Eastern Conference
Siamo arrivati al primo giro di boa di queste Semifinali di Conference, quando le squadre che hanno iniziato in trasferta possono finalmente tornare ad abbracciare il pubblico amico. Tre serie su quattro sono in parità e la più attesa vede avanti i campioni in carica, nonostante le polemiche, gli occhi rossi e le dita storte. Prima che stanotte si riparta a campi invertiti facciamo un punto su quello che è successo finora.
Milwaukee Bucks - Boston Celtics (1-1)
Di Niccolò Scarpelli
Nonostante siano finite con due larghe vittorie, una per parte, le prime due partite tra Milwaukee Bucks e Boston Celtics hanno già fornito diversi indizi su quello che sarà il filone tecnico-tattico della serie. Nella gara d’apertura sono stati i Celtics a fare la prima mossa, sovrastando gli avversari e portando a proprio vantaggio il fattore campo grazie a un’esecuzione certosina del piano partita studiato da coach Brad Stevens. La capacità dell’allenatore di Boston nel preparare questo genere di partite ormai non è più un mistero per nessuno, eppure i Bucks si sono fatti sorprendere, andando a sbattere contro un vero e proprio muro.
Per contenere lo strapotere di Antetokounmpo a centro area, i Celtics hanno sfruttato sapientemente tante delle tecniche con cui avevano annichilito Ben Simmons un anno fa, costruendo attorno ad Al Horford una difesa in grado di stringersi al centro per poi riaprirsi come una medusa. Horford è uno dei pochissimi giocatori in NBA in grado di tenere fisicamente contro Giannis, costringendolo a perdere potenza nelle sue penetrazioni grazie alla rapidità dei suoi piedi e alla velocità della sua mente, che gli permette di leggere in anticipo i movimenti dell’avversario, specie se può agire in uno spazio molto ristretto.
La presenza di Horford permette a Stevens di variare a piacimento il proprio scacchiere tattico anche in attacco, dove in gara-1 i Celtics hanno mandato in mille pezzi quella che è stata la miglior difesa della stagione a suon di pick-and-pop tra lui e Kyrie Irving.
Quella tra Bucks e Celtics è una serie tra stili contrapposti: Milwaukee vuole concedere poco al ferro (miglior difesa nella restricted area della stagione), chiudendo l’area e confidando nell’immensa apertura di braccia dei propri giocatori per disturbare i tiratori sul perimetro (dove invece permettono il 2° maggior numero di triple, ma solo a specifici avversari). L’attacco dei Celtics si trova però a suo agio proprio nelle zone lasciate scoperte, tanto è vero che ha chiuso al 27° posto per tentativi al ferro, al 29° per liberi tentati – altro punto cardine della difesa simil-Spurs di Budenholzer: concedere pochi tiri liberi – e confida sulle qualità dei propri giocatori per punire dalla lunga e dalla media distanza.
Condizione che si è verificata nella prima partita, dove i Celtics hanno tirato col 41% da tre (10/20 nelle triple aperte, molto aperte) e con un sontuoso 55.4% dalla media distanza, punendo ogni rotazione tardiva o mismatch favorevole. Dall’altra parte, l’incapacità di Antetokounmpo di sfondare la barriera ha inceppato la fluidità offensiva dei Bucks, che hanno tirato malissimo dal perimetro e ancora peggio in area (50% al ferro e un insostenibile 0/12 nel resto dell’area).
Nelle prime due clip la bravura dei Celtics nel leggere la difesa dei Bucks, mentre nella terza tutte le difficoltà di Eric Bledsoe in gara-1. Lo 0/4 da tre è solo la punta dell’iceberg della sua prestazione negativa, e per quanto la tripla nei primi secondi del possesso sia uno dei marchi di fabbrica dell’attacco, i Bucks hanno bisogno della sua aggressività al ferro per scardinare la difesa di Boston.
Nonostante la pre-tattica di Antetokounmpo e Budenholzernelle 48 ore prima di gara-2, i Bucks si sono presentati alla seconda sfida non solo con più energie e intensità, ma anche con un piano partita diverso e più accorto. Per quanto la difesa sui pop di Horford sia rimasta pressoché invariata, i Bucks hanno iniziato a cambiare di più sui blocchi, sia contro i lunghi che soprattutto contro le guardie, impedendo così ai Celtics di prendersi i vantaggi della prima partita e costringendo spesso Irving e Brown a dover ricreare quasi dal nulla in isolamento (cosa che era successa in parte anche in gara-1, quando però le percentuali avevano sostenuto gli esterni dei Celtics).
