono in-gamel’86% di tempo in più: in media 58 minuti al giorno contro i 31 del titolo targato Epic Games.
I giocatori passano l’83% del tempo in più su Call of Duty Mobile piuttosto che su Fortnite (fonte: Superdata).
Non è facile spiegarsi il successo di Call of Duty, che come abbiamo detto si ripete da titolo a titolo e su piattaforme diverse, parlando solo delle sue caratteristiche tecniche come il gameplay o l’interfaccia - sicuramente semplice e al tempo stesso rapida. Perché alla base, in primo luogo, c’è soprattutto la fedeltà della community che Call of Duty è riuscita a costruirsi negli anni. E se ogni anno cambia il titolo con nuove ambientazioni e modalità, ciò che rimane immutato è lo spirito che contraddistingue la serie - un aspetto intangibile, ancora di più nel mondo del gaming, ma comunque presente nonostante le sfumature sempre diverse. In questo senso, è ancora più sorprendente notare che Call of Duty non sia realizzato da una singola casa videoludica ma da quattro diverse (Infinity Ward, Treyarch, Sledgehammer Games e Raven Software) che si alternano di anno in anno.
Modern Warfare
“È notte a Londra e voi vi ritrovate con un gruppo di agenti anti-terrorismo che avanzano verso una casa. I report inviati dall’intelligence suggeriscono che nell’abitazione è presente una cellula di assalitori che ha condotto recentemente un attacco alla città. La vostra squadra fa breccia attraverso la porta e si muove di stanza in stanza, uccidendo chiunque rappresenti una minaccia. Ma non ci sono solo uomini armati. Ci sono anche bambini, dispersi nel fuoco incrociato. Al piano superiore apri l’ultima porta e trovi una donna che ti implora di non sparare: e mentre pensi di poterti prendere una pausa per un singolo momento, lei si lancia verso una pistola. E diventa questione di sopravvivenza tra te e lei”.
Così il TIME descrive un tipico scenario di Call of Duty: Modern Warfare, l’ultimo titolo della serie pubblicato nel 2019 e che ha da poco rimandato l'uscita della quarta stagione per non distrarre l'opinione pubblica da ciò che sta succedendo negli Stati Uniti dopo l'uccisione di George Floyd. Un titolo che cerca di esplorare il complicato mondo della guerra, fatta non solo di ampi campi di battaglia in cui si confrontano alleati e nemici, ma anche di azioni di spionaggio e terrorismo in cui il limbo tra giusto e sbagliato è sempre più sottile. Uno scenario, insomma, più simile alla guerra diffusa che abbiamo imparato a conoscere sempre di più negli ultimi anni nelle zone di guerra mediorientali, dall’Afghanistan all’Iraq fino alla Siria. Jacob Minkoff, che ha supervisionato la sceneggiatura del videogioco per Infinity Ward, è convinto che il pubblico sia più che maturo per questo tipo di realismo: «Nessuno che abbia 18 anni o più è convinto che la guerra possa essere vinta in modo semplice. I nostri giocatori esigono una storia che rappresenti anche le loro esperienze di vita in un mondo che è da sempre in guerra perenne».
Un dettaglio di una cinematica interna al gioco che sfiora il realismo perfetto.
Un approdo stilistico che 17 anni fa nessuno si sarebbe immaginato per Call of Duty, ambientato inizialmente nella Seconda Guerra Mondiale, nelle concitate ore dello sbarco in Normandia. In questo senso, però, ciò che è rimasto da quel primo capitolo è innanzitutto l’accuratezza storica e il realismo con cui si affrontano le missioni e l’intera esperienza di gioco. I luoghi e le strutture delle città attraversate sono riprodotte con la massima fedeltà possibile, attingendo anche a storie realmente avvenute: nel primo capitolo ad esempio era presente il campanile della chiesa di Sainte-Mere-Eglise, in Normandia, su cui si impigliò uno dei paracadutisti della divisione statunitense inviata per piazzare i radiofari per gli alleati. Una situazione rappresentata anche nel gioco, tratta dal libro di Cornelius Ryan, “Il Giorno più lungo”, e riferita al soldato John Steele della 82esima divisione.
Oltre la fedeltà storica, che impreziosisce i vari capitoli della saga, Call of Duty ha da sempre rappresentato una novità nel genere degli sparatutto anche per la sua complessità strategica. Fino alla pubblicazione del titolo dell’Activision, infatti, gli sparatutto più famosi, come Doom, Wolfenstein, Quake, avevano sostanzialmente solo un obiettivo, e cioè sparare a qualsiasi forma si muovesse nel minor tempo possibile, anche con orde di nemici davanti. Call of Duty ha portato a un altro livello le possibilità di interazione con i propri compagni e con il nemico. Innanzitutto perché, essendo una simulazione di guerra, l’avversario da eliminare non compare necessariamente all’improvviso o si lancia con furia verso il giocatore. E quindi è possibile ripararsi dietro oggetti, attendere che il nemico si sposti o si faccia vedere, collaborare con i propri compagni di squadra comandati dall’AI del gioco: tutte dinamiche che rendono Call of Duty complesso da un punto di vista strategico e impossibile da vincere semplicemente con una buona mira.
Il trailer emozionante del primo Call of Duty (2003).
Oltre alla campagna in giocatore singolo Call of Duty offre poi diverse modalità di gioco in multiplayer, permettendo quindi di disputare partite online con e contro giocatori provenienti da diverse parti del mondo (ma limitatamente alla propria regione). Tra quelle presenti sull’ultimo titolo, Modern Warfare, hanno fatto ritorno le Operazioni Speciali, ovvero missioni da compiere insieme ad altri giocatori online ma contro l’AI del gioco, una sorta di mini-campagna in gruppo. Accanto a queste ci sono ovviamente le varie e vastissime modalità multigiocatore che con Modern Warfare presentano una novità sostanziale: la possibilità di modificare l’arma in gioco utilizzando diversi accessori. In base al proprio stile di gioco, o alla necessità del momento, l’arma può essere trasformata in una a corto raggio, rimuovendo ad esempio il calcio o renderla più leggera eliminando le impugnature, o in un’arma a lungo raggio, usando sostegni per le canne più lunghe o mirini per migliorare la mira.
Warzone
La novità più importante è però rappresentata da Warzone, la modalità gratuita da 150 giocatori di Call of Duty che ricalca il grande successo recente dei titoli Battle Royale e tenta di diventare uno dei principali concorrenti di Fortnite, PUBG, Apex Legends e Valorant. Non è la prima volta che questo genere appare su Call of Duty (che aveva qualcosa di simile in Black Ops IIII, con Blackout come modalità interna al gioco) ma quello pubblicato il 10 marzo 2020 è indubbiamente il punto di arrivo di Activision. In primo luogo perché gratuito: un dettaglio non indifferente che ha ampliato enormemente la comunità di videogiocatori che hanno provato il gioco, in gran parte rimanendo soddisfatti. Secondo, perché soprattutto su PC vanta finalmente meccaniche di movimento meno “legnose” e più fluide, necessarie per i giocatori più esigenti che da sempre chiedono una simulazione più realistica del movimento dell'arma in primo piano che possa muoversi e soprattutto ruotare rapidamente da destra a sinistra (aspetto che CoD ha sempre sofferto).
Una delle armi del gioco: la Kilo 141.
Lo stesso Forbes, in un articolo a cura di Paul Tassi, definisce Warzone migliore di Apex Legends. Il primo punto a favore nasce dalla modalità di cura e recupero della propria vita. Se su Apex Legends sono presenti svariate tipologie di recupero, sia per la vita che per lo scudo, su Warzone esiste un sistema di autorigenerazione nel tempo, permettendo al giocatore di potersi dedicare di più a ciò che accade intorno a lui piuttosto che perdere attimi e minuti preziosi a decidere quanto curarsi e con quali oggetti. Il secondo punto sono le armi, che si aggiornano e diventano migliori ogni qual volta si trovano accessori più o meno rari, raccogliendoli anche solo passandovi sopra nell’ottica, anche in questo caso, di togliere meno tempo possibile alle strategie di battaglia vere e proprie.
Ci sono due ulteriori caratteristiche, assenti negli altri Battle Royale, che rendono Call of Duty un gioco più complesso e sfaccettato. La prima è quella delle mini-missioni, obiettivi intermedi che evitano di dover stare seduti immobili ad attendere l’arrivo o il passaggio dei nemici. La seconda è il cosiddetto Gulag - cioè una stanza in cui viene catapultato il giocatore la prima volta in cui viene ucciso e in cui troverà un altro giocatore nella stessa condizione. Stessa arma, luogo chiuso: chi elimina per primo l’altro torna in partita.
Call of Duty come esport
La scena competitiva di CoD inizia ufficialmente nel 2013 con la prima edizione, vinta dai Fariko Impact, della Call of Duty Championship - cioè sostanzialmente i Mondiali di Call of Duty a cui partecipano i migliori team al mondo. Dopo i primi tre anni passati tra Xbox 360 e Xbox One, l’esport di Call of Duty ha infine deciso di adottare la PlayStation 4, ancora oggi riconosciuta ufficialmente come unica piattaforma. Dopo alcuni anni in cui la scena competitiva di Call of Duty è sembrata per Activision più che altro come un ornamento accessorio, una forma di pubblicità aggiuntiva, qualora ce ne fosse bisogno, per il proprio videogioco, le cose sono iniziate a cambiare tra la fine del 2016 e il 2017. In quel periodo è arrivata la decisione di realizzare un circuito di competizioni vero e proprio, ideato appositamente per presentare CoD come un esport a tutti gli effetti nel pieno del boom del settore. L’intera stagione 2017 ha totalizzato un montepremi di 4 milioni di dollari, salito negli anni fino ai 6 milioni dell’attuale stagione 2020, di cui 2 milioni finiscono direttamente nelle casse della squadra vincitrice insieme agli anelli celebrativi per i giocatori.