Ancora più importante, questo ha permesso alla difesa di Milwaukee di mantenere la consueta presenza a centro area, potendo sfruttare le braccia lunghe per intasare gli spazi e intercettare le traiettorie di passaggio.
Nella prima clip la difesa senza cambi di gara-1, nella seconda invece Middleton accetta il cambio e disturba il tiro di Irving. Dopo il 10/17 combinato nei tiri contestati di gara-1, Irving e Brown hanno chiuso la seconda sfida con 6/18.
Nella peggior prestazione ai playoff della carriera di Irving – a cui vanno sommate le serate di no di Jayson Tatum (che deve ancora entrare in questa serie) e Gordon Hayward, il quale dopo una buona prestazione di gara-1 è regredito come spesso gli è accaduto nella sua altalenante stagione – i Bucks hanno avuto vita facile nel chiudere l’area, concedendo appena il 41% dentro grazie a esibizioni di aiuti-e-recuperi di impressionante potenza.
Gli stop difensivi hanno restituito a Milwaukee anche le certezze in attacco, soprattutto in transizione dove, nonostante gli sforzi dei Celtics, gli uomini di Budenholzer sono tornati ad essere letali. La maggiore aggressività con cui Antetokounmpo ha attaccato il canestro gli ha restituito il consueto furore, aprendo spazi per Bledsoe e Middleton, straordinario leader della contraerea Bucks con 7 delle 20 triple di serata, nuovo record di franchigia ai playoff.
La grande prestazione balistica di Middleton (7/10 da tre) in gara-2 nasce soprattutto dalle triple in transizione. Per i Bucks è un’arma imprescindibile, così come avere un Bledsoe più aggressivo e lucido nelle letture.
I Celtics tornano a casa con l’obiettivo minimo raggiunto e sarebbe ingenuo non aspettarsi una risposta da parte di Stevens agli aggiustamenti di gara-2. Isolare più spesso Horford o Tatum in post contro avversari più piccoli di loro (anche se con Tatum per ora non ha funzionato) potrebbe essere una soluzione percorribile, così come sfruttare il mismatch lontano da canestro tra Brown e Mirotic. Inoltre resta da testare la tenuta del pick and roll tra Irving e Horford: i Bucks si sentono la squadra più forte e vorranno cercare di imporre la loro visione tattica, ma bisogna attendersi ulteriori cambiamenti.
Difficilmente Irving ripeterà l’1/10 su tiri non contestati di gara-2, e la sua capacità di battere l’uomo dal palleggio tornerà a farsi sentire sul parquet amico, dove invece la mano calda dal perimetro di Giannis (5/9) potrebbe vacillare. Dall’esito delle due partite al Garden rischia di passare tutta la serie: non resta che mettersi comodi e godersi lo spettacolo.
Toronto Raptors - Philadelphia 76ers (1-1)
Di Fabrizio Gilardi
Chi avesse nostalgia di partite giocate a basso ritmo, basso punteggio e basse percentuali e che rendono onore ai fasti passati della Eastern Conference - che tradizionalmente offre uno stile di gioco spigoloso e attento a prendere un canestro in meno dagli avversari anziché a farne uno in più - farebbe un favore a se stesso puntando la sveglia alle 2 di questa notte per seguire la terza partita tra Raptors e Sixers, la prima a Philadelphia.
Se è vero che una serie di playoff non inizia realmente finché non si assiste a una vittoria in trasferta, questa serie è assolutamente nel vivo, anche perché in 96 minuti si è già visto di tutto e il contrario di tutto o quasi, con i rapporti di forza che sono tutti da definire e i due allenatori che hanno già dovuto attingere al cilindro da prestigiatore alla ricerca di qualche coniglio da gettare in campo.
Come detto, tra le quattro serie di semifinale di conference questa è quella più aderente a certi canoni tipici della post-season: nelle prime due partite sono stati giocati in media 96 possessi (dato inferiore anche al 97 fatto registrare dai Memphis Grizzlies, la squadra più lenta della regular season) e l’83% delle azioni offensive si è sviluppato a difesa schierata, come nell’attacco dei San Antonio Spurs. Con soli 40 tiri da 3 segnati in tutto si sta al passo delle squadre meno prolifiche anche da questo punto di vista, per completare il quadro di una sfida che con il basket pace-and-space tipico degli ultimi anni ha davvero poco a che fare.
Su gara-1 non c’è tantissimo da dire perché ha offerto il risultato che era lecito attendersi mettendo sul parquet di Toronto la versione standard dei Raptors (58 vittorie con pilota automatico inserito e gestione estremamente cauta delle energie dei giocatori) contro quella standard dei Sixers (51 vittorie abusando dell’apparente salute di Embiid e con due scambi significativi che hanno cambiato il volto della squadra).
O ancora più semplicemente: Kawhi Leonard e Pascal Siakam hanno realizzato la prestazione più efficiente di sempre per una coppia di compagni che ha segnato 70 o più punti ai playoff in una singola partita (74 punti e il 73.7% dal campo, superando Charles Barkley e Dan Majerle). Il primo, logico e necessario aggiustamento che Brett Brown ha utilizzato per gara-2 è quindi stato di cercare di limitare Leonard, che ai playoff si trasforma nel Demogorgone, affidandone la marcatura a Ben Simmons, che non è il difensore perfetto, ma ha dimensioni e atletismo sufficienti a restare sempre a contatto con Kawhi e finora è riuscito dove tutti i compagni stanno fallendo.
Ben Simmons in gara-2 ha costretto Kawhi Leonard lontano dal ferro e gli ha impedito conclusioni facili, specie da tre punti.
Leonard ha comunque segnato 35 punti con 24 tiri in gara-2, ma le statistiche dicono molto altro: con Simmons nei paraggi ed Embiid a centro area Kawhi è stato parecchio più passivo e di conseguenza più arginabile, tanto che nei 77 possessi in cui si è trovato accoppiato con il Rookie of the Year uscente ha segnato solo 31 punti con il 48% di percentuale effettiva e nessun canestro da oltre l’arco; contro gli altri difensori che si sono dovuti occupare di lui per più di un paio di occasioni invece è stato praticamente infallibile, con 16/20 al tiro, 5/7 da 3 e il 92.5% dal campo.
La seconda parte del piano partita di Brown è stata dedicata a Siakam, che in questi playoff è stato abbastanza nettamente il secondo miglior realizzatore e secondo miglior giocatore dei Raptors e che ad ogni partita o quasi mostra miglioramenti in piccoli o grandi aspetti del suo gioco. Solamente che un conto è essere la valvola di sfogo per le azioni create dai compagni, specie Lowry e Gasol che ormai tirano poco volentieri e sono totalmente al servizio della squadra; altra cosa è agire da vera e propria seconda opzione, non solo per numero di tiri, ma anche per i compiti in fase di creazione di gioco.
Il capo allenatore dei Sixers ha scommesso sulla scarsa esperienza del giovane camerunense e lo ha invitato a prendersi ulteriori responsabilità, decidendo di assegnare a Embiid il compito di marcarlo - o meglio, lasciando spazio a Siakam sul perimetro così che Joel potesse contemporaneamente proteggere il ferro e in seconda battuta contestare i tiri in avvicinamento del connazionale. (A margine: date al Camerun una point guard e un tiratore, che con una frontline del genere si può ambire anche alla medaglia olimpica).
In gara-2 Siakam ha segnato solo 3 dei 10 tiri tentati direttamente contro Embiid.
Senza praticamente mai uscire dalla sua comfort zone in area pitturata, Embiid ha prima sfidato Siakam al tiro, poi lo ha attirato verso il centro dell’area e poi lo ha lentamente escluso dalla partita, fino a renderlo un fattore quasi marginale nell’economia della stessa; è la strada tracciata nel 2015 da Steve Kerr e dagli Warriors, quando Andrew Bogut fu messo in marcatura su Tony Allen, il peggior tiratore da fuori dei Grizzlies, senza realmente mai doverlo marcare, ma limitandosi a guardarlo da lontano mentre occupava il centro area. Siakam è un giocatore molto più pericoloso di quanto Allen sia mai stato, sicuramente tra un anno sarà migliorato abbastanza da rendere inefficaci soluzioni di questo tipo (ed è possibile che lo sia anche nel giro di una settimana), Ma per vincere una fondamentale partita in trasferta lo stratagemma ha funzionato, quindi onore a Brown per l’idea e a Embiid per l’esecuzione, già sperimentata con successo in alcune occasioni in regular season, e viva i playoff, che costringono i coaching staff a ragionare in modo non convenzionale per assicurarsi ogni possibile spiraglio di vantaggio competitivo sui rivali del momento.