Il circuito competitivo si articola sostanzialmente in questo modo. Ci sono trentadue squadre partecipanti: 16 qualificate dalla Global Pro League, il campionato regolare di Call of Duty che intrattiene gli appassionati durante l’anno; altre 16 dai Last Chance Qualifier, ultima occasione per le squadre di qualificarsi, giocate in ogni regione competitiva. Divise in otto gironi da quattro, le prime due proseguono nel tabellone dei playoff mentre la terza e la quarta salutano il torneo. Poi si continua con i playoff a doppia eliminazione: perdere una partita non pregiudica definitivamente la permanenza nel torneo ma la squadra “cade” nel tabellone inferiore. Alla fine si scontreranno nella Grand Final la vincitrice del Winner Bracket e la vincitrice del Loser Bracket.
Damon “Karma” Barlow, il Signore degli Anelli di Call of Duty: l’unico giocatore ad aver vinto tre titoli mondiali, rispettivamente con i Fariko Impact (2013), i Complexity Gaming (2014) e gli Optic Gaming (2017).
Inizialmente Call of Duty aveva scelto per la sua scena competitiva di adottare il sistema Open, ovvero che qualunque squadra, contando solo sulle proprie abilità, poteva partire da zero e potenzialmente diventare campione del mondo attraverso le qualifiche online e le successive fasi delle varie competizioni. Un modello che, però, è stato abbandonato recentemente, complice la crescita del settore esports e una maggior domanda di sostenibilità per i team, a favore di un sistema più classico di franchigie in una lega chiusa, cioè senza promozioni e retrocessioni, proprio come molti sport tradizionali statunitensi (ma anche altri esport come l’LCS di League of Legends o la Overwatch League). Le squadre, attualmente dodici, sono associate a diverse città, rappresentandone la franchigia: esistono quindi gli Atlanta Faze, i Chicago Huntsmen, i Paris Legion, i Minnesota Rokkr o i London Royale Ravens. Ultima, ma non meno importante, il passaggio avvenuto tra il 2018 e il 2019 da quattro a cinque giocatori per squadra, equiparandosi sostanzialmente agli esports di squadra presenti nel mondo (a eccezione di Overwatch, in cui si gioca in sei).
Tre le modalità competitive su cui si disputa la Call of Duty League, giocata in questa stagione su Modern Warfare. “Search and Destroy”, in cui una squadra deve cercare di piazzare una bomba e difenderla fino all’esplosione mentre gli avversari devono evitare che venga piazzata o tentare di disinnescarla. “Hardpoint”, in cui delle zone di mappa a rotazione diventano delle aree da difendere per più tempo possibile. Infine “Domination”, in cui le squadre devono mantenere il controllo contemporaneamente di uno o più di tre punti fissi. Nella prima e nella terza modalità si gioca su più round e le squadre si invertono tra chi “difende” e chi “attacca”, mentre su Hardpoint si gioca fino al raggiungimento di un tetto massimo di punti che consegna automaticamente la vittoria alla squadra.
C’è da dire che l’introduzione delle franchigie su Call of Duty ha portato sia vantaggi che svantaggi. Da un lato ogni giocatore ha un salario minimo garantito di 50.000 $ l’anno, inclusa l’assicurazione sulla vita e altri benefit, cosa non scontata invece in un sistema Open, soprattutto alla luce del fatto che i migliori possono contrattare per ottenere una retribuzione anche superiore.
Chiudere la lega significa però ovviamente anche escludere tutte quelle realtà che non ne fanno parte. A fine 2019 hanno fatto molto scalpore le decisioni di alcune organizzazioni storiche di Call of Duty che hanno deciso di abbandonare la scena competitiva. È il caso ad esempio degli 100 Thieves e in particolare del suo fondatore e attuale presidente Matthew “Nadeshot” Haag, uno dei più importanti giocatori di CoD, in particolare con la maglia degli Optic Gaming, che ha ritenuto incerto e senza sufficienti garanzie l’investimento da 25 milioni di dollari necessario per entrare nella lega. Lo stesso hanno fatto anche gli Evil Geniuses e gli eUnited, vincitori dei due recenti mondiali, rispettivamente nel 2018 e nel 2019.
Activision ha cercato di risolvere questi problemi tornando parzialmente sui propri passi, creando a fianco del sistema delle franchigie le cosiddette Call of Duty Challenger Series, ovvero tornei per i giocatori amatoriali e semi-professionisti che competono per un montepremi da 1 milione di dollari. Al di là del reale valore competitivo, le Challenger Series rappresentano soprattutto una vetrina per i giocatori che aspirano al professionismo da cui le squadre della CoD League possono attingere per trovare nuovi talenti e rinnovare i propri roster, proprio come la NBA e il circuito universitario.
Una conferma che Call of Duty non è solo un videogioco di incredibile successo ma anche uno degli esport con il circuito competitivo più strutturato e simile a quello degli sport tradizionali. E quindi, per gli spettatori, più facile da comprendere tra quei videogiochi che non simulano uno sport vero e proprio. Insomma, gli anelli non rappresentano solo una facile appropriazione, ma anche il simbolo di una scena competitiva matura.