Anche grazie a questi accorgimenti i Sixers hanno tenuto i Raptors a soli 89 punti e 93.7 punti per 100 possessi, terza peggior prestazione offensiva di tutta la stagione per Toronto, e hanno quindi vinto l’incontro limitandosi a svolgere il più classico dei compitini in attacco, una sufficienza stiracchiata che si è basata sulla serata sì di Jimmy Butler, definito nelle interviste post partita “James Butler, l’adulto in campo” con notevole disappunto di Jimmy che… si chiama proprio Jimmy, e con il grande rendimento dello stesso Embiid, che acciaccato dagli ormai ricorrenti problemi al ginocchio e ulteriormente indebolito da problemi intestinali ha faticato enormemente in fase realizzativa (12 punti con 2/7 al tiro e 6 palle perse), ma è stato pressoché perfetto in ogni altro aspetto del gioco, compresi gli assist per i compagni, non certo la sua specialità.
Quattro delle 10 triple segnate da Phila in gara-2 sono state assistite da Embiid. Lo stile è rivedibile, ma la capacità di attirare la difesa e mantenere il contatto visivo con i tiratori è innegabile.
La sensazione è che Phila abbia bisogno di partite simili per avere chance di vincere la serie - quindi brutte, sporche, a basso punteggio, basate sul fisico e sui duelli individuali, magari sperando di trovare di volta in volta un jolly da poter giocare, come quelli che in gara-2 hanno preso le sembianze di Greg Monroe (10 punti e 5 rimbalzi in 12 minuti scarsi) e James Ennis, che è ormai l’unico cambio per gli esterni in una rotazione a sette giocatori cui si aggiunge qualche fugace apparizione.
Toronto è probabilmente la squadra più forte in senso lato, con più armi a disposizione e più versatile, ma a propria volta ha bisogno del contributo di qualcuno dei suoi cambi di lusso - Van Vleet, Ibaka e Powell sono stati letteralmente asfaltati nei 15 minuti giocati in gara-2 - e di un intervento da parte del coaching staff, che fino a qui si è limitato ad osservare, ma deve innanzitutto rivedere le rotazioni. Finora nella serie i Sixers hanno perso 85-64 i 36 minuti in cui Embiid è stato in campo contro Gasol e vinto 63-35 i 26 minuti in cui si è trovato davanti Ibaka, segno che probabilmente la prima cosa da fare per coach Nurse sarà portare il più possibile vicino a zero questi ultimi, affidandosi ad Ibaka esclusivamente quando The Process sarà in panchina. La prossima mossa tocca a lui, allenatore alla prima stagione e quindi esordiente ai playoff: non male come banco di prova.
Western Conference
Golden State Warriors - Houston Rockets (2-0)
Di Dario Costa
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Quella tra Warriors e Rockets, per il momento, sembra essere la serie più gattopardesca di questi playoff. Rivalità ormai acclarata, visto che quello in corso è il quarto confronto diretto nelle ultime cinque post-season. Golden State-Houston avrebbe dovuto in teoria presentare alcune novità rispetto al capitolo più recente: innanzitutto il rendez-vous arrivava con un turno d’anticipo, in più i campioni in carica tornavano ad avere il fattore campo, mentre la presenza di Cousins da una parte e l’assenza di Ariza dall’altra rappresentavano interessanti variazioni del quadro complessivo rispetto alla scorsa stagione.
L’infortunio del centro, combinato con l’impellente necessità di lasciarsi alle spalle l’ostica serie con i Clippers, ha però spinto Kerr a puntare da subito sui suoi Hamptons Five, lasciando al collega D’Antoni la difficile soluzione del puzzle degli accoppiamenti, risolto dal coach dei Rockets puntando sul quintetto ormai rodato con Gordon titolare. Gara-1 è stata decisamente la più equilibrata delle prime due sfide giocate alla Oracle, con il punteggio sempre in bilico e otto sorpassi tra padroni di casa e ospiti. Poche le novità tattiche rispetto a quanto visto in precedenza, con Houston alla continua ricerca del cambio sul pick and roll finalizzato a forzare Curry, apparso lontano dalla condizione ottimale, in marcatura su Harden e Golden State a rispondere con Iguodala incollato all’MVP in carica e Green e Durant ad alternarsi in aiuto sui possessi decisivi. Dall’altra parte, un Durant in stato di grazia è stato oggetto delle attenzioni di Tucker e Paul, che a dispetto dell’evidente gap a livello fisico hanno costretto il fuoriclasse degli Warriors a dispiegare tutto il suo immenso talento alla ricerca del fondo della retina.
Tutto il repertorio offensivo di un Durant in beast-mode.
I Rockets sono riusciti a restare in partita nonostante la magra percentuale dalla lunga distanza (29.8%), grazie a una difesa molto attiva sulle linee di passaggio avversarie (20 le palle perse dagli Warriors contro le 14 di Harden e compagni). A consegnare la vittoria a Golden State, tralasciando qualche interpretazione arbitrale discutibile, è stato soprattutto il predominio a rimbalzo (38 a 26 complessivi, 8 a 3 il conteggio di quelli offensivi) e la decisione di D’Antoni di lasciare in campo Nenè nei momenti decisivi, scelta puntualmente punita da Curry.
Curry, fin lì autore di una prova poco brillante, circuisce Nenè e fa esplodere la Oracle.
Gli aggiustamenti dal coaching staff di Houston per gara-2 partivano dalla decisione di lasciare Capela su Durant, nel tentativo di recuperare centimetri nella copertura in single coverage, con discreti risultati per il lungo svizzero, decisamente più in partita rispetto all’opaca prova di domenica. Allo stesso tempo, nel piano architettato da Bzdelik, veniva portata all’estremo la scelta di sfidare al tiro da fuori Iguodala e Green, risoluzione che finiva per pagare buoni dividendi (3/10 complessivo nelle prime due gare per il duo, 14.3% la percentuale di Green in questi playoff). Proprio le due ali sono risultate però la chiave per gli Warriors: Green, in condizione atletica clamorosa, ha agito come fulcro della manovra offensiva (7.9 assist di media nella post-season, quinto miglior passatore), mentre Iguodala è il barometro della squadra su entrambi i lati del campo, tanto da rendere di fatto necessaria la sua presenza sul parquet (32 i minuti giocati in gara-1 e 34 in gara-2 a fronte di una media di 27.6 nei playoff e 23.2 in stagione regolare).
Pur tirando decisamente meglio dalla lunga distanza (42.5%), i Rockets si sono trovati a dover inseguire l’avversario per tutti e 48 i minuti, soffrendo ancora a rimbalzo (18 a 10 per Golden State il conteggio di quelli offensivi) e pagando le tantissime palle perse, ma restando comunque in scia grazie ad un parziale di 13-2 a cavallo tra terzo e quarto quarto. Rivers, assente perché debilitato dall’influenza in gara-1, ha compensato l’assenza temporanea di Harden per un problema all’occhio mentre Curry, limitato da una distorsione al dito medio della mano sinistra maturata nelle fasi iniziali della gara, ha confermato il momento di difficoltà (6/23 da tre nelle prime due gare della serie). A decidere una partita obliqua e contraddittoria è stata, non certo per caso, l’essenzialità di Klay Thompson.
21 punti, 5 rimbalzi, 2 assist, 3 palle rubate in 41 minuti per il padrone del bulldog Rocco.
La serie, dopo una sosta di quattro giorni indispensabile per recuperare un po’ di energie, si sposta in Texas per le prossime due partite. La domanda, per quanto ovvia, è: cosa possono fare di più e meglio i Rockets per restare in corsa? Alzare ancora l’intensità difensiva, per prima cosa, e puntare a un rendimento più omogeneo tra le stelle conclamate della squadra e il resto dei compagni, in particolare della panchina. Panchina che sarà fattore determinante anche per gli Warriors, visto che fin qui Kerr ha puntato tutto sul suo quintetto base, la cui tenuta fisica potrebbe rivelarsi complicata, costringendolo ad allungare le rotazioni nella speranza che i vari Livingston, che qualche segnale l’ha già mandato in gara 2, Looney e Bogut contribuiscano in misura maggiore.
Denver Nuggets - Portland Trail Blazers (1-1)
Di Dario Ronzulli
Nuggets e Blazers sono due squadre che si assomigliano molto più di quanto non sembri. Entrambe hanno una superstar assoluta (Jokic e Lillard), un giocatore spalla (Murray e McCollum) e gerarchie precise intorno a loro. Messa così la serie prometteva un equilibrio che si può spezzare in base a quanto una squadra riesce a limitare la stella dell'altra, e al tempo stesso in base a quanto il supporting cast riesce ad essere affidabile più dell'altro. Le prime due partite ci hanno detto che il secondo elemento può pesare più del primo.
La vittoria in gara-1 dei Nuggets è arrivata principalmente per tre motivi. In primis il fattore Jokic, che i lunghi di Portland non hanno saputo contrastare in difesa ed impensierire (eccezion fatta per Kanter) in attacco. Di fatto il serbo ha fatto la solita partita dominante con tanto di tappeto rosso allestito per l'occasione.
Il pick and roll Lillard-Kanter è stato a lungo cavalcato dai Blazers, come da pronostico. E come da pronostico la difesa di Jokic è stata fin troppo morbida e permissiva ma...
… a Malone sta benissimo così, visto che poi in attacco il serbo è in grado di domare il tempo e lo spazio e di usare le mani e/o il corpo al meglio, nonostante la buona opposizione di Kanter in parecchi casi.
Non solo Jokic, però: anche Millsap e Plumlee hanno fatto il bello e il cattivo tempo sotto canestro. Nella prima gara è apparso evidente come l'assenza di Nurkic e la spalla malandata di Kanter abbiano acuito la differenza tra i reparti. Infine le palle perse dei Blazers, 18, che hanno prodotto l'enormità di 23 punti per Denver: è il secondo dato più del primo che è cresciuto troppo per gli standard stagionali della franchigia dell'Oregon, considerando anche la serie contro i Thunder.
Nel secondo episodio si è ribaltato tutto. A cominciare dallo sviluppo del pick and roll dei Blazers, non più legato quasi esclusivamente a far attaccare il ferro all'uomo di Jokic, bensì a far partire un movimento frenetico del pallone per far spostare, e stancare, tutta la difesa.
Qui le rotazioni Beasley e Murray sono tardive e alla fine Rodney Hood – uno dei migliori, come in gara-1 – ha spazio per la tripla. Non sono arrivati molti canestri dall'arco così ma i Blazers hanno continuato ad eseguire senza perdere ritmo.
Fondamentale poi l'apporto difensivo della panchina Blazers grazie a Hood e con uno Zach Collins che è stato meno sballottato da Jokic rispetto a 48 ore prima. La coppia Harkless-Aminu è passata da -23 di plus/minus a +16 e da un tragico -50.3 di rating ad un baldanzoso +40, il tutto considerando che Harkless ha giocato solo 12 minuti prima che un infortunio alla caviglia lo costringesse a lasciare il parquet. Infine le palle perse di Portland sono state appena 11 e i tanti errori al tiro non hanno portato punti in contropiede perché c'è stato sempre equilibrio nel coprire il campo in transizione.
Ma la notizia migliore per coach Stotts è che la serata con il 30% al tiro di Damian Lillard non ha inciso negativamente: questo non vuol dire che i Blazers possano fare a meno di Dame come se nulla fosse, bensì che possono non dipendere dalla loro stella per una sera anche in trasferta. Dall'altra parte invece Malone ha visto Jokic limitato dai falli e dagli adeguamenti difensivi – blitz continui per portare raddoppi sulle ricezioni in post – e gli altri semplicemente incapaci di fare canestro.
Un esempio dal secondo quarto, quello in cui si sono manifestate in modo più evidenti le difficoltà al tiro di Denver. Jokic riceve in post alto marcato da Hood, Kanter resta in zona e si avvicina anche Lillard. Ma lo fa un po’ troppo, perché il serbo ha una comoda linea di passaggio per Beasley il quale, piedi per terra, sbaglia. A rimbalzo ci sono solo maglie ospiti, una rarità in una serata in cui i Nuggets hanno dominato a rimbalzo offensivo senza però trarne un reale vantaggio.
Cosa aspettarsi in Oregon? Innanzitutto ci sarà da capire se Portland potrà contare su Harkless (infortunato, come detto) e Evan Turner (che nel parapiglia finale dovuto ad uno scontro tra Kanter e Torrey Craig è entrato in campo dalla panchina e potrebbe essere sospeso). Poi: i Blazers sapranno ripetere fisicamente la prova difensiva su Jokic? E Denver continuerà a tirare così male anche con spazio?
Sono dubbi che rendono la serie estremamente interessante e aperta ad ogni ipotesi. La sensazione è che l'equilibrio possa essere ancora rotto dal rendimento non né delle superstar ma da tutti gli altri - e dalle panchine in particolare.